ASPETTI CRITICI NELLE OPPOSIZIONI A SANZIONI AMMINISTRATIVE

Criterio di individuazione del Giudice Competente. Per il ricorso avverso il verbale di contestaz. di violaz. di norme del c.d.s., l’art.7, II c., D.Lgs. n.250/2011 assegna la compet. per territorio al g.d.p. del luogo in cui è stata commessa la violaz. e ciò anche nel caso in cui il verbale sia riferibile a rappresentanti di una Amm.ne dello Stato (per es. Polizia Strad. o Carabinieri). In tali casi, in cui la costituzione avviene ad opera della Prefettura competente (ai sensi dell’art.7, V c. D.Lgs. n.250/2011), e vi è quindi una espressa deroga al principio del c.d. Foro erariale, ossia del Foro della Pubb. Amm.ne previsto dall’art.25 c.p.c., che prevede la comp. del giudice del luogo in cui ha sede l’Avvocat. dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le regole ordinarie. Le ragioni di tale deroga non riposano tanto sul disposto di cui all’art.7 I c. del reg. decr. 1611/1933 a mente del quale le norme ordinarie di competenza rimanevano ferme, anche qualora fosse stata in causa un’Amm.ne dello Stato, per i giudizi innanzi ai Pretori ed ai Conciliatori posto che tale norma è stata ritenuta implicitamente abrogata a seguito dell’introduzione del giudice unico tramite il D.Lgs. n.51 del 1988 come precisato dalla Corte a Sez. Un. (Cass.Sez.Un.n.18036/2008); esse si fondano piuttosto sulla persistenza dell’esigenza “di prossimità” del procedimento di opposizione a sanzione amministrativa, da celebrarsi naturalmente, per la natura pubblicistica che lo informa, presso il giudice del luogo in cui è stato commesso l’illecito, esigenza rimasta attuale anche dopo la soppressione delle preture, e dalla peculiare natura di detto procedimento siccome caratterizzato dalla notifica diretta del ricorso introduttivo e pedissequo decreto di convocazione delle parti direttamente all’autorità emittente il provvedimento impugnato, nonché dalla possibilità, per l’amministrazione resistente, di stare in giudizio personalmente tramite i propri funzionari (Cass.n.14562/2002; Cass.n.14057/2004; Cass.n.14828/2006). Va peraltro precisato, per completezza, che l’esclusione del Foro erariale è prevista, in forza delle medesime motivazioni, anche in relazione ai procedimenti di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace in materia di opposizioni a sanzione amministrativa come recentemente statuito dalle Sez. Un.  Cass. (Cass.Sez.Un.n.23285/2010; Cass.n.11709/2012) che hanno definitivamente risolto un annoso contrasto giurisprudenziale formatosi presso la giurisprudenza di merito. La stessa regola, ossia la competenza del giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione vale, ai sensi dell’art.6, II c. D.Lgs.n.150/2011, per l’opposizione avverso l’ordinanzaingiunzione emessa dal Prefetto ai sensi degli artt.204 e 205 c.d.s. (ed in genere per tutti i provvedimenti prefettizi impugnabili ai sensi dell’art.205 c.d.s, come per es. il provvedimento prefettizio di sospensione della patente di guida ai sensi dell’art.218, V c. c.d.s. ovvero ai sensi dell’art.223, IV c. c.d.s.).
Con particolare riferimento ai provvedimenti prefettizi è opportuno evidenziare che la competenza per territorio del giudice dell’opposizione in relazione a detti provvedimenti non è necessariamente determinata in relazione alla sede della autorità emittente, potendo in qualche caso non esservi coincidenza; infatti se la violazione è commessa in un luogo che rientra nel mandamento di un g.d.p. diverso da quello nel cui mandamento si trova la sede della Prefettura che ha emesso il provv. sarà il primo giudice e non l’altro, ad essere competente. Per fare un esempio pratico di immediata riferibilità territoriale, per una violazione commessa nel territorio di Cinisello Balsamo, che fa parte della Provincia di Milano (rectius, dal 1 gennaio 2015, della Città Metropolitana di Milano), è ben vero che competente ad emettere il relativo provvedimento prefettizio sarà il Prefetto di Milano ma, poiché Cinisello Balsamo rientra nel mandamento del G.d.P. di Monza che è diverso da quello in cui si trova il giudice competente in riferimento alla sede prefettizia, ossia il G.d.P. di Milano, sarà proprio il primo e non quest’ultimo competente a decidere sull’opposizione. Capitano invece spesso ricorsi depositati avanti il G.d.P. di Milano solo perché il provvedimento impugnato emana dal Prefetto di Milano sebbene il luogo della commessa violazione rientri nell’ambito territoriale di competenza del G.d.P. di Monza e che vengono successivamente riassunti avanti il nostro Ufficio a seguito di ordinanze di incompetenza territoriale emesse dal G.d.P. di Milano.

Criterio di individuazione del “LUOGO” della commessa violazione. Importante sottolineare inoltre che, di norma, il luogo della commissione dell’infrazione coincide con quello in cui la stessa è stata accertata in relazione al presumibile perfezionarsi dell’infrazione nel posto in cui ne vengano acclarati gli elementi costitutivi, ovvero venga constatata parte della condotta attiva o passiva del trasgressore, in sé idonea ad integrare contegno sanzionabile (Cass.n.7397/2014; Cass.n.25075/2010; Cass.n.18075/2004; Cass.n.10561/1996). Tuttavia l’operatività di tale presunzione deve essere esclusa, allorquando dal verbale di contestazione risulti un luogo della consumazione dell’illecito diverso da quello dell’accertamento, da intendersi quale mero luogo di reperimento delle prove di un illecito commesso altrove. Il caso era quello di una sanzione amministrativa comminata per immissione nel circuito alimentare di un animale cui erano state somministrate sostanze anabolizzanti vietate dalla legge, illecito commesso presso la sede dell’allevatore, rientrante nella competenza territoriale di un giudice diverso da quello del mandamento in cui si trovava il mattatoio in cui era stata accertata la violazione. (Cass.n.10917/2003).  Sempre decisivo appare, al fine di radicare la competenza del giudice dell’opposizione, il criterio dell’effettivo luogo della consumazione dell’illecito, anche allorquando la verbalizzazione sia eventualmente avvenuta in luogo diverso. (Cass.n.14818/2009). Una simile eventualità non è poi così infrequente. Basti pensare che, soprattutto nel caso in cui la contestazione avvenga ad opera della Polizia Stradale o dei Carabinieri, non è raro che gli operanti procedano ad una verbalizzazione successiva, dell’illecito contestato immediatamente, ma solo in via orale, nei locali dei rispettivi comandi operativi che possono essere ubicati in un mandamento diverso da quello in cui l’illecito è stato commesso. Va ricordato al proposito che la giurisprudenza ha riconosciuto la validità della contestazione orale dell’infrazione con successiva verbalizzazione proprio in un caso in cui gli operanti erano rimasti privi della modulistica di riferimento e ciò perché l’art.200 c.d.s. esige solo la immediatezza della contestazione e non l’immediatezza della verbalizzazione, che può anche avvenire successivamente per motivi contingenti e giustificabili (Cass.n.14668/2008).

