L’accertamento tecnico preventivo

Che cos’è ed a cosa serve l’Accertamento Tecnico Preventivo

L’accertamento tecnico preventivo è un procedimento cautelare, volto a stabilire – quasi a voler congelare – le cause tecniche oggettive che hanno determinato un vizio. L’istituto (di seguito ATP) è disciplinato all’art. 696 c.p.c., ove è testualmente disposto che, “chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose, può chiedere, a norma degli articoli 692 e seguenti, che sia disposto un accertamento tecnico”. A tale disposto, la L. n. 80/2005 ha aggiunto che l’accertamento tecnico, se ne ricorre l’urgenza può essere disposto “anche sulla persona dell’istante e, se questi vi consente, sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta”, recependo, così, le pronunce della Corte costituzionale che, in più occasioni, si era occupata della questione. La necessità di far disporre un accertamento tecnico, o un’ispezione giudiziale,può sorgere per vari motivi, ad esempio, per il pericolo di deperimento o alterazione delle prove, la possibilità di modifica dei luoghi e delle circostanze, la necessità di provvedere alla sistemazione ed al ricondizionamento dei luoghi e/o dei macchinari, ovvero la necessità di effettuare interventi di qualsiasi tipo, che consentano il ripristino con urgenza dello status quo ante o comunque l’eliminazione della situazione di pericolo o di pregiudizio o di inutilizzabilità che si è venuta a creare in seguito all’evento contestato. Generalmente ci si affida all’istituto dell’ATP, tutte le volte in cui si ravvisi la necessità di condurre interventi che, con urgenza, ripristinino lo stato dei luoghi rimuovendo, così, le situazioni pregiudizievoli, cagionate da quanto contestato, o tutte le volte in cui vadano indagate la qualità o la condizione di cose e fatti.Pertanto, si potrà rivolgere un’istanza al giudice territorialmente competente per far accertare, fatti, circostanze e stato dei luoghi, prima di pronunziare sentenza, al fine di evitare che determinate situazioni peculiari possano modificarsi nel tempo, rendendo nulle le successive azioni legali e di giudizio. L’accertamento tecnico preventivo è quindi uno strumento che mira a costituire una prova “prima del processo” ed “in vista del processo”. Dunque l’ATP svolge anche una finalità cognitiva di immediato rilievo nel giudizio di merito. Attenzione: La Legge n. 80/2005 ha anche formulato ex novo, l’art. 696 bis c.p.c. concernente l’istituto della consulenza preventiva, prevedendo che l’esperto possa essere chiamato dal giudice ad esprimere il proprio parere tecnico – essendo l’ambito d’applicazione dell’istituto l’intera area dei crediti aventi ad oggetto il risarcimento di danni – sia in relazione all’illecito extracontrattuale sia in relazione ai danni da illecito contrattuale. L’art. 696 bis c.p.c. prevede dunque una vera e propria consulenza tecnica preventiva per favorire la conciliazione fra le parti, il cui espletamento può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni previste dall’ultimo inciso del 1° co. dell’art. 696 bis c.p.c. Al consulente, persona esperta e neutrale scelta dal giudice, è richiesto un accertamento tecnico sull’esistenza di un diritto e sulla sua misura «ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Il giudice procede a norma del 3° co. del medesimo art. 696 c.p.c.».

Come richiedere un ATP

• Per prima cosa, prima ancora di richiedere un ATP al giudice, è bene consultarsi con il cliente ed individuare un proprio perito che valuti la situazione dal punto di vista tecnico e vi consigli sulla sussistenza o meno dei presupposti tecnici per avviare la richiesta di ATP.

• Se il perito scelto vi conferma che vi sono i presupposti tecnici per procedere (quali ad esempio la sussistenza di vizi e difetti gravi in un edificio, la non corrispondenza a norme di legge o di settore, o alla regola dell’arte, la violazione di capitolati d’appalto ecc.), certi della sussistenza tecnica dei danni, potrete a questo punto procedere all’istruzione della pratica verificando se vi sono i presupposti giuridici per procedere con un’istanza di ATP.

• La fase di predisposizione del ricorso per ATP è cruciale, perché è con tale atto che si gettano le basi di tutto il procedimento. La positiva redazione di tale atto può, dunque, determinare in modo significativo anche l’esito della futura pronuncia del giudice nella fase del giudizio di merito. Nel ricorso per ATP andranno quindi enunciati i motivi del ricorso stesso, adducendo gli aspetti tecnici contestati ed i danni subiti, indicando, altresì, oltre alle ragioni giustificanti l’urgenza,anche i motivi della domanda di merito cui l’atto è finalizzato, in difetto l’istanza può essere dichiarata inammissibile.

• La consulenza redatta dal perito di parte può aiutare in modo efficace l’Avvocato a predisporre tutte le contestazioni da fare alla controparte sottolineando gli aspetti tecnici cruciali da sottoporre all’attenzione del CTU, nonché gli eventuali quesiti da proporre al giudice sui quali sarà chiamato a rispondere il CTU.

Attenzione: Si ricorda che specie per le controversi in cui gli aspetti tecnici sono predominanti su quelli giuridici, sono fondamentali le perizie redatte dai tecnici, in particolare quella del CTU e del proprio CTP. Il giudice nella sua sentenza finale, non essendo lui un tecnico, farà ampi e dettagliati riferimenti alle perizie per dare sostegno e fondamento alla sua pronuncia. La perizia di parte è quindi sempre alla base dell’ATP ed è comunque un valido strumento che si pone nelle mani dell’Avvocato e molto sta anche alla sua bravura nel farne buon uso (cfr.: Cass. civ., II Sezione, n. 2800 del 06.02.2008, secondo cui, “dagli accertamenti e rilievi compiuti in fase preventiva, il giudice può trarre utili elementi che, apprezzati e valutati unitamente e nel contesto delle altre risultanze processuali, possono concorrere a fondare il suo convincimento in ordine alla fondatezza dell’uno o dell’altro assunto”).

• L’Avvocato deposita il ricorso avanti il Presidente del Tribunale competente per territorio, informando la controparte, secondo le modalità previste 692, 693, 694, 695, 696 cpc.

• Una volta depositata l’istanza di accertamento tecnico preventivo, l’eventuale improcedibilità deve essere contestata o rilevata entro la prima udienza.

• Il Presidente del Tribunale, accolto il ricorso provvede nelle forme stabilite dagli artt. 694 e 695 cpc, mediante ordinanza non impugnabile, nomina un consulente tecnico d’ufficio, il CTU, e stabilisce la data in cui il consulente e le parti debbano comparire dinnanzi al Tribunale.In tale occasione, verranno atresì individuati i quesiti tecnici, in base ai quali, il CTU dovrà esprimersi.

Attenzione: Fino a poco tempo fa la funzione dell’ATP rispondeva a restrizioni procedurali e tecniche ben definite ed era limitata alla pura acquisizione di rilievi planimetrici e/o di documentazione fotografica, tesi a documentare lo stato dei luoghi e/o dei macchinari coinvolti, senza entrare nel merito delle questioni tecniche, senza ricercare le cause degli eventi né la definizione delle responsabilità o delle corresponsabilità delle parti interessate, né tantomeno era consentito al CTU di esprimere giudizi, azzardare ipotesi o osservazioni personali, né ricostruzione dei fatti e degli eventi, che potessero in qualche modo configurarsi come un’indebita ingerenza infatti e in circostanze che ancora dovevano essere provate ed acquisite agli atti istruttori. La L. n. 80 del 2005 ha apportato una modifica di carattere sostanziale alla disciplina giuridica dell’ATP, prevedendo che “L’Accertamento Tecnico Preventivo può comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all’oggetto della verifica”, superando le precedenti posizioni e conferendo al CTU nominato un incarico molto più ampio, per molti versi paragonabile al compito che veniva normalmente assegnato in sede di procedimento di merito. Appare evidente, quindi, l’estrema delicatezza dell’incarico ora assegnato al CTU, il quale non deve limitarsi alla pedissequa acquisizione di informazioni e di documenti, ma deve volgere un ruolo istruttorio completo, effettuando una cernita intelligente e critica di quanto gli viene proposto dalle parti interessate, cercando di mantenere la giusta equidistanza fra le stesse nel rigoroso rispetto delle esigenze di giustizia processuale.
• Instaurato il contraddittorio ed affidato all’esperto l’incarico, il procedimento non prevede alcuna udienza per la discussione e l’acquisizione dell’elaborato peritale, né alcuna attività è più affidata all’impulso della parte istante.

• Il consulente tecnico d’ufficio, una volta prestato giuramento, dovrà redigere una relazione tecnica alla luce del sopralluogo effettuato che dovrà avvenire, obbligatoriamente, in presenza del consulente tecnico di parte.

• Il termine per il deposito della relazione verrà stabilito dal giudice.

• Nel caso in cui il giudice verifichi che l’accertamento tecnico preventivo non è stato concluso o addirittura non è mai iniziato, alle parti viene assegnato un termine di quindici giorni per presentare l’istanza di completamento.

• Il procedimento di ATP si conclude con il deposito della relazione di consulenza tecnica, cui segue la liquidazione del compenso al consulente nominato dal giudice, senza che possa essere adottato alcun altro provvedimento relativo al regolamento delle spese tra le parti, stante la mancanza dei presupposti per detta statuizione ai sensi degli artt. 91 e 92 cpc.