Luogo dell’accertamento della violaz. come criterio “residuale” di individuaz. del Giudice territorialmente competente.  Il principio della competenza territoriale del giudice o dell’autorità amministrativa del luogo in cui è stata commessa la violazione, deve tuttavia essere integrato con il criterio del luogo dell’accertamento allorquando la consumazione della violazione non si esaurisca nel territorio di una sola autorità ovvero vi sia contemporaneità o pluralità di violazioni commesse in luoghi diversi.  Si è applicato il primo principio in una fattispecie di sanzioni comminate ad un istituto di credito per violazioni di tipi finanziario commesse dalle singole filiali ubicate in ambiti territoriali di competenza di diversi giudici e la Cassazione ha ritenuto la competenza del giudice del luogo in cui si trovava la sede centrale della banca quale luogo dell’accertamento delle violazioni (Cass.n.10243/2000).
Il secondo principio è stato affermato in un caso di violaz. in materia di pubblicità radiotelevisiva a diffusione locale laddove la contemporaneità degli illeciti commessi in luoghi diversi rendeva impossibile radicare la competenza territoriale in base al principio del luogo della commissione degli stessi, essendosi così ritenuto competente il giudice del luogo in cui si trovava la sede dell’Ente accertatore ossia l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni sito in Roma (Cass.n.9708/2001).  Il terzo principio è stato configurato in una fattispecie di violazioni commesse da un autista dipendente di una ditta di autotrasporti in relazione ad una pluralità di viaggi ed accertate ex post a seguito dell’esame dei dischi cronotachigrafi in cui la competenza, a seguito di regolamento d’ufficio, è stata individuata con riferimento al giudice del luogo in cui si trovava l’ufficio in cui gli agenti avevano esaminato detti cronotachigrafi (Cass.n.27202/2011).

Natura funzionale e inderogabile della comp. territoriale del Giudice del luogo della commessa violazione.   La competenza per territorio del giudice di pace del luogo in cui è stata commessa la violazione è ritenuta pacificamente di natura funzionale ed inderogabile (Cass. 2567/2012; Cass.8294/2005; Cass.6335/1996) in ragione della particolare materia oggetto del procedimento caratterizzata da evidenti connotazioni pubblicistiche non solo sotto il profilo processuale (il carattere costitutivo dell’accertamento rende conto del fatto che l’obbligazione nasce nel luogo in cui la violazione viene commessa), ma anche sostanziale della tipologia delle contrapposte pretese. Nel giudizio di opposizione a sanzione amm.va si controverte infatti sulla legittimità del provvedimento emesso dalla Pubblica Amministrazione, in quanto portatrice di un interesse pubblico alla repressione delle condotte illecite, a fronte del diritto del cittadino a tutelarsi contro un eventuale scorretto esercizio dei poteri amm.vi. Ciò impone la necessità che il relativo procedimento di accertamento, non a caso – va ricordato – di evidente derivazione penalistica, sia sottratto al potere dispositivo delle parti con riguardo alla determinazione del giudice competente territorialmente, e sia invece disciplinato da inderogabili criteri legali.
Va peraltro ricordato che il principio della competenza inderogabile del giudice del luogo della commessa violazione è stato più volte oggetto di censure di incostituzionalità laddove veniva contestato il fatto che attribuire la competenza a detto giudice anzichè a quello di residenza del trasgressore avrebbe posto il cittadino nella condizione di adire necessariamente il forum commissi delicti creando un privilegio illegittimo a favore della Pubbl. Amm.ne a fronte di un evidente disagio per il trasgressore non necessariamente residente nel luogo della commessa violazione. La questione tuttavia è sempre stata ritenuta manifestamente infondata dalla Consulta sul presupposto che la scelta di radicare la comp. territoriale, per tale tipo di giudizio, inderogabilmente in capo al giudice del luogo della commessa violazione, costituisce espressione di un corretto esercizio del potere discrezionale spettante al legislatore in tema di disciplina della competenza in generale, e di quella territoriale in particolare, essendo del tutto ragionevole sostenere che nel luogo in cui si è tenuto il comportamento sanzionato si discuta anche della legittimità della relativa pretesa punitiva (Corte Cost.n.74/2011; n.114/05; n.130/04; n.459/02).
Gli effetti del canone della inderogabilità della comp. territoriale del giudice del luogo in cui è commessa la violazione si estendono poi necessariamente a tutti coloro che, a vario titolo, sono chiamati a rispondere del medesimo fatto illecito. Tale principio è stato applicato in una fattispecie di sanz. amm.va comminata per indebita percezione di aiuti comunitari nei confronti di colui che era solo responsabile solidale con l’effettivo percettore dei benefici indebiti e la cui eccezione di incompetenza territoriale, in quanto risiedente in territorio diverso da quello in cui si trovava la sede della società che aveva indebitamente percepito le erogazioni ed in cui era stato quindi commesso l’illecito, veniva conseguentemente respinta (Cass.24876/2006).

Costituzione in giudizio ed eccezione di incompetenza territoriale.  Poiché le controversie in tema di opposizione ad ordinanza-ingiunzione ed al verbale di accertamento di violazione del codice della strada previste dagli artt.6 e 7 D.Lgs. 150/2011 sono regolate dal rito del lavoro l’eccezione di incompetenza territoriale del giudice del luogo della commessa violazione va sollevata, a pena di decadenza, nella memoria di costituzione e risposta tempestivamente depositata ovvero rilevata d’ufficio non oltre la prima udienza di discussione.  A seguito della L. 69/2009 che ha riformulato l’art.38  c. I c.p.c., si ritiene ora che anche l’eccezione di incompetenza per territorio funzionale (e non più solo quella derogabile) debba essere corredata dall’indicazione del giudice ritenuto competente a pena di essere considerata come non proposta con la conseguenza che in difetto di eccezione o di eccezione non ritualmente proposta la competenza per territorio rimane definitivamente radicata presso il giudice che ha ricevuto il ricorso ai sensi dell’art.38 c. I c.p.c.   Ciò posto, e con riferimento all’eccezione di parte, il termine perentorio per sollevare l’eccezione di incompetenza per territorio ad opera della amministrazione resistente è quello che coincide con il deposito in cancelleria, nei dieci giorni antecedenti l’udienza fissata nel decreto di comparizione parti pedissequo al ricorso introduttivo, di una memoria di costituzione in cui tale eccezione venga formalizzata. Come emerge dalla prassi tuttavia, il più delle volte le amministrazioni resistenti si limitano a depositare semplicemente in cancelleria, nel termine indicato nel decreto di comparizione, copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento nonché alla contestazione o alla notificazione della violazione (art.6 c. 8 e art. 7 c. 7 D.Lgs. n.150/2011), in certi casi accompagnata da una anodina richiesta, di rigetto del ricorso e conseguente conferma del provvedimento impugnato. Appare chiaro che, mentre la documentazione richiamata, anche se non allegata ad una memoria costitutiva di controdeduzioni, deve essere sempre considerata dal giudice ai fini decisori trattandosi di un obbligo di produzione imposto all’amministrazione resistente dalla legge ed è funzionale all’accertamento officioso della legittimità dell’atto amministrativo, è invece necessario, per ritualmente sollevare l’eccezione di incompetenza per territorio dell’adito giudice, il deposito di una vera e propria memoria costitutiva di controdeduzioni in cui, secondo il disposto dell’art.416 c.p.c. il resistente deve sollevare le proprie eccezioni processuali e di merito e prendere posizione sui fatti attorei, contestandoli espressamente ed indicando specificamente i mezzi di prova ritenuti necessari (Cass. 12617/2006). In difetto l’amministrazione resistente dovrà intendersi decaduta dalla facoltà di sollevare l’eccezione di incompetenza territoriale. (Cass.11747/2006). Si è peraltro escluso in giurisprudenza che tale eccezione possa essere sollevata in un atto posteriore al deposito della memoria costitutiva, pur se tempestivamente depositato nei dieci giorni anteriori l’udienza di comparizione (Cass.5629/1997).
Quanto alle modalità di costituzione della Amministrazione va subito chiarito che essa non può ritenersi configurata con il semplice deposito della documentazione concernente l’accertamento della cui legittimità si discute, trattandosi, come precisato, di un semplice deposito imposto dalla legge in quanto funzionale all’accertamento officioso richiamato. Si assiste invece spesso all’invio di memorie costitutive di controdeduzioni con allegata documentazione, tramite mail o fax direttamente presso la cancelleria del giudice adito. Ebbene in tali ipotesi neppure può configurarsi una costituzione atteso che tali modalità di trasmissione sono da considerarsi del tutto irrituali così come, specularmente, irricevibile deve valutarsi il ricorso in opposizione veicolato nelle medesime forme, ciò che comporta la declaratoria di contumacia della amministrazione resistente rimanendo peraltro possibile la sua costituzione tardiva qualora il giudizio non venga definito in una sola udienza, fino all’esaurimento della discussione (Cass.9211/1992). Si deve quindi ritenere che l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata nella memoria di controdeduzioni inviata via mail o fax non possa neppure essere scrutinata dal giudice, qualificandosi il relativo atto come tamquam non esset. Per ciò che concerne la costituzione a mezzo del servizio postale va premesso che, a seguito dell’intervento della Consulta che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la mancata previsione della possibilità di un invio del ricorso in opposizione a sanzione amministrativa tramite servizio postale (Corte Cost.98/2004), si deve ritenere, per garantire la condizione di parità processuale tra le parti, che anche l’Amministrazione resistente possa procedere alla sua costituzione spedendo la relativa memoria con plico raccomandato (Cass.18670/2010). Ai fini del tempestivo deposito di tale atto tuttavia, e quindi della ritualità della eccezione di incompetenza territoriale eventualmente in essa sollevata, è tuttavia opportuno chiarire quale sia il momento da cui decorrono gli effetti della sua trasmissione a mezzo del servizio postale, in particolare se possa valere anche per l’amministrazione resistente che si costituisce il principio della “dissociazione” degli effetti della notifica tra notificante e notificato introdotto dal giudice delle leggi (Corte Cost.477/2002) per tenere indenne il notificante dalle eventuali negative conseguenze dovute a ritardi imputabili all’organo notificante; più in particolare va accertato se, ai fini della tempestività della costituzione, si debba considerare il momento in cui il plico contenente la memoria costitutiva sia ricevuto e conseguentemente protocollato dal cancelliere del giudice adito con apposizione del relativo timbro di ricezione, ovvero quello della consegna dell’atto all’organo notificante. In materia si è pronunciata la Corte regolatrice a sezioni unite (Cass S.U. 5160/2009) secondo cui l’invio a mezzo posta dell’atto processuale destinato alla cancelleria realizza un deposito dell’atto irrituale, in quanto non previsto dalla legge, e che non necessariamente deve essere compiuta dal difensore, potendo essere realizzata anche da un “nuncius” ed i cui effetti si sanano ai fini processuali con decorrenza dalla data di ricezione dell’atto da parte del cancelliere, ed in nessun caso da quella di spedizione. Tuttavia tale principio, precisa la Corte, non può valere nelle ipotesi speciali relative, tra l’altro, al giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione che si caratterizza per una semplicità di forme del tutto particolare, intesa a rendere il più possibile agevole l’accesso alla tutela giurisdizionale nella specifica materia. Ne consegue che anche nel caso di costituzione dell’Amm.ne a mezzo del servizio postale, gli effetti di tale costituzione, ai fini della sua tempestività, debbono essere ricondotti, così come per il ricorso introduttivo, al momento della spedizione, ossia della consegna del plico contenente l’atto all’ufficiale postale, e non già della ricezione del medesimo da parte del cancelliere.

Rilievo officioso dell’incompetenza territoriale. Il rilievo officioso dell’incompetenza territoriale deve avvenire, ai sensi dell’art.428, I c. che al riguardo ribadisce il disposto dell’art.38, I c. c.p.c., non oltre la prima udienza di trattazione (Cass.19410/2010; Cass.1167/2007; Cass.27065/2005) da ritenersi quale udienza effettiva, quindi quella che si celebra con la effettiva comparizione delle parti, prescindendo dagli eventuali rinvii d’ufficio. Nel proc. davanti al g.d.p. infatti, riguardo al quale non è configurabile una distinzione tra udienza di I comparizione e I udienza di trattazione, le preclusioni sono necessariamente collegate allo svolgimento della I udienza effettiva (Cass.10032/07).
Nel provv. declinatorio di competenza a seguito di rilievo ufficioso deve essere indicato il giudice ritenuto competente, posto che tale indicazione rientra nel potere-dovere del giudice adito (Cass.10236/2008) e deve essere assegnato il termine per la riassunzione del proc. innanzi al giudice ad quem, termine che è perentorio a pena di estinzione del procedimento e che, in difetto di indicazione, coincide con quello di 3 mesi previsto dall’art.50 c.p.c.
La necessità dell’indicazione del giudice ritenuto competente e la conseguente fissazione di un termine per la riassunzione trovano giustificazione nella circostanza che il ricorso avverso le sanzioni amministrative è soggetto a termine perentorio di proposizione della domanda e che la decisione adottata sulla incompetenza per territorio deve provvedere a conservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta, ancorchè detta domanda sia stata proposta avanti il giudice privo di competenza (Corte Cost. n. 77/2007)
A seguito della novella del 2009 il provv. con cui il giudice decide sulla propria incompetenza assume la veste dell’ordinanza. La parte può impugnare il provv. (Cass.14185/2008) o riassumere il procedimento avanti il giudice indicato come competente nel termine assegnato, con la precisazione che, in tal caso, la competenza resta accertata incontestabilmente. Può tuttavia capitare che il giudice indicato come competente si ritenga a sua volta incompetente. In tal caso il giudice ad quem è legittimato a sollevare d’ufficio il conflitto chiedendo il regolamento di competenza ai sensi dell’art.45 c.p.c., procedimento ritenuto ammissibile nei giudizi avanti il giudice di pace in quanto l’art.46 c.p.c., secondo cui le disposiz. degli artt.42 e 43 c.p.c. non si applicano in tali giudizi, non riguarda il regolamento di ufficio, ma solo quello ad istanza di parte (Cass.17663/2004). Ciò perché come detto, la competenza del giudice del luogo della commessa violazione è funzionale e, in quanto equiparata a quella territoriale inderogabile, per essa ricorre il requisito previsto dall’art.45 c.p.c. per richiedere d’ufficio il regolamento di competenza costituito dalla declaratoria di incompetenza da parte del I giudice per ragione di materia o di territorio ex art.28 c.p.c. (Cass.15382/2012).