IL PROCEDIMENTO PER ATP

• Redazione Accertamento Tecnico Preventivo Obbligatorio: si fanno tre copie del Ricorso (Originale + 2 Copie), (esempio di ricorso per ATP, All. 1);

• Iscrizione a Ruolo: si prepara il fascicolo inserendo oltre alle copie di cui sopra, la nota di iscrizione a ruolo, e la documentazione a base della domanda. Il contributo unificato è quello per valore del giudizio ordinario ridotto del 50%;

• Decreto fissazione udienza: successivamente al deposito dell’istanza il Giudice fissa con decreto la data dell’udienza ed il termine perentorio per la notifica;

• Copie in cancelleria: Ricevuta la comunicazione (tramite pec) del decreto emesso dal Giudice, ci si reca in cancelleria e si fanno 2 copie dell’istanza e del decreto di fissazione dell’udienza (al quale il cancelliere apporrà la conformità);

• Notifica alla controparte: alle copie dell’istanza e del decreto si dispone la relata e si notifica tramite Ufficiale Giudiziario;

• Udienza: il giudice nomina il CTU attraverso un verbale prestampato. Insieme al CTU si concorda la data dell’inizio delle operazioni peritali;

• Nomina CTP (esempio di nomina CTP, All. 2).

Attenzione: entro l’inizio delle operazioni tecniche si può nominare un consulente di parte (CTP) ai sensi dell’art.201 c.p.c.,1°comma, secondo cui, ”Il giudice istruttore, con l’ordinanza di nomina del consulente, assegna alle parti un termine entro il quale possono nominare, con dichiarazione ricevuta dal cancelliere, un loro consulente tecnico”.
• Deposito consulenza: prima del deposito in cancelleria il CTU tramite pec invia alle parti la consulenza. Successivamente il CTU, deposita la consulenza in cancelleria;

Attenzione: E’ bene verificare che il CTU alleghi alla perizia, in calce alla stessa, tutta la documentazione acquisita e specifichi chiaramente le modalità con le quali ha acquisito detta documentazione e ha ritenuto opportuno recepire determinate informazioni che gli sono state fornite dalle parti, esprimendo chiaramente il metodo ed il principio in base al quale si è mosso in sede di ATP. Una cattiva gestione delle procedure e dei metodi da parte del CTU può portare a giudizi totalmente invalidi, oltre a possibilità di confusione e di eventuale rigetto delle tesi del CTU da parte dei procuratori delle parti.

• Decreto comunicato alle parti tramite pec: è un atto successivo alla chiusura delle operazioni peritali, con il quale il giudice fissa un termine di 30 giorni entro il quale le parti devono dichiarare con atto scritto, depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio. Possono, quindi, darsi due ipotesi: o A) Assenza di contestazione: in questo caso il Giudice, se non procede ai sensi dell’art 196 cpc (rinnovazione delle indagini e sostituzione del consulente), con decreto pronunciato fuori udienza omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo la CTU, provvedendo sulle spese;

• Decreto di omologa: il decreto diventa così non impugnabile, né modificabile. E’ a cura della parte notificarlo alla controparte; o B) Contestazione: la parte che contesta deve depositare entro 30 giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione;

• Sentenza: in quest’ultimo caso il giudice deciderà con sentenza.

ALLEGATI:

All. 1) ESEMPIO DI RICORSO PER ATP

TRIBUNALE DI ________ RICORSO PER ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO EX ART. 696 C.P.C.

Il sig. Tizio nato a _____ (___) il _____ C.F_______ residente in Via _______________, n. ____, _____ ed ivi elettivamente domiciliato in Via _____________ n.__, presso lo studio degli Avv.ti ________________________ e ________________________ dai quali è rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente, in virtù di procura a margine del presente atto; i quali, altresì, dichiarano ai fini delle comunicazioni del presente procedimento di voler ricevere i relativi avvisi, ai sensi degli artt. 134, comma 3, e 176 comma 2 cpc, al seguente indirizzo di posta elettronica certificata ______________________

ESPONE

In data ______il ricorrente acquistava presso la concessionaria BETA di _____, in Via __________ n._____, l’autovettura __________________ tg.: ________, telaio: ____________ al prezzo di € ____________ (docc.1 – 2). Circa una settimana dopo l’acquisto dell’auto, l’istante riscontrava nella stessa gravi vizi consistenti nell’estrema difficoltà dell’innesto delle marce. Pertanto, in data ____________, il sig. Tizio provvedeva a segnalare i predetti vizi al rivenditore; l’autovettura, in detta circostanza, veniva trattenuta presso l’autofficina BETA_____ (doc.3), di Via _____ n.__, _____, per ben sette giorni, sino al _______, senza che venisse effettuato sulla stessa alcun intervento di manutenzione e/o sostituzione di eventuali elementi difettosi. Successivamente, in data _______, stante il perdurare dei vizi denunciati, il sig. Tizio si recava nuovamente presso il rivenditore comunicando il persistere dei medesimi difetti; in detta occasione  l’autovettura veniva ivi trattenuta sino al _______, ed al momento della restituzione presentava ancora i medesimi problemi al cambio (doc.4). Inoltre, in data ________, durante la permanenza dell’auto dell’istante presso l’officina BETA_____, il sig. Tizio, a mezzo dell’Avv. ___________ chiedeva al produttore Alfa S.p.A. ed al venditore BETA “di voler tempestivamente provvedere all’eliminazione dei vizi riscontrati e segnalati nell’autovettura de quo, e ove ciò non sia possibile, alla sostituzione della stessa, oltre al risarcimento di tutti i danni subiti“ (doc. 5). A conferma della situazione sin qui descritta si richiama la racc. a/r del ________ a firma del Geom. Sempronio (doc. 6), tecnico incaricato dall’istante, inviata alla BETA _____ S.r.l., nonché alla casa madre Gamma di _____________, ove, a seguito di ispezione della vettura de qua, testualmente si afferma: “_________________________________________________________ _________________________________________________________ ___________________)” (doc. 7). Orbene nè le società produttrici, nè tantomeno quella venditrice hanno dato seguito alle doglianze mosse dagli odierni istanti, mostrando in tal modo l’assenza della benché minima volontà conciliativa della vertenza.

CONSIDERATO

– che il ricorrente ha urgenza di definire la descritta situazione, anche al fine di evitare che l’uso prolungato dell’auto de qua possa aggravare i vizi genetici denunziati in modo tale da rendere maggiormente difficoltosa o financo impossibile l’adeguata valutazione della natura e dell’entità degli stessi; – che il ricorrente ha interesse ad adire la competente autorità giudiziaria per ottenere la risoluzione del contratto di vendita dell’auto in questione oltre alla condanna della BETA _____ S.R.L. al risarcimento di tutti i danni subiti dagli istanti; – che, pertanto, è intenzione del sig. Tizio di far verificare, prima del giudizio, la natura e l’entità dei vizi presenti nell’automobile ______________________ tg.:_______________, telaio:______________________________; – che per la causa di merito è competente codesto Tribunale. Tutto ciò premesso e considerato, il sig. Tizio , come sopra rappresentato, difeso e domiciliato,

CHIEDE

che la S.V., in accoglimento del presente ricorso, Voglia ammettere 1) l’accertamento tecnico preventivo richiesto in ordine all’autovettura______________________ tg.: ________, telaio: __________________ per i motivi specificati in narrativa e, quindi, nominare un consulente tecnico e fissare la data di inizio delle operazioni. Ai sensi dell’art. 14, D.P.R. n. 115/2002, si dichiara che il valore del presente processo è pari ad € ______________. Si allegano in copia: 1) fattura di acquisto dell’auto ______________ tg.: ______ datata ____; 2) carta di circolazione dell’auto ____________ tg.: _______; 3) ordine lavoro d’officina del ________ BETA _____ S.R.L.; 4) ordine di officina n. ________ del _______, domanda di garanzia e ricevuta fiscale restituzione auto del _________; 5) racc. a/r officina BETA; 6) racc. a/r Geom. Sempronio del ___________; 7) perizia consulente di parte ______; Luogo, data

Avv._______________                                  Avv. _______________

ALL. 2) ESEMPIO DI NOMINA DEL CONSULENTE TECNICO DI PARTE

NOMINA DEL CONSULENTE TECNICO DI PARTE EX ART. 201 CPC

Per: Il Sig. __________(C.F.: ______) , nell’Accertamento Tecnico Preventivo Obbligatorio iscritto al n. di R.G. ___/____ promosso avverso la ditta ___________ e precisamente per accertare _________________________________________________________ ___________________________________;

PREMESSO

– che all’udienza del __________ il Giudice Dott. ________ ha provveduto alla nomina del CTU nella persona del Dott. __________; – -che contestualmente è stato fissato, quale inizio delle operazioni peritali la data del ____________ alle ore ____ presso il suo studio sito in ____ alla via ____________; – atteso inoltre che è interesse di pare ricorrente partecipare allo svolgimento delle suddette operazioni peritali con l’assistenza di un professionista munito di adeguate cognizioni tecniche; NOMINA Quale Consulente Tecnico di Parte il Dott. _________ con studio sito in ____ alla via _________________, fax ____________, Pec _____________. Luogo, data

Avv. _________________

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Relazione di notifica a mezzo Pec ex art. 3bis Legge 21 gennaio 1994, n. 53

RELAZIONE DI NOTIFICA A MEZZO POSTA ELETTRONICA CERTIFICATA

ex art. 3bis Legge 21 gennaio 1994, n. 53

Io sottoscritto avv. ……………, iscritto all’albo dell’Ordine degli Avvocati di ……………, con studio in ……………., Via ………………. n. ….., C.F. ………………………, nella mia qualità di difensore e domiciliatario della S.r.l …………… in p.l.r.p.t., P.IVA ……….., con sede in …………., Via……………. n. .., giusta procura ad litem del ……, che si allega, ai sensi degli artt. 83, comma 3 c.p.c. e 18, comma 5, D.M. n. 44/2011, autorizzato alle notifiche ex L. 21.01.1994 n. 53 e succ. mod., giusta autorizzazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di ………………… del ……… ho

NOTIFICATO

ad ogni effetto di legge copia informatica da me firmata digitalmente dell’atto di citazione  prodotto a favore della S.r.l …………. in p.l.r.pt., P.IVA ……….., e contro la S.p.A. ……………………, nell’instaurando giudizio civile dinanzi al Tribunale di …………, di cui attesto la conformità all’originale cartaceo ai sensi dell’art. 22, comma 2, D.Lgs. 7.03.2005 n. 82, nonché procura alle liti a me rilasciata dalla …………………….. in persona del suo l.r.p.t. originariamente su foglio separato dal quale ho estratto copia informatica per immagine, sottoscritta digitalmente, in conformità di quanto previsto dall’art. 18 n. 5 DM 44/2011 così come modificato dal DM 48/13 alla:

 

  • S.p.A……………………………….. in persona del suo legale rapp.te pro-tempore,, con sede in ……………., alla Via , C.F. e P. IVA ………………….. trasmettendone copia informatica a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata ………, estratto dal registro PEC (estremi identificativi del pubblico elenco da cui l’indirizzo PEC è ricavato.

Attesto inoltre, che il messaggio PEC, oltre alla presente relata di notifica sottoscritta digitalmente, contiene i seguenti ulteriori allegati informatici:

  • Atto di citazione (sottoscritto digitalmente),
  • procura alle liti (sottoscritta digitalmente).

Luogo e data 

                                                              Avv. ………………..

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Emendatio libelli

I nuovi confini del binomio mutatio – emendatio libelli come ridisegnati dalla Corte di cassazione a sezioni unite del 2015
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive – 2. Svolgimento del processo e soluzione adottata dalla Corte – 3. I confini tra emendatio consentita e mutatio vietata e la teoria della costruzione progressiva della domanda – 3.1. La rinuncia ex art. 306 c.p.c. e l’accettazione quale suo non necessario presupposto nel caso di specie – 4. Il diritto di difesa del convenuto e il principio del contraddittorio: una tutela eccessiva – 5. Incompatibilità tra le due domande in relazione alla questione dei possibili giudicati contrastanti – 6. Ruolo del giudice, giustizia sostanziale e ragionevole durata del processo.

1. Considerazioni introduttive Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con l’articolata pronuncia n. 12310 del 15/06/2015, tracciano i confini in merito al noto binomio mutatio – emendatio libelli nel rito ordinario di cognizione di primo grado, da sempre tema particolarmente controverso, soprattutto per l’assenza di criteri distintivi univoci elaborati in sede giurisprudenziale. Inutile premettere che la sentenza è a dir poco rivoluzionaria, in quanto destinata ad essere proiettata oltre l’applicazione dell’art. 183 c.p.c. e ad investire anche i margini di inammissibilità dei nova di cui all’art. 345 c.p.c., oggetto di esplicito divieto. Con gli innovativi principi di diritto inaugurati dalla pronuncia, la Corte, mantenendo salda l’impossibilità di introdurre una mutatio nel corso della lite, amplia notevolmente i margini di ammissibilità dell’emendatio, possibile purché la domanda, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio. Alla luce di questo orientamento, la nota coppia retorica, lungi dal rievocare il suono ripetitivo di un “mantra” recitato a mo’ di filastrocca del quale si ignora il reale contenuto, si rimodella, ampliando notevolmente i margini di ammissibilità della modifica e assumendo un pregnante significato sostanziale. Il difensore di parte attrice dunque, alle prese con le correzioni di tiro prima della trattazione della causa, potrà usufruire di una più ampia strumentazione a suo favore per rendere il processo più rispondente agli interessi della difesa, in quanto le modifiche della domanda non saranno più imbrigliate negli stretti lacci dell’atto introduttivo, ma consentiranno movimenti più ampi ed elastici. La pronuncia in discorso, oltre a mostrare il recepimento da parte della Corte degli studi dottrinali più aperti, si inserisce in un orientamento fatto proprio dalla recente giurisprudenza, dove il diritto processuale, senza più custodire gelosamente la sua autonomia, si fonde al diritto sostanziale per consolidare la sua esistenza (1).

2. Svolgimento del processo e soluzione adottata dalla Corte Con atto di citazione a comparire dinnanzi all’allora Pretore di Forlì, gli attori, dopo aver invocato ai sensi dell’art. 2932 c.c. l’esecuzione specifica di un contratto preliminare rimasto inadempiuto (avente ad oggetto un appezzamento di terreno), modificarono l’originaria domanda, chiedendo l’accertamento dell’avvenuto effetto traslativo del bene sulla base di una diversa qualificazione del negozio, ritenuto non più produttivo di effetti obbligatori ma di effetti reali. Tale richiesta fu avanzata con la memoria ex art. 183 comma 5 c.p.c., nel regime vigente ante novella 2005. La difesa del convenuto eccepì l’inammissibilità della modifica per violazione del generale divieto di introdurre domande nuove nel processo civile, ma in primo grado fu accolta la domanda attrice e la medesima decisione trovò conferma in appello. In particolare, i giudici di primo e di secondo grado ritennero che l’istanza con la quale si chiedeva una pronuncia dichiarativa, avanzata dopo quella di sentenza costitutiva contenuta nell’atto di citazione, integrasse gli estremi di una mera emendatio libelli, consentita dalla legge e non di una, per converso vietata, mutatio. La questione giunse fino a Roma, dove la seconda Sezione della Suprema Corte di Cassazione, investita del caso, sollecitò l’intervento compositivo delle Sezioni Unite (2), considerata la particolare importanza del tema e il forte contrasto giurisprudenziale creatosi sul punto. Il Collegio riunito ha confermato, con la sentenza in commento, le precedenti statuizioni di merito disattendendo, in tal modo, l’eccezione di inammissibilità della modifica sollevata dalla difesa del convenuto in primo grado, dichiarando così ammissibile il passaggio dalla domanda di esecuzione del contratto in forma specifica ex art. 2932 c.c., alla domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo del bene oggetto di causa. Com’è possibile scorgere dalla premessa, nell’economia di questa breve nota in cui si condivide appieno la soluzione adottata dalla Corte, non interessa verificare la natura preliminare o definitiva del contratto stipulato tra le parti; preme invece analizzare i motivi che hanno condotto il Collegio riunito a considerare la domanda ammissibile, invertendo così la rotta rispetto all’orientamento opposto, accolto nella precedente pronuncia del 1996 e riconsiderando, in tal modo, l’impatto pratico della questione. Preme precisare sin dall’inizio, che si procederà ad un’analisi disgiunta dei singoli motivi; non è tuttavia sfuggita a chi scrive la caratteristica di fondo che li accomuna: ognuno di essi richiama gli altri e in questi trova fondamento e rinforzo, creando una sorta di moto rotatorio immaginario, capace di suscitare nel lettore coerenza e unità di ragionamento.