Può tuttavia capitare che il giudice ritenuto competente si ritenga a sua volta incompetente senza tuttavia sollevare il conflitto d’ufficio come richiesto dall’art.45 c.p.c. ed indicando come giudice competente lo stesso giudice a quo o un terzo giudice. Tale provvedimento declinatorio del giudice, secondo la Corte regolatrice, può essere impugnato dalla parte con il regolamento necessario di competenza ai sensi dell’art.42 c.p.c. denunciando il conflitto negativo di competenza che si sia verificato (Cass.5713/2013). In difetto di impugnazione acquista autorità di giudicato tanto la statuizione di incompetenza del giudice che l’ha pronunciata, quanto quella sulla (asserita) competenza dell’autorità davanti alla quale la causa sia stata tempestivamente riassunta con la conseguenza che nei successivi gradi di giudizio, né le parti, né il giudice procedente hanno la facoltà di rimettere in discussione quanto stabilito in tema di competenza dell’autorità giudiziaria originariamente adita (Cass.2973/2012). Tuttavia, poichè nei giudizi avanti il giudice di pace il regolamento necessario di competenza ad istanza di parte non è, come detto, configurabile, il conflitto negativo reale di competenza potrà essere risolto o con l’appello (Cass.23458/2011) ovvero con la richiesta del regolamento d’ufficio da parte del primo giudice adito, davanti al quale il proc.sia stato per la seconda volta riassunto (Cass.3430/1984) ovvero da un terzo giudice indicato come competente dalla seconda declinatoria, sempre che la parte si sia anche in questo caso attivata per la riassunzione (c.d. “conflitto a tre” Cass.15126/2002).
Particolare attenzione va riservata alla problematica relativa al rilievo officioso dell’incompetenza in rapporto alla condotta della Amm.ne resistente. Avviene infatti qualche volta che quest’ultima, limitatasi a depositare nei dieci giorni antecedenti l’udienza di prima comparizione esclusivamente copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento nonché alla contestazione o alla notificazione della violazione, e conseguentemente decaduta dal sollevare l’eccezione di incompetenza territoriale, si presenti alla prima udienza instando affinchè il giudice la rilevi d’ufficio. In tal caso il giudice, che eventualmente non se ne sia avveduto prima, può senz’altro esercitare il suo potere officioso, a nulla rilevando di essere stato sollecitato da una parte decaduta, contando esclusivamente, attesa la natura della sua decisione, la tempestività del rilievo. Deve invece escludersi che vi sia un obbligo del giudice al rilievo ufficioso a seguito di detta sollecitazione, pur se la stessa abbia ad oggetto un’eccezione di incompetenza territoriale fondata. La giurisprudenza infatti è consolidata nell’affermare che le parti non possono lamentare il mancato esercizio del potere officioso (Cass.13414/2001; Cass.7119/2002) e possono coltivare la questione con l’impugnazione solo se hanno tempestivamente eccepito, (Cass.22055/2006) peraltro in via non subordinata alle difese di merito (Cass.16557/2008). Capita poi spesso che l’amministrazione, dopo aver tempestivamente sollevato l’eccezione di incompetenza territoriale nella propria memoria costitutiva di controdeduzioni, non compaia all’udienza di I comparizione o alle udienze successive. In tale caso la semplice assenza della resistente non comporta certo tacito abbandono dell’eccezione che, in quanto tale, dovrà essere necessariamente scrutinata dal giudice (Cass.23781/2007; Cass. 2365/2007).
Quanto al ricorrente, ad esso è certamente preclusa la facoltà di sollevare l’eccezione di incompetenza territoriale avendovi dato causa; tuttavia, stante la rilevabilità officiosa della medesima, può sempre prospettare al giudice in prima udienza, allo stesso modo della resistente non tempestivamente costituitasi, la avvenuta violazione delle regole al riguardo .

Dichiarazione di incompetenza e spese di lite.  Con il provv. con cui dichiara la propria incompetenza il giudice è tenuto a provvedere sulle spese di lite, non potendo rimettere la relativa pronuncia al giudice dichiarato competente, atteso che la declaratoria di incompetenza definisce la fase processuale svolta avanti a detto giudice. In relazione al concetto di “sentenza che chiude il processo” non è, infatti, richiesta esclusivamente una soccombenza di merito, assumendo rilievo anche quella avvenuta per ragioni di ordine processuale, purché la pronuncia che la dichiari sia almeno conclusiva di una fase del giudizio. (Cass.22541/2006) Né rileva il fatto che tale fase si sia chiusa con ordinanza anziché con sentenza, posto che la pronuncia declinatoria di competenza ha valore di sentenza in senso sostanziale in quanto idonea a chiudere il processo davanti al giudice che l’ha emessa (Cass.23359/2011).

Revoca del provvedimento di incompetenza. Il giudice che ha emesso l’ordinanza di incompetenza territoriale non può successivamente delibare una istanza di revoca della stessa avanzata dall’opponente il quale, come detto, non ha alternative tra l’impugnazione del provv. la riassunzione del giudizio avanti il giudice dichiarato competente. Infatti l’istanza diretta a provocare la revoca di un provv. decisorio emesso nel giudizio di opposizione a sanzione amm.va quale appunto deve intendersi l’ordinanza di incompetenza territoriale da parte dello stesso giudice che lo ha emanato, dopo che lo stesso con la pronuncia si è spogliato della “potestas iudicandi”, è estranea ad ogni schema processuale e quindi non determina neanche il potere – dovere di pronunciare. La Corte di legittimità, in applicazione di tale principio, ha così dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il provv. di rigetto dell’istanza di revoca del provv. con cui era stata dichiarata l’incompetenza (Cass.272/2007).

Modifica della competenza per territorio per ragioni di connessione. La natura funzionale e inderogabile della competenza per territorio del giudice di pace in tema di sanzioni amm.ve connesse al codice della strada, esclude la configurabilità di sue deroghe per ragioni di continenza o di connessione di procedimenti, sia questa intesa in senso ampio e generico ai sensi dell’art.40 c.p.c., sia che ricorrano le particolari ipotesi di cui agli artt.34,35 e 36 c.p.c. analogamente a quanto previsto in tema di competenza del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, che pure è ritenuta di natura funzionale ed inderogabile (Cass. 7684/1993). E’ pacifico infatti che qualora tale giudice venga investito di una domanda connessa, ma che risulti estranea alla sua competenza, egli è tenuto a separare i giudizi, trattenendo dinanzi a sé la causa in opposizione a decreto (in forza della inderogabilità della competenza funzionale) e rimettendo le parti dinanzi al diverso giudice competente per la causa connessa (Cass.20324/2006). Ad analoghe conclusioni occorre pervenire allorchè la incompetenza sia di carattere territoriale funzionale ed inderogabile, determinata dalla legge, come nel caso in esame. Pertanto ove il giudice di pace, venga investito di una controversia che, pur presentando identità soggettiva ed oggettiva, faccia riferimento a fatti accaduti in luoghi diversi, che comportino la competenza per territorio funzionale e inderogabile di giudici di pace diversi, non potrà dare corso ad un simultaneus processus ma dovrà dichiararsi incompetente territorialmente per la causa avente ad oggetto i fatti accaduti fuori dal suo ambito territoriale di riferimento, con rimessione delle parti avanti il giudice indicato come competente, conseguentemente trattenendo presso di sé il procedimento relativo al fatto di sua pertinenza territoriale (Cass.6595/2002). In applicazione di tale principio si sostiene conseguentemente che la connessione derivante dalla reiterazione della condotta non può aver alcun effetto processuale nel senso di comportare una deroga della competenza in favore del giudice di pace competente a decidere sull’opposizione alla prima violazione in ordine di tempo. Il caso è quello di un automobilista che viene sanzionato tramite autovelox lungo uno stesso percorso autostradale a distanza di un apprezzabile lasso di tempo tra le infrazioni rilevate che vengono tuttavia commesse nell’ambito territoriale di competenza di giudici diversi. Non essendo applicabile a tali illeciti l’istituto della continuazione disciplinato dall’art.81 c.p., ne deriva che ciascun giudice dovrà ritenersi competente a decidere sulla legittimità della violazione di sua pertinenza territoriale (Cass.944/2011).

L’Istituto dell’”AVVALIMENTO”: quale incidenza sulla competenza territoriale.  Una fattispecie qualche anno fa assai ricorrente, ma che ancor oggi capita di dover scrutinare, è quella di provvedimenti prefettizi che vengono emessi da un’Autorità territorialmente incompetente in luogo di quella effettivamente competente, prassi tuttavia che troverebbe il suo fondamento nell’istituto dell’”avvalimento”, per cui taluni atti di competenza di una certa Prefettura vengono, di fatto, adottati da altra Prefettura. Nello specifico il Prefetto di Milano con circol. n.9C1/2011/00069GAB del 14.04.2011, in esecuzione delle indicazioni fornite dal Min. dell’Interno, ed in relazione al D.P.R.11.02.2011 n.16 istitutivo della Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo di Monza, aveva disposto che la neo Prefettura, perlomeno sino al conseguimento della piena ed autonoma funzionalità, e quindi temporaneamente, avrebbe potuto avvalersi degli uffici e dei servizi della Prefettura di Milano, anche per evitare disfunzioni e possibili pregiudizi nell’erogazione dei servizi all’utenza. In conformità alle indicazioni ricevute dall’Uff. di Gabinetto del Min. dell’Interno dunque, all’istituto dell’”avvalimento” poteva farsi ricorso, tra l’altro, anche nell’ambito dell’esercizio delle attribuzioni in materia di sanz. amm.ve di cui alla Tabella A allegata al D.Lgs. n.139/2000 con la precisazione che, quanto al grado ed alle modalità dell’avvalimento, si sarebbe provveduto di volta in volta, di concerto tra le prefetture interessate, in un ambito collaborativo, avuto riguardo al tipo di procedimento ed al livello di organizzazione raggiunto dal singolo Ufficio.  La finalità della richiamata circolare, che doveva assicurare, durante i primi tempi della sua attuazione, lo svolgimento della attività istituzionale della Prefettura di Monza (anche se a distanza di ormai quattro anni legittime sono le perplessità sulla “temporaneità” di tale regime), era dunque quello di mettere a disposizione di quest’ultima tutte le risorse strumentali, organizzative ed umane della Prefettura di Milano onde evitare il possibile default del neonato Ufficio Territoriale, nel senso del rilascio di mere deleghe di servizio con le quali i dirigenti della Prefettura di Milano potessero emettere provvedimenti di competenza della Prefettura di Monza. Si assisteva invece a casi in cui il provvedimento prefettizio, in forza delle predette deleghe, veniva emesso da dirigenti della Prefettura di Milano, non già tuttavia come provvedimento promanante dalla Prefettura di Monza, ma dalla Prefettura di Milano. In tali casi l’impugnazione del provvedimento per incompetenza territoriale dell’autorità emittente, con conseguente richiesta di declaratoria di annullamento dello stesso, appare certamente fondata, in quanto non può certo una circolare ministeriale modificare i criteri di determinazione della competenza territoriale in oggetto, funzionale ed inderogabile, stabiliti per legge che debbono essere quindi sempre rispettati anche in presenza di deleghe di servizio. In altri termini, la intangibilità del provvedimento prefettizio, in forza del richiamato istituto dell’”avvalimento”, sussiste solo nel caso in cui detto provvedimento, pur essendo stato firmato da dirigente di prefettura non competente territorialmente, tuttavia sia stato emanato dalla prefettura competente territorialmente; e proprio in applicazione di tale principio non può essere meritevole di accoglimento la doglianza fondata sul rilievo che il provvedimento prefettizio impugnato, pur emesso dalla Prefettura competente territorialmente, sia stato sottoscritto da un vice-prefetto appartenente all’organigramma di un’altra Prefettura, non potendo tale circostanza assurgere, per le ragioni evidenziate, a vizio inficiante la legittimità del provvedimento contestato.

Ingiunzione fiscale e competenza territoriale ex art. 32 D.Lgs. n.150/2011. Con riferimento alla tematica in oggetto occorre solo premettere che la Corte regolatrice, dissipando ogni dubbio in merito ad una questione assai controversa e complessa, ha definitivamente chiarito la legittimità del ricorso alla procedura di riscossione coattiva delle somme dovute a titolo di sanzione amm.va per violaz. delle norme del c.d.s. ai sensi del R.D. 639/1910 (c.d. “ingiunzione fiscale”), rientrando tali somme tra le “altre entrate di spettanza delle province e dei comuni” per le quali l’art. 52, c. 6, lett. b), del d.lgs 446/1997, prevede l’accesso a tale procedura (Cass.8460/2010), procedura che si affianca dunque come alternativa a quella basata sull’emissione del ruolo esattoriale, con affidamento della esazione delle somme dovute ai cc.dd. “agenti della riscossione”.   Ciò posto, la disciplina processuale che regola il giudizio di opposizione all’ingiunzione di pagamento è oggi contenuta nell’art.32 D.Lgs. 50/2011, il cui c. 1 prevede che esso si celebra con l’ordinario giudizio di cognizione, quindi con atto incoativo di citazione, ed il cui secondo comma radica la competenza territoriale in capo al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento opposto, ribadendo quanto già prevedeva sul punto l’art.3 R.D. 639/1910 e ciò in base all’art 54 c. 4 L. 69/2009 per cui nell’ambito della delega affidata al governo, dovevano restare “fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente”.
Va tuttavia precisato che qualora l’ente affidi a terzi la gestione della riscossione delle proprie entrate, la competenza territoriale dovrà essere individuata in capo al giudice del luogo in cui ha sede il concessionario subentrato all’ente impositore nei diritti ed obblighi inerenti alla gestione del servizio e quindi legittimato a contraddire (Cass.15864/2004).