3. I confini tra emendatio consentita e mutatio vietata e la teoria della costruzione progressiva della domanda
In tema di mutatio – emendatio libelli, un dato è certamente da porre fuori discussione: il divieto di domande nuove nel rito civile, costituisce da sempre una costante (3). Secondo un noto orientamento infatti, una regola fondamentale del processo impone alle parti l’onere di proporre tutte le domande sin dalla fase introduttiva del giudizio, con conseguente possibilità di dedurre nuove pretese nel corso della lite contemplata solo in via eccezionale (4), a garanzia di un ordinato svolgimento del processo. La coppia, individuata attraverso le formule icastiche latine, ha da sempre assunto il significato per cui con mutatio si intende un radicale mutamento della domanda processuale, mentre per emendatio una semplice modifica, come tale ammissibile. Il Supremo Collegio, nel tentativo di decodificare il silentium legis relativo all’ampiezza della variazione consentita ex art. 183, comma 6 c.p.c., ricostruisce la distinzione tra domande nuove, modificate e precisate, propendendo per un’impostazione più elastica, incentrata sull’intera vicenda sostanziale dedotta in giudizio. Il tema non è nuovo agli occhi della Corte: come anticipato, già nel 1996 le Sezioni Unite si pronunciarono a composizione di un contrasto che si poneva sostanzialmente negli stessi termini di quello attuale (5). In entrambe le statuizioni, il Collegio ha sciolto l’antitesi formatasi tra due teorie che si contendevano il campo: quella c.d. classica, maggioritaria, riconduceva all’ambito della mutatio inammissibile la variazione di uno o entrambi gli elementi oggettivi della domanda (6). Tale orientamento, basato sulle specifiche coordinate facenti capo alla teoria tradizionale, induceva a considerare il passaggio dall’azione costitutiva ex art. 2932 c.c. all’azione di accertamento, nel solco della mutatio vietata, stante la diversità di petitum immediato e di causa petendi (7). La teoria c.d. liberale, per converso, ricomprendeva l’anzidetto movimento da una domanda all’altra nell’ambito dell’emendatio poiché, nonostante la diversità degli elementi oggettivi, il thema decidendum rimaneva comunque circoscritto all’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, lasciando intatto, nella sostanza, il bene effettivamente richiesto (8). Le Sezioni Unite, con una netta opzione a favore dell’indirizzo minoritario, hanno addirittura superato la portata dello stesso tratteggiando, per la prima volta, un diverso criterio distintivo in grado di orientare le scelte dell’interprete. A dire della Corte infatti (§ n. 3), “la vera differenza tra domande “nuove” implicitamente vietate (…) e domande “modificate” espressamente ammesse non sta (…) nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive” trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate (…) o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”. Riprendendo successivamente il discorso, a completamento del principio di diritto enunciato, le Sezioni Unite continuano affermando:“(…) una interpretazione come quella in questa sede proposta (…), non espone al rischio di trasformare il processo il un “tram” da prendere al volo caricandolo di tutte le possibili ed eventualmente eterogenee ragioni di lite nei confronti di una determinata controparte, se si considera che (…) la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque essere a questa collegata”. Insomma, è come se la Corte volesse spingere lo studioso del processo civile a liberare il proprio tavolo di lavoro dai volumi sulla teoria tradizionale (9) che analizza singolarmente gli elementi oggettivi della domanda, per fare spazio ad un orientamento che riconduce ad unità petitum e causa petendi “nel prisma del diritto soggettivo fatto valere in giudizio” (10). D’altronde, come sottolineato da uno dei padri del diritto processuale civile, petitum e causa petendi non son altro che due facce della stessa medaglia: la posizione sostanziale fatta valere in giudizio (11). Una tesi di questo genere, oltre a rispecchiare in maniera più concreta l’impatto pratico della questione, è anche in grado di eliminare l’incertezza provocata dalle molteplici e difformi soluzioni adottate dalla giurisprudenza, che poco si addicono a rivestire il ruolo di linee guida (12). Del resto, questo confuso risultato dovuto alle oscillazioni giurisprudenziali, è frutto dell’ambiguità insita nella nozione di causa petendi e dell’indeterminatezza riguardante il concetto di “fatti costitutivi” (13). L’orientamento adottato dalla Corte oltretutto, è perfettamente in linea con gli insegnamenti dottrinali a favore di una costruzione progressiva della domanda, a discapito della concezione bidimensionale tipica della teoria tradizionale, che tende invece a cristallizzare la stessa nel momento della sua formulazione, con notevole restrizione della possibilità di successivo cambiamento. Di conseguenza, il contenuto dell’atto di citazione deve essere modellato su questi nuovi principi di diritto e in particolare i numeri 3 e 4 dell’art. 163 c.p.c. relativi all’editio actionis, devono mantenere una “dimensione perfettibile” (14), tale da lasciare aperta la costruzione della domanda, essendo sufficiente che nell’atto introduttivo emergano i fatti necessari per l’identificazione della situazione conflittuale (15). La domanda originariamente avanzata quindi, dovrebbe assumere un carattere sostanzialmente informativo, finalizzato solo a “rendere il convenuto edotto circa l’instaurazione di una causa nei suoi confronti” (16). Del resto, ad un’identica conclusione era giunto, ben oltre trent’anni fa, Cerino Canova, nel considerare l’interpretazione dell’art. 163 n. 3 e 4 c.p.c. “aperta ed impregiudicata, senza alcun aprioristico ossequio ad un testo legislativo affatto indeterminato” (17). Il corpo argomentativo a sostegno dell’orientamento abbracciato dalla Corte, sviluppato al § n. 3 della pronuncia, trae le mosse da un dato indiscutibile: la disposizione di cui all’art. 183, comma 6 c.p.c., non stabilisce nessun limite qualitativo e quantitativo in ordine alla modifica ammessa. Per dar voce ad un tale silentium legis, occorre anzitutto rivolgere lo sguardo al contesto normativo di riferimento, in ossequio al principio di coerenza dell’ordinamento giuridico. In primis la Corte evidenzia che ex art. 189 c.p.c. il giudice istruttore, quando rimettere la causa al collegio, invita le parti a precisare le conclusioni che intendono sottoporre allo stesso “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183”, rendendo così esplicito che, secondo la disposizione da ultimo citata, le parti possono cambiare le domande e le conclusioni formulate nell’atto introduttivo in modo sensibilmente apprezzabile. Tuttavia, come lo stesso Collegio riunito riconosce, un tale riferimento, seppur di aiuto e sostegno, non consente di chiarire il tenore del cambiamento, costringendo l’interprete a riposizionarsi sul punto di partenza. Per comprendere l’effettiva portata della modifica ammissibile, la Suprema Corte adopera due espedienti che, più che riguardare il contesto normativo, possono essere definiti di ordine logico – deduttivo. Nel primo di essi le Sezioni Unite, nel cercare di ridisegnare i confini dell’emendatio consentita, pongono quest’ultima in relazione al concetto di puntualizzazione, che consiste in uno dei tre modi in cui può concretizzarsi lo ius variandi. Orbene, una volta spiegato che la precisazione altro non è che un intervento sulla domanda che non incide sugli elementi oggettivi della stessa, limitandosi solo a chiarirla e circostanziarla, la Corte mette a confronto tale concetto con quello di modificazione, ponendo in essere un efficace ragionamento per assurdo teso a dimostrare l’erroneità della teoria tradizionale assunta come premessa. Infatti, posto che un cambiamento che va a colpire gli elementi del petitum e della causa petendi (fuori dai casi di variazione dell’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo o di ampliamento o restringimento del petitum) deve necessariamente essere ascritto al novero della mutatio vietata (premessa ipotetica), la conseguenza logica che ne deriva è che la modificazione ammessa potrebbe consistere solo in una mera precisazione, sicché il testo normativo non avrebbe pregnanza, in quanto risulterebbe davvero arduo anche solo immaginare una modifica che non incida sui suddetti elementi oggettivi (dimostrazione per assurdo dell’erroneità della premessa). L’altro argomento riguarderebbe la c.d. fase di appendice scritta. Come noto, se richiesto dalle parti, il giudice concede i triplici termini perentori per il deposito di memorie. Ebbene, se fosse vero che la modifica della domanda non deve colpire incisivamente gli elementi del petitum e della causa petendi per non ricadere nel generale divieto di proporre domande nuove, non sarebbe giustificato un così ampio spazio per aggiustare aspetti solo marginali della controversia. Le parti dunque, proprio in virtù di questa ratio sottesa alla previsione legislativa, devono avere la possibilità di porre in essere modifiche profonde, altrimenti lo scambio di memorie che si articola nel segmento di appendice scritta si ridurrebbe ad un “ping pong” sostanzialmente privo di senso. Ne è prova il fatto che fino ad ora i difensori, fedeli alla ormai superata teoria classica della modifica della domanda, spesso e volentieri si risparmiano la redazione della memoria ex art. 183, comma 6, III termine, in quanto la stessa si ridurrebbe ad una riproduzione degli scritti precedenti e quindi ad un atto ridondante e fondamentalmente inutile. Dunque è più che ragionevole pensare che un così considerevole lasso di tempo sia funzionale a permettere all’attore di porre in essere un’incisiva correzione di tiro, al fine di rendere il processo più rispondente ai suoi interessi. La domanda quindi, deve essere giustamente concepita come un “work in progress” (18), nel quale il giudice non è chiamato a rivestire il ruolo di semplice spettatore (19). Un’ultima considerazione, ma per questo non meno importante. La Corte, nel ribadire il divieto di proporre domande nuove, include nel raggio dello stesso anche quelle richieste che per l’attore rappresentano una reazione alla strategia difensiva posta in essere dal convenuto, specificando però l’ammissibilità delle stesse per esplicita previsione di legge (si tratta della c.d. reconventio reconventionis ex art. 183, comma 5, c.p.c. che consente la proposizione di domande ed eccezioni che sono conseguenza (20) della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto). Dalla lettura della sentenza in commento, come giustamente messo in evidenza da una recentissima dottrina, si evince che il vincolo alle difese di controparte non riguarda il caso dell’emendatio; la domanda alternativa o sostitutiva, formulata nell’esercizio dello ius poenitendi, può ben essere slegata dalle difese del convenuto, non essendo necessario che essa si ponga come conseguenza delle stesse (21). Ragione sufficiente per la variazione, è quindi rendere il processo più rispondente agli interessi delle parti, non occorrendo altro.

3.1. La rinuncia ex art. 306 c.p.c. e l’accettazione quale suo non necessario presupposto nel caso di specie In relazione al principio di diritto enunciato con la pronuncia, che considera nuove le domande ulteriori o aggiuntive e modificate quelle alternative o sostitutive, non pare condivisibile un profilo di criticità mosso da una recente dottrina (22). Quest’ultimo trae origine dalla disciplina della rinuncia agli atti del giudizio, così come prevista dal codice, in connessione con la sostituzione che, secondo la pronuncia in commento, può integrare uno dei due casi di emendatio ammissibile. La critica prende le mosse da un duplice dato: nel caso considerato dalla Corte, l’attore non rinuncia alla domanda originaria in quanto, per farlo, dovrebbe ricevere l’accettazione dal convenuto ex art. 306 c.p.c.; tale elemento, nel caso di specie è del tutto inesistente. Invece, come affermato dalle Sezioni Unite, la richiesta di sentenza dichiarativa di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo integra gli estremi di una modifica ammissibile se sostitutiva di quella ex art. 2932 c.c. Orbene, se alla domanda iniziale l’attore non rinuncia, quella successivamente formulata non potrebbe, secondo la dottrina in discorso sostituirsi ad essa, ma solo aggiungervisi e con essa convivere. Il descritto dissenso tuttavia, presta il fianco ad una facile confutazione: l’accettazione ex art. 306 c.p.c. ha lo scopo di tutelare l’interesse del convenuto alla prosecuzione del giudizio che con la rinuncia verrebbe interrotto; nel caso di specie, l’arresto del processo non si verifica, in quanto lo stesso prosegue o con la modifica di tutela o con la domanda originariamente avanzata (nel caso di dichiarazione di inammissibilità della variazione). A sostegno di ciò, l’art. 306 c.p.c. al secondo comma, specifica che “Il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del processo”, rendendo palese che l’accettazione alla rinuncia è prevista dal codice in vista della fine della causa e a tutela dell’interesse dell’altra parte a volerla e poterla continuare. Nel caso preso in esame dal Supremo Collegio, l’attore non ha l’obiettivo di estinguere il processo, ma ha tutta l’intenzione di insistere sullo stesso modificando la richiesta di tutela per renderlo più adeguato ai suoi interessi. Per cui la critica, pur prestando attenzione al dato letterale della norma, sembra trascurare la ratio della stessa, tendente a proteggere un interesse non ravvisabile nella vicenda sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite. Tutto ciò senza contare che già autorevole dottrina, in passato, effettuando un’ampia e dettagliata disamina sull’argomento delle dichiarazioni di rinuncia, si è concentrata sulla particolare ipotesi di quella ad una delle azioni concorrenti esercitate cumulativamente (23), tematica che si addice particolarmente alla problematica in oggetto. L’anzidetto caso, secondo la dottrina in parola, che nella presente sede si condivide pienamente, ancorché riconducibile alla sfera dell’art. 306 c.p.c., non sarebbe assoggettato alla sua disciplina allorché la pronuncia resa sulla domanda non rinunciata sia idonea a precludere la riproposizione di quella rinunciata. Il motivo di una tale conclusione ruota sostanzialmente attorno al contenuto della decisione resa dal giudice: se infatti si elimina la possibilità di riproporre in altro giudizio l’azione rinunciata (anche per motivi di economia processuale (24)), occorre altresì escludere che la rinuncia abbia portata dispositiva del diritto in contesa (di cui possono disporre solo le parti e non il difensore, se non in forza di un potere in merito a lui espressamente conferito), per cui la decisione resa al termine del processo cadrà sul diritto stesso interamente considerato, senza limitazioni; di conseguenza, l’oggetto della rinuncia cesserà di custodire una “significativa autonomia” perdendo i suoi nitidi confini e restando assorbito nel dictum del giudice (25). Ergo: se si esclude che con la rinuncia ad una delle azioni concorrenti esercitate cumulativamente si possa spostare su un altro “binario processuale” la porzione di diritto oggetto di rinuncia, quest’ultima non può possedere portata dispositiva del diritto e richiedere accettazione. Tornando all’impostazione messa in atto dal Supremo Collegio riunito considerata nella sua interezza, sembra chiaro che, essendo così attenta al dato pratico e alla realizzazione del diritto sostanziale dedotto in giudizio come vero e unico perno del processo e del suo rito, non possa concretizzarsi se non nel rispetto dei principi del contraddittorio e della ragionevole durata. Proprio per questo, la Corte specifica chiaramente che l’interprete può applicare un tale orientamento solo e soltanto qualora non vengano pregiudicate le potenzialità difensive di controparte e non si determini un inammissibile ed ingiustificato allungamento dei tempi processuali di giustizia. Queste tematiche saranno trattate nei paragrafi a seguire.

4. Il diritto di difesa del convenuto e il principio del contraddittorio: una tutela eccessiva La modifica della domanda è una questione alquanto spinosa, soprattutto perché tocca temi molto delicati quali il principio del contraddittorio e il diritto di difesa, considerati cardini fondamentali del processo, non solo civile. Secondo un diffuso orientamento, il divieto di modificare la domanda nel corso del giudizio tutelerebbe la posizione del convenuto; lo stesso infatti, sorpreso di fronte a deduzioni differenti rispetto a quelle originarie, verrebbe disorientato e gravato da imprevisti oneri di difesa, con conseguente alterazione del regolare svolgimento del processo con riguardo all’uguaglianza delle parti e al contraddittorio (26). Quest’ultimo principio, in particolare, quale “insostituibile strumento di indagine per l’accertamento della verità” (27), non può contemplare violazione alcuna poiché, qualora non fosse assicurata una sua effettiva attuazione, si andrebbe inevitabilmente a compromettere il diritto di difesa di controparte, stante la stretta relazione che li unisce (28). La tesi ha trovato terreno fertile sia in dottrina che in giurisprudenza (29) e ha realizzato il punto di partenza per lo sviluppo di una considerevole critica. Senza addentrarvisi troppo, il profilo più significativo di quest’ultima trae le mosse dal presupposto secondo cui, per lungo tempo, si è aderito ad una concezione che considera il processo come “cosa delle parti” che, di conseguenza, induce a proporre una modifica della domanda in qualunque momento, a patto che vi sia il consenso del convenuto contro il quale viene proposta (30). Ciò naturalmente, implica che l’eccezione venga rilevata su istanza di parte. Tutto questo si pone però in forte contrasto con le esigenze pubblicistiche attinenti all’ordinato svolgimento del processo, sottratte perciò alla disponibilità delle parti (31). Comunque, a prescindere dalla critica, secondo l’orientamento poc’anzi esposto, un’incisiva modifica della domanda, provocherebbe inevitabilmente uno sbilanciamento di posizioni. Le considerazioni acquistano particolare evidenza in relazione all’esame dei ritmi che scandiscono il processo del lavoro, rito contraddistinto da rapidità e concentrazione, realizzate tramite l’impiego incisivo della tecnica delle preclusioni sia riguardo all’offerta dei mezzi di prova che alla modificabilità delle domande (32). Come noto infatti, stante la necessità imposta dalla legge di esaurire l’assunzione delle prove nell’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., le stesse devono essere formulate in modo completo negli atti introduttivi; per di più, le parti sono nell’impossibilità di proporre nuove deduzioni in corso di causa rispetto alle pretese vantate in origine, poiché le stesse, disorientando controparte, andrebbero a pregiudicarne la strategia difensiva. È lo stesso codice a stabilirlo quando, all’art. 420, comma 1 c.p.c. (la cui lettera ricorda l’originaria formulazione degli artt. 183 e 184 del codice di rito del 1940 (33)), impedisce una modifica delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate se non in presenza di gravi motivi e previa autorizzazione del giudice. Sulla base delle precedenti considerazioni, si comprende che il pregiudizio per la difesa del convenuto, in un processo “bipolare” come quello del lavoro, sarebbe particolarmente penetrante qualora fosse permessa una variazione incisiva della domanda; gli atti introduttivi sono “blindati”, con conseguente remota possibilità di modifica degli stessi, subordinata non solo all’esistenza di gravi ragioni, ma anche all’autorizzazione dell’organo giudicante. Nel processo ordinario di cognizione, l’esistenza del segmento di appendice scritta impone una riflessione più approfondita. Secondo la Corte di Cassazione, la modifica della domanda oggetto di causa non sarebbe in grado di mortificare la difesa di controparte in quanto avanzata in uno stadio del processo (la memoria del I termine del comma 6 dell’art. 183) dove ancora non è iniziata la “vera”  istruttoria e non è avvenuta la scelta dei mezzi di prova. Nel rito ordinario infatti, l’indicazione delle prove avviene con la memoria ex art. 183, comma 6, II termine, per cui il convenuto, acquisita conoscenza della variazione con lo scritto del I termine, ha almeno trenta giorni utili per difendersi e controdedurre, anche sul piano probatorio, alle modificate pretese di parte attrice. Quest’ultimo inoltre, non ha la possibilità di trincerarsi dietro all’“effetto sorpresa” che sarebbe in grado di sgretolare la sua strategia difensiva poiché, come giustamente messo in evidenza dal Supremo Collegio, egli è perfettamente a conoscenza della vicenda sostanziale attorno alla quale ruota la lite, avendo avuto modo di apprenderla dall’atto di citazione. Nella fattispecie: se con la prima domanda si richiede la stipulazione di un contratto definitivo per la vendita di un fondo, come può la seconda, attraverso la quale si pretende l’accertamento dell’avvenuto effetto traslativo sulla base degli effetti reali del negozio, sorprendere l’altra parte se la questione riguarda sempre la vicenda della proprietà del terreno? Ecco dunque la Corte ribadire, anche nel passo dedicato all’esame del principio del contraddittorio, l’importanza della vicenda sostanziale dedotta in giudizio quale prezioso criterio per derimere le controversie processuali. In ogni caso, anticipando le riflessioni oggetto del § n. 6 del presente contributo, la modifica della domanda da parte dell’attore non avverrebbe in maniera arbitraria e senza regole, tale da far sorgere (concretamente in questo caso) il fondato pericolo di violazione del contraddittorio, ma sotto il controllo e la supervisione del giudice, figura garante del rispetto delle regole e dei principi. 5. Incompatibilità tra le due domande in relazione alla questione dei possibili giudicati contrastanti Dalla lettura della pronuncia, un punto sembra essere inattaccabile: le azioni che emergono nel caso preso in esame dalla Corte, non potrebbero mai essere fatte valere contemporaneamente se non in processi diversi e distinti. Sono le stesse Sezioni Unite a rendere palese tale considerazione quando, al termine del § n. 3 della sentenza, specificano che nel rapporto tra domanda iniziale e domanda modificata non è ravvisabile una semplice connessione per alternatività, ma addirittura per incompatibilità poiché, una volta accertata la natura preliminare del contratto e caduta l’autorità di giudicato sulla statuizione, non è più possibile agire per far dichiarare la definitività dello stesso in quanto, se il giudice la pronunciasse, si scontrerebbe con una precedente decisione contrastante. Si tratta dunque di domande incompatibili, ma pur sempre derivanti dallo stesso negozio stipulato inter partes e volte a soddisfare il medesimo bene della vita: il trasferimento della proprietà dell’appezzamento di terreno (34). Tra le righe della pronuncia si apprende che la Corte ritiene che l’autorità di giudicato, con i suoi correlativi effetti preclusivi, deve coincidere con il “substrato di fatto” della controversia e non, come tradizionalmente inteso, con il diritto soggettivo individuato nei fatti o meno dell’eccezione di inammissibilità della mutatio nel rito ordinario di cognizione. Secondo alcuni, per ciò che riguarda il processo del lavoro, da una valutazione globale delle caratteristiche strutturali proprie dello stesso e dell’ideologia che lo ispira, la disciplina delle preclusioni è insensibile al potere dispositivo delle parti; in senso contrario, tale da attribuire valore al comportamento della parte, si vada da ultimo Cass. civ., sez. III, 16/10/2015, n. 20949, nella quale si afferma la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione che però si esaurisce con l’accettazione del contraddittorio della parte (specificando che l’acquiescenza non è ravvisabile nel mero silenzio o nel difetto di reazione). Sull’argomento, si veda anche M. C. Giorgetti, Domanda nuova e accettazione “tacita” del contraddittorio, in Giustizia Civile, 2001, pp. 138 ss. (31) E. Vullo, Le Sezioni, cit., pp. 1443-1444. (32) Per ciò che concerne i mezzi di prova, l’art. 414, comma 1, n. 5 c.p.c. specifica che quelli di cui il ricorrente intende avvalersi devono essere indicati in modo specifico nell’atto introduttivo. L’assunzione delle prove, ex art. 420, comma 7 c.p.c., deve inoltre essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi. (33) Gli artt. 183 e 184 del codice di procedura civile del 1940, nella loro originaria formulazione, stabilivano che le parti potevano precisare e, quando occorreva, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate nell’atto di citazione e nella comparsa di risposta, soltanto nella prima udienza di trattazione; potevano inoltre proporre nuove eccezioni, chiedere nuovi mezzi di prova e produrre nuovi documenti, nel caso in cui il giudice istruttore ne avesse riconosciuto la rispondenza “ai fini di giustizia”. Nell’ulteriore corso del giudizio, eccezioni, prove e documenti nuovi erano subordinati all’autorizzazione del giudice, da concedere in caso di “gravi motivi”.    costitutivi allegati dall’attore a sostegno della domanda e dal convenuto in caso di riconvenzionale (35). Una soluzione di questo tipo consente di assicurare una forte stabilità del risultato conseguito al termine del giudizio, permettendo di porre rimedio al problema della possibile reiterazione del processo per un motivo diverso da quello fatto valere in origine ma sempre connesso alla medesima vicenda sostanziale sottostante. Nel caso di specie, pur potendo contestualmente descrivere e sussumere il fatto storico sotto più figure normative (poiché lo stesso potrebbe essere osservato in una pluralità di versioni), il diritto di proprietà è uno e unico (36), pertanto deve essere concesso alle parti lo spostamento da una domanda all’altra senza con ciò ricadere nel divieto di mutatio libelli. Non avrebbe senso il contrario: il giudicato cadrebbe comunque dentro il cerchio tracciato dalla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e inoltre impedire un’incisiva modifica della domanda implicherebbe, da parte dell’organo giudicante, una pronuncia finale decentrata rispetto ai reali interessi messi in gioco dall’attore. Del resto, in ossequio alla preclusione del dedotto e del deducibile, la vincolatività della prima decisione preclude un nuovo accertamento della situazione soggettiva sottostante, qualora sia promosso un nuovo giudizio tra le stesse parti che verta sul medesimo rapporto giuridico concreto (37). Se così non fosse si arriverebbe ad un’inammissibile conclusione, efficacemente spiegata nei termini che seguono: l’attore avrebbe vinto solo il processo, non la lite (38). Pare che una tale ampiezza dei limiti oggettivi del giudicato, si correli, trovandovi giustificazione, all’ampia libertà di manovra di cui godono le parti nella fase preparatoria e che, secondo i nuovi principi, permette loro di porre in essere un’incisiva correzione di tiro, caratteristica che peraltro connota il modello processuale americano (39).