Tali profili processuali vengono spesso disattesi dagli opponenti che, fondandosi sulla natura della violazione all’origine dell’ingiunzione fiscale, spesso adiscono con ricorso il giudice del luogo in cui è stato commesso l’illecito, che può essere tuttavia diverso da quello in cui ha sede l’autorità emittente l’ingiunzione. In questo caso, dunque, se detti luoghi non rientrano in uno stesso mandamento, il giudice adito territorialmente incompetente dovrà, da un lato, dichiarare con ordinanza la propria incompetenza territoriale e, dall’altro, disporre per la riassunzione della causa avanti il giudice territorialmente competente con il rito stabilito per tale tipo di contenzioso, ossia con atto di citazione e ciò ai sensi dell’art.4 c. 4 D.Lgs. n.150/2001.
Qualora invece il giudice adito sia territorialmente competente, ma l’opposizione sia stata veicolata con ricorso anziché con atto di citazione il giudice deve solo disporre con ordinanza il mutamento del rito ai sensi dell’art.4 c. 1 D.Lgs.150/2011, ma in tal caso dovranno essere valutate le seguenti circostanze: 1) se il valore della causa è superiore ad Euro 1.100,00 (in caso di predisposizione del ricorso senza difesa tecnica) deve trovare applicazione l’art.82 c.p.c. con la conseguenza che la parte non potrà stare in giudizio personalmente, se non previa autorizzazione del giudice; 2) il giudizio si deve concludere con sentenza e non mediante lettura del dispositivo in udienza con motivazione riservata; 3) il giudizio si sostanzia sulla falsariga del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo con la differenza che l’opponente assume la veste non solo formale, ma anche sostanziale di attore, incombendo ad esso la prova dell’infondatezza della pretesa dell’amministrazione, concretandosi il procedimento in un accertamento negativo del credito ingiunto dall’ente. Anche per ciò che concerne il procedimento di opposizione ad ingiunzione fiscale, la giurisprudenza è consolidata nell’escludere l’applicabilità della regola del Foro Erariale della Pubbl. Amm. E’ stato infatti statuito al riguardo che l’ingiunzione fiscale regolata dal R.D. 639/1910 cumula in sè le caratteristiche di forma e di efficacia di titolo esecutivo e di precetto, con la conseguenza che l’opposizione dà luogo ad un giudizio di cognizione volto a contestare il diritto di procedere ad esecuzione forzata e ad ottenere un accertamento negativo della pretesa fatta valere “in executivis” dalla P. A. e con l’ulteriore conseguenza, avuto riguardo a detto carattere esecutivo del procedimento, dell’applicazione della deroga al foro erariale prevista dall’art. 7 L. 1611/1933 per i proce esecutivi (Cass. 9421/2003; Cass. 2853/1997; Cass. 8242/2000; Cass. 2100/2001).  Va infine precisato che la circostanza che l’opponente il più delle volte risieda in luogo distante da quello in cui ha sede l’autorità emittente ha dato luogo a censura di incostituzionalità della norma in oggetto per violazione degli artt.3 e 25 Cost., ma la Consulta ha dichiarato la manifesta infondatezza della relativa questione affermando che la previsione che la competenza territoriale debba, nella specie, radicarsi nel luogo ove ha sede l’ufficio emanante non costituisce esercizio arbitrario o irragionevole della discrezionalità che spetta in materia al legislatore, poiché tale previsione è fondata sulla considerazione della natura dell’ente dal quale proviene l’ingiunzione, della articolazione territoriale di questo e della qualità dei crediti, di natura pubblicistica, per il soddisfacimento dei quali il proc.di ingiunzione fiscale può essere esperito (Corte Cost.452/1997).

Competenza territoriale ed opposizione a cartella esattoriale. E’ principio consolidato in giurisprudenza che, in relazione alla cartella esattoriale notificata ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie, sono ammissibili, a seconda dei casi, tre rimedi: a) l’opposizione nelle forme previste dalla legge n. 689/1981 solo per le sanzioni per cui sia mancata la notificazione dell’ordinanza-ingiunzione o del verbale di accertamento di violazione al codice della strada, al fine di consentire all’interessato di recuperare l’esercizio del mezzo di tutela previsto dalla legge riguardo agli atti sanzionatori; b) l’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art.615 c.p.c., allorchè si contesti la legittimità dell’iscrizione a ruolo per la mancanza di un titolo legittimante o si adducano fatti estintivi (prescrizione, avvenuto pagamento) asseritamente sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo; c) l’opposizione agli atti esecutivi ex art.617 c.p.c. quando si contesti la regolarità formale della cartella esattoriale o si adducano vizi di forma del procedimento esattoriale, compresi i vizi strettamente attinenti alla notifica della cartella e quelli riguardanti i successivi avvisi di mora (Cass.562/2000; Cass.21793/2010; Cass.19801/2014).
Ciò posto, la competenza territoriale del giudice chiamato a decidere sull’opposizione, si articola diversamente a seconda dei casi indicati.
Ed invero, nell’ipotesi sub)a ossia qualora l’opposizione venga spiegata in funzione ”recuperatoria”, ossia la parte deduca che la cartella impugnata costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogatale in ragione della nullità o dell’omissione della notifica del processo verbale di contestazione o dell’ordinanza-ingiunzione, proprio in quanto la disciplina di tale opposizione, in ragione della sua particolare natura, va conformata a quella che regola l’azione recuperata, il giudice territorialmente competente a decidere in merito non potrà che essere quello del luogo in cui è stata commessa l’infrazione, ciò che sarebbe avvenuto qualora appunto il verbale di contestazione o l’ordinanza-ingiunzione fossero stati regolarmente notificati ab initio al trasgressore, lamentando il ricorrente proprio tale omessa originaria notifica (Cass.17312/2007; 21793/2010; 9551/2012; 7939/2012; 2531/2012; 1985/2014). Qualora tuttavia dalla cartella impugnata non emerga specificamente quale sia il luogo in cui è stata commessa l’infrazione stradale che ha dato origine al provvedimento sanzionatorio, è necessario ricercare un criterio sussidiario per l’individuazione del giudice territorialmente competente. A tal proposito, si deve premettere che l’opposizione a verbale di contestazione o all’ordinanza-ingiunzione irrogativa di una sanzione amministrativa avente ad oggetto l’adempimento di una obbligazione pecuniaria introduce un ordinario giudizio di cognizione sul fondamento della pretesa della P. A. nel quale quest’ultima, assumendo la posizione di attore in senso sostanziale, è onerata della prova dei fatti costitutivi della sua pretesa creditoria. Ne discende che in tali casi, si può e si deve far ricorso al foro generale delle persone fisiche di cui all’art.18 c.p.c., seguendo la direttiva principale del codice di rito che è quella di rendere più agevole la difesa delle parti, ovviamente dandosi preferenza al convenuto evocato in giudizio; ciò in quanto il criterio della competenza del giudice del luogo della commessa violazione, che è stato prescelto dal legislatore per disciplinare le controversie in oggetto, risulta inapplicabile ogniqualvolta si accerti l’omissione dell’atto impugnato imputabile all’amm.ne procedente, così rafforzandosi il rifluire sul canone di cui al citato art.18 c.p.c. (Cass.11708/2012; 19801/2014).