6. Ruolo del giudice, giustizia sostanziale e ragionevole durata del processo La questione sulla quale il Collegio incentra le riflessioni di giustizia sostanziale, contenute nel § n. 4 della pronuncia in commento, è di sicuro il concetto di proporzionalità nel diritto processuale civile, specificazione del principio di efficienza e sintesi tra economia processuale e ragionevole durata. Si trova qui, in una sorta di dulcis in fundo, il fulcro della decisione in cui si può cogliere la ragione basilare che ha spinto la Corte a prendere una piega più flessibile rispetto all’orientamento giurisprudenziale classico dominante. Con la messa a punto di una vera e propria “argomentazione orientata alla proporzionalità”, le Sezioni Unite hanno inteso realizzare un equilibrio tra protezione degli interessi coinvolti nella singola vicenda individuale e protezione degli interessi collettivi, collegati alla gestione consapevole e razionale dell’insieme dei processi (40). Nella pronuncia infatti, si riconosce che l’irragionevole durata del processo non è tanto provocata da ciò che rileva qualitativamente all’interno dello stesso, quanto dalla gestione dell’innumerevole quantità di cause contemporaneamente pendenti. Si è preferito, dunque, prediligere un orientamento teso alla concentrazione e al “risparmio”, da realizzare attraverso lo sfruttamento più intensivo delle risorse nel giudizio già promosso, a discapito della frammentazione delle domande inerenti alla medesima vicenda sostanziale. Tale tesi trova ampio riscontro nella giurisprudenza in materia di frazionamento del credito e tende ad evitare di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito. Questa esigenza di concentrare le questioni aventi ad oggetto la stessa vicenda sostanziale dinnanzi ad un unico giudice, del resto, oltre ad essere contemplata dallo stesso codice di rito nelle disposizioni in tema di connessione e riunione dei procedimenti (come la Corte ricorda), è perfettamente in linea con i valori funzionali del processo enunciati recentemente dalle Sezioni Unite, che mirano ad assicurare concentrazione e pienezza di tutela come obiettivi finali imprescindibili (41). Come già anticipato, particolarmente significativa sotto tale profilo è la giurisprudenza in tema di divieto di frazionamento del credito. In particolare, in un’importante pronuncia, il Collegio riunito ha assunto il principio di ragionevole durata come criterio cardine, specificando che la parcellizzazione ingiustificata di un credito unitario in sede giudiziale e la conseguente proliferazione dei giudizi per la riscossione dello stesso integrano una clamorosa violazione del principio del giusto processo “per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della loro correlativa durata” (42). Come da alcuni palesato infatti, pur nella sua nobiltà, il principio del giusto processo, poiché vittima dell’angolo visuale tipico del nostro ambiente, non è sufficiente per gettare un ponte tra prospettiva unilaterale e prospettiva globale, essendo necessario l’utilizzo del criterio proporzionale, capace di tenere in considerazione l’enorme massa di processi contemporaneamente pendenti (43), vera responsabile del rallentamento del corso della giustizia. A dire il vero, tutto ciò potrebbe apparire in netto contrasto con l’opinione dominante, secondo cui la riduzione delle questioni ad un numero esiguo sarebbe in grado di semplificare il processo e l’iter decisionale del giudice. In realtà, ad un’attenta osservazione, il contenimento delle circostanze poste alla base del giudizio provoca un effetto antieconomico diametralmente opposto in quanto, facendo emergere solo una sfumatura della situazione conflittuale, costringe le parti ad adire ex novo l’autorità giudiziaria, dando così origine, più che alla tutela del diritto, all’abuso della tecnica del processo (44). A questo punto le conclusioni paiono chiare: c’è una forte consapevolezza del fatto che il sistema giudiziario complessivamente considerato debba avere un carico di lavoro tollerabile affinché si possa giungere alla realizzazione, per ogni singolo utente, dell’obiettivo primario di una decisione giusta in tempi ragionevoli (45). Per far questo occorre “spremere” il più possibile le risorse del processo già in moto, evitando un inutile dispendio di energie con la reiterazione dei giudizi relativi alla medesima lite. Una tale valutazione comparativa, che ha come punto di riferimento esigenze super partes, è difficile (se non impossibile) da appiattire all’interno di una norma, in quanto bisognosa di profonda valutazione e di ampio respiro. Entra qui in gioco la figura del giudice quale strumento indispensabile per il raggiungimento di questo (se così si può chiamare, prendendo in prestito un’espressione tipica dell’economia politica) punto di ottimo paretiano del sistema processuale. L’autorità giudiziaria infatti, deve prediligere una decisione orientata alla giustizia sostanziale, evitando l’applicazione meccanica di regole processuali astratte. È la stessa Corte a sottolinearlo quando, in uno degli snodi più significativi della sentenza, esalta la figura del giudice imponendogli, nel rispetto della garanzia costituzionale di un processo giusto, “di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di una ermeneutica tralaticia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale.” All’organo giudicante dunque, non spetta solo l’arduo compito di cogliere la profonda ratio sottesa alle norme, ma, ancor più difficile, compete la scelta del percorso più opportuno da seguire per il raggiungimento del risultato più soddisfacente possibile, anche a livello ultraprocessuale (46). Ciò è tanto più necessario quanto più si considera che le disposizioni di legge si limitano alla determinazione dei fini da raggiungere senza indicare gli strumenti necessari al loro conseguimento e, quand’anche si accingessero all’individuazione di tali mezzi, raramente si sforzerebbero di specificarne e precostituirne le possibili combinazioni (47). Come afferma la dottrina d’altronde, un rito civile dotato di un certo grado di elasticità concesso all’organo giudicante costituisce la tendenza accreditatasi a livello europeo (48). Un processo di questo tipo tuttavia, implica l’attribuzione di un alto livello di fiducia nell’attività del giudice, cosa che il modello italiano tende a non concedere, mostrando, al contrario, un atteggiamento di “malcelata diffidenza” (49). Una tale questione va oltre la disciplina del rito civile e affonda le radici nei tratti generali che caratterizzano l’apparato gerarchico del potere, struttura che, per sua natura, tollera la discrezionalità del giudice solo come “spiacevole ultima possibilità” (50). Nonostante questo, dagli studi dottrinali emerge che nelle teorie più recenti si sta facendo strada (anche se a fatica (51)) una tendenza a sollecitare un intervento “attivo – creativo” del giudice (52), al quale è assegnato, non solo il compito di coordinare le attività per il corretto  svolgimento del processo ma anche quello di creare regole, divenendo così partecipe della formazione di principi orientativi della collettività, non limitandosi a semplice e passiva “bocca della legge”. Va da sé che lo sforzo di “aprire le porte” ad un tale orientamento è molto faticoso: secondo l’angolo visuale tipico del nostro ordinamento infatti, il “tribunale” è concepito per lo più come luogo di risoluzione dei conflitti (53) dinnanzi ad un organo imparziale e distaccato, dove le parti che si scontrano introiettano nel processo interessi egoistici tenuti ben centrati nel mirino. È più che comprensibile, dunque, l’insensibilità che i contendenti manifestano verso valori posti ad un livello più alto e più lontano rispetto a quello individuale. Malgrado quanto appena esposto, la sentenza delle Sezioni Unite appare uno spiraglio per l’ingresso, anche in un modello marcatamente gerarchico come quello italiano, di un’impostazione tale da consentire al giudice un margine discrezionale per l’adozione di “soluzioni ad hoc” tese a scongiurare la dilapidazione delle risorse del sistema (54).
(1) Cfr. R. Caponi, Divieto di frazionamento giudiziale del credito: applicazione del principio di proporzionalità nella giustizia civile?, in Foro Italiano, 2008, pp. 1519 ss.      (2) Il riferimento è a Cass. civ., sez. II, ord. 30/01/2014, n. 2096, in Responsabilità civile e previdenza, 2014, fasc. 2, pp. 515 ss., con nota di R. Muroni, A margine di due recenti ordinanze interlocutorie della Cassazione in tema di mutatio libelli.