Nelle ipotesi sub) b e c invece, ossia quando l’atto presupposto risulti essere stato regolarmente notificato, ed il ricorrente contesti il diritto dell’amministrazione procedente ad agire in executivis, (opposizione all’esecuzione) ovvero deduca vizi formali della cartella esattoriale, (opposizione agli atti esecutivi) trattandosi di un giudizio di opposizione radicato, rispettivamente, ai sensi dell’art.615 c.p.c., ovvero dell’art.617, I c. c.p.c., e dovendosi la cartella esattoriale equiparare ad un atto di precetto, il giudice territorialmente competente sarà quello del luogo dell’esecuzione individuato ai sensi del combinato disposto di cui agli artt.27 c.p.c. e 480, III c. c.p.c.; ne consegue che, qualora la cartella esattoriale non contenga l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione, la competenza territoriale si radica necessariamente nel luogo in cui la cartella esattoriale è stata notificata, ossia presso la residenza del trasgressore (Cass. 4018/2007- in tema di opposiz. agli atti esecutivi ; Cass.8704/2011; 17749/2012; 5269/2012; 2533/2012; 20105/2013; -in tema di opposiz. all’esecuzione-).
Può tuttavia capitare che il ricorrente impugni la cartella esattoriale cumulando tutti i richiamati motivi di doglianza e dunque sia lamentando l’omessa notifica dell’atto presupposto, sia contestando il diritto dell’amministrazione procedente ad agire in executivis, sia deducendo vizi formali dell’atto opposto. In tale ipotesi, invero non infrequente, in cui le nullità lamentate vengono veicolate non mediante la sola impugnazione dell’atto notificato, ma tramite l’opposizione cumulativa con quello presupposto, ossia il verbale di contestazione o l’ordinanza-ingiunzione mai notificati, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa punitiva dell’amministrazione, si deve ritenere territorialmente competente ad esaminare tutti i motivi di doglianza il giudice dell’opposiz. recuperatoria, essendo tale scrutinio logicamente preliminare a qualsiasi altra valutazione. (Cass.19801/2014).

Infrazioni accertate tramite il sistema c.d. “TUTOR” O“SICVE”e competenza territoriale. Il c.d. “Tutor” o “Sicve” è uno strumento che consente il sanzionamento automatico delle violazioni dei limiti di velocità senza la presenza su strada dell’agente di Polizia. Il “Tutor” permette infatti, grazie all’installazione di sensori e portali con telecamere, il rilevamento della velocità media lungo tratte autostradali di lunghezza variabile, indicativamente tra 10 e 25 Km. La velocità media è calcolata in base al tempo di percorrenza: il sistema monitora tutto il traffico e ne registra gli orari di passaggio sotto i portali posti all’inizio ed alla fine della tratta controllata. I dati relativi ai veicoli, la cui velocità media non supera quella consentita, vengono automaticamente eliminati. In considerazione di siffatte caratteristiche tecniche può dunque capitare che il superamento dei limiti di velocità di un veicolo venga accertata in un tratto di strada ricompreso tra due comuni diversi, ciò che pone il problema dell’individuazione di quale sia il giudice territorialmente competente a decidere sulle opposizioni alle sanzioni in tal modo rilevate. Con una recente sentenza la Corte regolatrice (Cass.9486/2012) sembra aver chiarito definitivamente la questione con un intervento che ormai si era reso necessario in considerazione della contrastante giurisprudenza di merito che si era formata al riguardo. Nell’affrontare il tema in oggetto i giudici di legittimità premettono e ribadiscono i principi fondamentali che devono regolare la materia.
Il primo è che, come già rilevato, agli illeciti amministrativi non si applica l’istituto della continuazione così come disciplinato dall’art. 81 c.p. perché la differenza qualitativa tra illecito penale ed illecito amministrativo non consente che attraverso l’interpretazione analogica le norme di favore previste in materia penale possano essere estese agli illeciti amministrativi. Ne segue che la connessione derivante dalla reiterazione della condotta non può avere alcun effetto processuale nel senso di attrarre la comp. per territorio in favore del giudice di pace competente per l’opposiz. al verbale concernente l’accertamento della prima violaz. (Cass.5252/2011).
Il secondo è che, al proposito, neppure può richiamarsi l’istituto del concorso formale previsto dall’art.8 L 689/1981, in ipotesi applicabile alla materia in oggetto, che prevede il cumulo giuridico delle sanz. amm.ve solo nell’ipotesi di concorso formale, omogeneo o eterogeneo, ossia nell’ipotesi di chi con un’unica azione od omissione, violi più disposizioni di legge o commetta più violaz. della stessa disposiz. di legge, e non già nel caso di molteplici violazioni commesse con una pluralità di condotte (Cass.5252/2011; 20222/2011; 12974/2008; 12844/2008).
Il terzo è che va pure esclusa, con riguardo al profilo esaminato, anche l’operatività del disposto di cui all’art.8 bis L. 689/1981 con cui il legislatore ha, invero, conferito rilevanza giuridica alla continuazione degli illeciti, disponendo che le violazioni amministrative successive alla prima non sono valutate quando sono commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria, ma ciò tuttavia, solo ai fini della reiterazione. Tale inciso infatti circoscrive la rilevanza del disegno criminoso realizzato tramite una pluralità di illeciti eziologicamente connessi, alla sola elisione degli effetti negativi che deriverebbero dal riconoscimento della reiterazione (Cass.17347/2007), ossia una sorta di recidiva di stampo penalistico, ed è quindi dettata al solo fine di escludere l’effetto aggravante che deriverebbe dalla reiterazione dell’illecito, e non certo in funzione unificante della sanzione. Conclusione del resto, ulteriormente confermata, in materia di illeciti previsto dal codice della strada, dall’art.198 c.d.s., che dopo aver ribadito, al primo comma , il principio del cumulo giuridico in caso di concorso formale di illeciti, dispone, al secondo comma, che “nell’ambito delle aree pedonali urbane e nelle zone a traffico limitato, il trasgressore ai divieti di accesso e agli altri singoli obblighi e divieti o limitazioni soggiace alle sanz. previste per ogni singola violazione”. Né tale assunto risulta inficiato dalla ordinanza interpretativa della Consulta, che, chiamata a decidere sulle legittimità costit. del II c. dell’art.198 c.d.s. (Corte Cost.14/2007) ha statuito che “non ad ogni accertamento deve necessariamente corrispondere una contravvenzione, essendo la circolazione in zona vietata una condotta di durata”. Ed invero con tale ordinanza la Corte Cost. non ha inteso estendere l’operatività dell’istituto della continuazione agli illeciti amm.vi, ma ha solo ritenuto che, allorquando sussista un brevissimo lasso temporale tra due violazioni (per esempio ingressi nella ZTL), il giudice debba valutare la configurabilità di una sola condotta di durata. Da tali considerazioni non si può sostenere che risulti modificato il principio generale dell’art.8 L. 689/1981 secondo cui la sanz. più grave aumentata fino al triplo non può essere irrogata, salve le ipotesi eccezionali previste dal II c. della richiamata disposiz. (in materia di violaz. di norme previdenziali ed assistenziali), che nei soli casi di concorso formale (Cass.26434/2014).