(3) E. Vullo, Sull’ammissibilità di domande nuove nel corso del processo ordinario di cognizione di primo grado, in Studium Iuris, 2002, pp. 317 ss. (4) Le eccezioni alla regola di portata generale sono ad esempio, dal lato del diritto processuale, quelle previste dall’art. 183, comma 5, c.p.c. che riguardano le domande che si pongono come “conseguenza” delle difese del convenuto (la c.d. reconventio reconventionis) e, volgendo lo sguardo all’ambito del diritto sostanziale, quelle espressamente previste dalle norme dello stesso, di cui un noto esempio è quello previsto all’art. 1453, comma 2 c.c. dove, in tema di contratti a prestazioni corrispettive, chi agisce per ottenere l’adempimento può sostituire la domanda con quella di risoluzione nel corso del processo (E. Vullo, Sull’ammissibilità, cit., pp. 317-318). (5) Cass. civ., Sez. Un., 05/03/1996, n. 1731, a cui lo stesso Collegio rinvia. La Corte affrontò la problematica relativa alla modifica della domanda ex art. 345 c.p.c. Il caso in breve: una società ricevette mandato per la vendita dell’immobile di proprietà del mandante; non avendo trovato compratori, chiese ed ottenne il rinnovo dell’incarico a mezzo di sottoscrizione di un formulario. In assenza di acquirenti, la società incaricata invocò l’art. 14 dell’anzidetto formulario, contenente una proposta irrevocabile di vendere il bene a se stessa in qualità di mandataria con un rilevante sconto, agendo contro il mandante ex art. 2932 c.c. per la stipula dell’atto pubblico presso un notaio. Il Tribunale adito in primo grado, respinse la richiesta. In secondo grado, l’appellante società non chiese la riforma della sentenza emessa dal giudice di prime cure ma, qualificando la modifica come mera emendatio libelli, domandò l’accertamento dell’avvenuto effetto traslativo dell’immobile. Giunta fino in Cassazione, la richiesta della società mandataria fu rigettata; la Corte infatti affermò che costituisce domanda nuova, vietata dalla legge, quella che accerti l’avvenuto effetto traslativo, se successiva rispetto alla richiesta di pronuncia costitutiva avanzata in precedenza. (6) Ne sono un esempio: Cass. civ., sez. III, 24/04/2015, n. 8394; Cass. civ., sez. III, 15/11/2013, n. 25764; Cass. civ., sez. III, 30/08/2013, n. 19958; Cass. Civ., sez. trib., 20/07/2012, n. 12621; Cass. civ., sez. II, 08/02/2010, n. 2723; Cass. civ., sez. II, 09/11/2009, n. 23708; Cass. civ., sez. I, 25/01/2008, n. 1740, in Banca Dati DeJure online. Si aveva, invece, semplice emendatio libelli secondo la teoria tradizionale quando, pur incidendo sulla causa petendi si modificava soltanto l’interpretazione o la qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto mentre, modificando il petitum, lo stesso veniva ampliato o limitato per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere, così Cass. civ., sez. lav., 27/07/2009, n. 17457; Cass. civ., sez. II, 28/03/2007, n. 7579, in Banca Dati DeJure online.
(7) Secondo le direttive tracciate dalla teoria classica, nella prima domanda il petitum consiste in una pronuncia costitutiva, mentre nella seconda in una dichiarativa; sotto il profilo della causa petendi, il fatto posto alla base dell’azione originaria è un contratto con effetti obbligatori mentre quello a fondamento della successiva è un contratto con effetti reali (art. 1376 c.c.), che costituisce titolo idoneo alla trascrizione. (8) Tra le isolate pronunce: Cass. civ., sez. VI, ord. 03/09/2013, n. 20177, a cui lo stesso collegio rinvia. (9) R. Caponi, Divieto, cit., p. 1522. (10) C. Gamba, Domande senza risposta – Sulla modificazione della domanda nel processo civile, Padova, CEDAM, 2008, p. 18. (11) Cfr. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, vol. I, Torino, Giappichelli, 2007, p. 160.
(12) C. Gamba, Domande, op. cit., pp. 91-110. È appena il caso di precisare, come fa l’Autrice, che la giurisprudenza, oltre all’utilizzo di ampie formule di stile nelle quali è difficile individuare una precisa linea di confine tra vietato e consentito, quali ad esempio quelle che fanno ricadere nell’ambito della mutatio il caso di introduzione nel processo di “un tema di indagine completamente nuovo, in modo da determinare uno spostamento dei termini della contestazione” (cfr. Cass. civ., sez. II, 28/01/2015, n. 1585; Cass. civ., sez. III, 15/11/2013, n. 25764; Cass. civ., sez. III, 05/06/2012, n. 8989; Cass. civ., sez. lav., 27/07/2009, n. 17457; Cass. civ., sez. lav., 08/10/2007, n. 21017, in Banca Dati DeJure online) si è anche servita della distinzione elaborata dalla dottrina tedesca tra diritti autodeterminati ed eterodeterminati (si vedano anche ad es. Cass. civ., sez. II, 17/11/2014, n. 24400 e Cass. civ., Sez. Un., 05/03/1996, n. 1731, in Banca Dati DeJure online). (13) A. Cerino Canova, Commentario al codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, art. 163, Torino, UTET, 1980, p. 269; in questo senso anche C. Gamba, Domande, op. cit., pp. 111-125, dove si sottolinea l’ambiguità del concetto di “fatti costitutivi” nelle formule giurisprudenziali; lo stesso infatti, può assumere tre accezioni differenti: a) accadimento storico concreto individuato nella sua natura, b) fattispecie giuridica pura e c) caso concreto già sussunto nella fattispecie che si ritiene di dover applicare allo stesso. (14) C. Gamba, Domande, op. cit., p. 281. (15) Cfr. L. Montesano, Diritto sostanziale e processo civile di cognizione nell’individuazione della domanda, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 68, dove si afferma: “Basta (…) leggere, nel c.p.c., gli artt. 163 e 164, (…), e l’art. 414, per rendersi conto che l’atto introduttivo (…) è compiuto nei requisiti essenziali pur se non individua il diritto dedotto.” (16) C. Gamba, Diritto societario e ruolo del giudice, Padova, CEDAM, 2008, p. 248. Il discorso riguarda il processo nord americano del Delaware, assunto come modello di efficienza; in questo rito, complaint e answer (atti introduttivi del processo, rispettivamente, dell’attore e del convenuto) non hanno la funzione di fornire una precisa definizione del thema decidendum, necessitando di una successiva integrazione. (17) A. Cerino Canova, op. cit., pp. 271 ss. L’Autore osserva che nella lettera dell’art. 163 c.p.c. non ci sono segnali in grado di mostrare l’intento legislativo di uniformarsi alle teorie più restrittive in punto di modificabilità. Decisivo è poi, il suo aggancio agli artt. 24 Cost., 2907 c.c. e 99 c.p.c. con cui mette in evidenza che in tutti e tre i precetti, la domanda è qualificata come richiesta di tutela o affermazione giudiziale di un diritto.
(18) C. Gamba, Domande, op. cit., p. 252. (19) Si veda in proposito Cass. civ., sez. lav., 28/08/2004, n. 17250, in Banca Dati DeJure online. Con la pronuncia si è affermato: “Nell’indagine diretta all’individuazione e qualificazione della domanda giudiziale, il giudice di merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener presente essenzialmente il contenuto sostanziale della pretesa, desumibile, oltre che dal tenore delle deduzioni svolte nell’atto introduttivo e nei successivi scritti difensivi, anche dallo scopo cui la parte mira con la sua richiesta e tenuto conto altresì delle eventuali modifiche e trasformazioni che la domanda ha subito nel corso del giudizio”. (20) In merito al concetto di conseguenza si rinvia a M. Taruffo, La trattazione della causa, in Le riforme della giustizia civile, II, a cura di M. Taruffo, Torino, UTET, 2000, p. 297, in cui si sottolinea la difficoltà di estrapolare una definizione precisa del termine, stante l’assenza di significato tecnico preciso dello stesso. (21) A. Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, in Foro italiano, 2015, fasc. 10, p. 3193. L’Autore sottolinea giustamente che tale aspetto si nota ancor più nel caso in cui il convenuto o sia rimasto contumace o non abbia rilevato nella comparsa di risposta che il negozio oggetto di causa debba essere qualificato come traslativo della proprietà e non come preliminare. (22) La critica è mossa da A. Motto, cit., pp. 3190 ss.
(23) A. Giussani, Le dichiarazioni di rinuncia nel giudizio di cognizione, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 40-43. (24) Sull’argomento si rinvia a A. Giussani, Le dichiarazioni, op. cit., pp. 17-27, oltre che al § n. 6 del presente contributo. (25) A. Giussani, Le dichiarazioni, op. cit., p. 42. A completamento del discorso e al fine di rimarcare il fatto che la rinuncia non ha portata dispositiva del diritto, l’Autore analizza anche il caso in cui l’azione rinunciata venga riproposta all’esito del giudizio che la esclude nel riguardare solo quella non rinunciata; orbene, in questa ipotesi il diritto ad ottenere un provvedimento sul merito della questione dipende dalla decisione finale riguardante soltanto l’azione non rinunciata e non dalla dichiarazione di rinuncia dell’attore, ragion per cui si esclude che la stessa possa incidere sul diritto. L’Autore puntualizza altresì che qualora si affermasse, per converso, la possibilità di riproporre l’azione rinunciata in altro giudizio (fuori dal caso da ultimo citato dove si collega la riproposizione all’esito del processo), nonostante sia stata resa una decisione sull’azione concorrente non rinunciata (in ossequio ad una teoria restrittiva dei limiti oggettivi del giudicato), gli effetti sarebbero quelli della rinuncia agli atti ex art. 306 c.p.c., senza possibilità di eluderne la disciplina in quanto la rinuncia avrebbe portata dispositiva del diritto in contesa tra le parti, consentendo di spostarne una porzione in altro processo.
(26) Si vedano ad es. in dottrina, ex multis: C. Ferri, Struttura del processo e modificazione della domanda, Padova, CEDAM, 1975, pp. 113-145; M. C. Giorgetti, Il principio di variabilità nell’oggetto del processo, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 56-59; in giurisprudenza invece, cfr. ex multis: Cass. civ., sez. trib., 20/07/2012 n. 12621; Cass. civ., sez. lav., 27/07/2009, n. 17457; Cass. civ., sez. lav., 08/10/2007, n. 21017, in Banca Dati DeJure online. (27) C. Ferri, op. cit., p. 114. (28) Sul punto si veda Corte Cost., 22/12/1961, n. 70, in Banca Dati DeJure online, con la quale si è affermato: “(…) il diritto alla difesa è compromesso allorché il contraddittorio non sia assicurato e sussistono ostacoli processuali a far valere le ragioni delle parti”. (29) Si veda nt. 26 del presente contributo. (30) E. Vullo, Le Sezioni unite si pronunciano in tema di inammissibilità della domanda nuova, rilevabilità d’ufficio del vizio e accettazione del contraddittorio, in Giurispr. Italiana, 1996, pp. 1439 ss. La questione riguarda la rilevabilità officiosa
(35) Cfr. C. Gamba, Diritto, op. cit., pag. 374. (36) Cfr. S. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, Giuffrè, 1987, p. 273. (37) Cfr. S. Menchini, Il giudicato civile, Torino, UTET, 2002, pp. 59-61 e L. P. Comoglio, Il principio di economia processuale, Padova, CEDAM, 1982, p. 126. (38) Cfr. S. Menchini, I limiti, op. cit., p. 186. (39) C. Gamba, Domande, op. cit., pp. 210-222, con la differenza che il modello americano ammette anche una mutatio della domanda originaria; Id., Diritto, p. 249, nell’ambito di un approfondito studio sul funzionamento delle Corti nordamericane del Delaware.
(40) Cfr. R. Caponi, Il principio di proporzionalità nella giustizia civile: prime note sistematiche, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, fasc. 2, pp. 389 ss. Secondo l’Autore, i fattori fondamentali per rendere un processo efficiente sono: quello legislativo, quello delle risorse e quello culturale. Fra i tre, il più importante sarebbe senza dubbio quello culturale, l’unico in grado di incidere sia sull’offerta del “servizio giustizia”, sia e ancor prima sulla qualità della domanda di giustizia. Quest’ultima infatti, non dipende unicamente da fattori economici e sociali ma anche e soprattutto da fattori culturali: è facilmente intuibile infatti, quanto può incidere sia qualitativamente sia quantitativamente il grado di lealtà, correttezza, buona fede, educazione civica e propensione a ricorrere a metodi negoziali di risoluzione delle controversie sul ricorso alla “macchina” del processo.  (41) In primis il riferimento è a Cass. civ., Sez. Un., 11/04/2014, n. 8510, in Banca Dati DeJure online, con cui i giudici, a composizione del contrasto creatosi, hanno enunciato il seguente principio di diritto: “la parte che, ai sensi dell’art. 1453, comma 2, c.c., chiede la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenerne l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla risoluzione, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla stessa, non incorrendo nel divieto di proposizione di domande nuove”; si veda anche Cass. civ., Sez. Un., 12/12/2014, n. 26242, in Riv. dir. proc., 2015, fasc. 6, pp. 1560 ss., con nota di A. Giussani, Appunti dalla lezione sul giudicato delle Sezioni Unite, in tema di azioni di impugnativa negoziale, dove si è affermato che l’oggetto del processo è rappresentato non dal diritto potestativo fondato sul singolo motivo dedotto in giudizio, ma dal negozio e dal rapporto giuridico sostanziale che ne scaturisce.  (42) Il riferimento è a Cass. civ., Sez. Un., 15/11/2007, n. 23726 a cui lo stesso Collegio rinvia. Con la sentenza è stato ribaltato l’orientamento precedentemente assunto con Cass. civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108, in cui si ammetteva la parcellizzazione dell’unico credito pecuniario in più domande purché il creditore si fosse riservato espressamente, nel primo giudizio, di agire successivamente per il residuo. I motivi che hanno condotto il Supremo Collegio a distaccarsi da una simile posizione sono stati, in primis la valorizzazione della regola della correttezza e della buona fede, nel suo porsi in connessione con il dovere inderogabile di solidarietà sancito all’art. 2 Cost., ma soprattutto la considerazione per cui il frazionamento del credito andrebbe a violare il canone del giusto processo, sia per il pericolo di giudicati contrastanti sia per la quantità innumerevole di processi che sarebbero pendenti in modo ingiustificato (cfr. M. Bove, Il principio della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010, pp. 100-101). (43) R. Caponi, Divieto, cit., p. 1524. (44) A. Giussani, Le dichiarazioni, op. cit., p. 21. (45) Cfr. M. Bove, op. cit., p. 110. (46) In passato, proprio le stesse Sezioni Unite, con la sentenza Cass. civ., Sez. Un., 03/01/2008, n. 26373, in Banca Dati DeJure online, hanno affermato che il giudice, nel rispetto del diritto costituzionale ad una ragionevole durata del processo (principio consacrato nell’art. 111 Cost., oltre che negli artt. 175 e 127 c.p.c.), deve evitare e impedire comportamenti che si pongono come ostacolo ad una sollecita definizione della causa, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e di formalità superflue, non giustificate dalla struttura dialettica del processo e dal rispetto del contraddittorio. Fra questi rientra certamente anche quella condotta che impedisce all’attore di porre in essere un’incisiva modifica della domanda, soprattutto se questa avviene in un frangente dove non vi è lesione del contraddittorio e della difesa e non si allungano i tempi di giustizia, costringendo la parte a riaccendere il motore processuale. (47) L. P. Comoglio, op. cit, p. 274. (48) R. Caponi, Il principio, cit., pp. 401-402. (49) C. Gamba, Diritto, p. 2. Il modello italiano vede con diffidenza l’ampia discrezionalità del giudice anche perché fa parte dei sistemi a struttura gerarchica dove il primato delle regole avrebbe l’effetto di privare l’autorità giudiziaria della possibilità di esercitare un ruolo attivo nella scelta dei criteri di decisione; si veda in proposito nt. 50 del presente contributo. (50) M. Damaška, I volti della giustizia e del potere: analisi comparatistica del processo, traduzione di Andrea Giussani e Fabio Rota, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 109. La prima parte dell’opera (capp. 1-2) è incentrata sullo studio dell’influenza che l’organizzazione del potere dello Stato imprime sul processo. In particolare, vengono scelti due sistemi sui quali concentrare l’analisi: il modello gerarchico e quello paritario. In breve: il modello gerarchico ha una struttura piramidale, ispirata all’utilizzo di criteri tecnici per la formulazione delle decisioni, alla sfiducia nella discrezionalità del giudice e al c.d. legalismo logico, che predilige l’uso di principi e di schemi ordinatori, svincolati dal contesto e, di conseguenza, più generali. Il motivo del distacco del modello piramidale (quale è il nostro) da quello che concede un più ampio respiro alla valutazione del giudicante è facilmente intuibile: la logica della gerarchizzazione impone che le decisioni siano soggette ad un controllo da parte degli organi superiori, per cui un’ampia autonomia di quelli posizionati nei gradini inferiori andrebbe, inevitabilmente, a stravolgere i presupposti dell’intera struttura di potere. Al contrario, il modello paritario è improntato alla distribuzione orizzontale del potere, alla partecipazione dei laici all’attività decisionale e alla giustizia sostanziale, quest’ultima fortemente ancorata a regole etiche, politiche e religiose radicate nella collettività per cui la discrezionalità dell’organo giudicante è una componente imprescindibile. (51) Purtroppo, la riforma del diritto societario ha finito per allontanare il giudice dalla fase più importante del processo, quella preparatoria, che si svolge in assenza della sua supervisione. Per un’analisi più approfondita si rinvia a C. Gamba, Diritto, op. cit., pp. 493 ss. (52) Sul tema si veda ampiamente C. Gamba, Diritto, passim, dove l’Autrice sottolinea che, soprattutto in una materia complessa come quella del diritto delle società, è necessaria un’elaborazione che ponga il giudice in posizione centrale, con un ruolo “attivo” nei rapporti societari e un potere “creativo” rispetto alle regole che li disciplinano. Le motivazioni che condurrebbero a tale inversione di tendenza sarebbero la conseguenza di un’evoluzione culturale che non permea solo l’ambito giuridico ma si spinge oltre i suoi confini. Tra i vari fattori: 1) l’acquisizione di consapevolezza nell’incapacità del solo sistema di mercato concorrenziale di raggiungere un’efficiente allocazione delle risorse (tesi sostenuta invece dalla teoria neoclassica), 2) l’invasione dei concetti di law and economics, che hanno il merito di aver facilitato l’ingresso, nell’ordinamento italiano, di modelli giuridici tipici dei sistemi di common law, in cui la figura del giudice ha un ruolo centrale nella produzione del diritto. (53) Concezione tipica di uno stato “reattivo”, così come definito da M. Damaška, op. cit., cap. 4. (54) A. Giussani, Le dichiarazioni, op. cit., p. 24.
Silvia Ricci

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