Ciò posto appare evidente che le violazioni rilevate a distanza di diversi minuti e di diversi chilometri l’una dall’altra non possono certo integrare una unica condotta trasgressiva, ma corrispondono a tante violazioni quante sono le rilevazioni effettuate lungo il percorso autostradale. Esclusa dunque l’applicabilità degli istituti della continuazione (art.81 c.p.) del concorso formale (art.8 L. 689/1981), nonché dell’art.8 bis L. 689/1981, stante l’impossibilità di accertare con precisione il punto esatto in cui il trasgressore ha superato la velocità media consentita, secondo il recente orientamento giurisprudenziale, per individuare il giudice competente territorialmente a conoscere dell’opposizione al verbale dovrà farsi riferimento al criterio di cui all’art.9 c.p.p.; tale norma prevede infatti che, se la competenza territoriale non può essere determinata in base ai principi generali, ossia con riguardo al luogo di consumazione del reato, sarà competente il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione. Ne consegue quindi che se il veicolo sanzionato ha percorso un tratto di strada tra due comuni limitrofi si deve ritenere che la competenza territoriale vada riconosciuta al giudice di pace del luogo in cui si trova la porta di uscita del sistema di rilevamento tramite “Tutor”. In sostanza, si dovrà impugnare ciascun verbale di contestazione elevato in base a detto rilevamento avanti a ciascun giudice di pace territorialmente competente ed il giudice della prima (o dell’ultima) violazione avanti a cui fossero eventualmente impugnati tutti i verbali elevati tramite “Tutor” dovrà dichiarare la propria incompetenza per tutti quelli non accertati dalla porta di uscita ubicata nel suo ambito territoriale di competenza, rimettendo dinanzi al diverso giudice competente ogni altra violazione.
Per dovere di completezza va precisato che, prima di tale arresto, la giurisprudenza di merito, proprio in forza del presupposto che il sistema di rilevazione tramite “Tutor” non consentisse l’individuazione del luogo preciso della rilevazione della infrazione, e della qualità di consumatore del trasgressore, aveva individuato nel giudice del luogo di residenza di quest’ultimo, nel quale avviene la notifica del provvedimento sanzionatorio, quello competente a decidere sull’opposizione al verbale di contestazione (G.d.P. Ariano Irpino, 26.05.2009; G.d.P. di Tagliacozzo 26.02.2010), ogni diversa applicazione risultando certamente viziata per lesione del costituzionale diritto di facile accesso alla giurisdizione (G.d.P. di Viterbo 15.10.2008, in motivazione). Per certa dottrina siffatto “trend” giurisprudenziale, doveva ritenersi aver trovato implicita conferma, a livello di legittimità, in un caso in cui la Cassazione, decidendo in merito all’illegittimità del provvedimento con cui l’adito giudice di pace del luogo di residenza del trasgressore, aveva “tout court” dichiarato inammissibile il ricorso presentato innanzi al suo Ufficio avverso verbali di contestazione rilevati tramite “Tutor” relativi ad illeciti commessi in diverse località, e per i quali sarebbero stati competenti giudici di pace differenti da quello adito, aveva, a seguito della cassazione del provvedimento impugnato, rimesso la causa per nuovo esame, ad un diverso magistrato dello stesso ufficio, con ciò sostanzialmente ribadendo, seppur implicitamente, la competenza del “foro del consumatore” (Cass.n.23881/2011). In realtà detta rimessione era motivata dal fatto che il giudice di pace aveva assunto un provvedimento abnorme dichiarando l’inammissibilità dei ricorsi in ragione della propria incompetenza territoriale in luogo di provvedere in tal senso, ciò che aveva comportato la rimessione ad altro giudice di pace dello stesso Ufficio per l’adozione di tale provvedimento, al fine di consentire la declaratoria, stavolta nelle forme corrette, della propria (già sostanzialmente) dichiarata incompetenza territoriale.
In ogni caso, non sembra sostenibile individuare nella figura del trasgressore la qualifica di consumatore ai sensi dell’art 63 del codice di riferimento, mentre la inderogabilità del criterio di competenza territoriale, in quanto informata, come dianzi precisato, a ragioni di preminente interesse pubblico, non può che prevalere sulla, pur inderogabile, disciplina del foro del consumatore, che a tali principi non può certo dirsi ispirata.
Sorprendente appare quindi l’atto di sindacato ispettivo n. 4-02384 pubblicato il 25.06.2014, nella seduta n. 269 con cui il senatore Scilipoti rivolgendosi al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e dell’interno, e citando espressamente Cass.23881/2011 nonché la richiamata giurisprudenza di merito, ribadito come il sistema “Tutor” non consentirebbe un margine di sufficiente certezza né riguardo al luogo esatto in cui l’infrazione sarebbe stata commessa, né con riferimento alla stessa velocità sanzionata con l’ulteriore effetto di non poter individuare con sufficiente certezza il foro territorialmente competente e di dover indicare come competente l’ufficio del giudice di pace del luogo di residenza del trasgressore; considerato che fissare univocamente e per legge la competenza territoriale nelle mani di un solo giudice servirebbe a dare più vigore al comma 1 dell’art. 198 del c.d.s. (decr. legisl. n. 285 del 1992 e succ. mod.), rubricato “Più violazioni di norme che prevedono sanzioni amministrative pecuniarie” e recante “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative pecuniarie, o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo” chiedeva di sapere quali iniziative il Ministro in indirizzo intendesse adottare nell’ambito delle proprie attribuzioni al fine di rendere attuale ed effettiva la competenza di un solo giudice di pace nel caso di trasgressore seriale in relazione alla disciplina degli autovelox e dei Tutor.

Sanzioni per violazioni ad obblighi di comunicazione: artt. 126 bis e II c. e 180 VIII c. C.d.S.
L’art. 126 bis, II c. c.d.s., che costituisce una particolare applicazione del principio generale di cui all’art.180, VIII c. c.d.s. di fornire informazioni od esibire documenti all’autorità procedente per l’accertamento delle violazioni, dispone che, in caso di mancata identificazione del responsabile di una violazione che comporti la decurtazione del punteggio attribuito alla patente di guida, l’organo accertatore deve darne notizia al proprietario del veicolo, salvo che lo stesso non comunichi, entro 60 giorni dalla richiesta, all’organo di polizia che procede, i dati personali e della patente dell’effettivo conducente al momento della commessa violazione. Se il proprietario del veicolo omette di fornirli senza giustificato e documentato motivo, si applica a suo carico una sanzione amministrativa pecuniaria. Ciò posto, particolarmente controversa risulta la questione relativa all’individuazione del giudice territorialmente competente a decidere sull’opposizione a tali verbali, dovendosi accertare quale sia il luogo effettivo in cui si concretizza la materiale violazione della richiamata norma.
Secondo una prima ricostruzione la consumazione dell’illecito in oggetto si dovrebbe configurare nel luogo in cui il proprietario del veicolo ha perduto la possibilità di fornire le informazioni o di esibire i documenti richiesti allo spirare del termine assegnatogli, luogo da individuarsi quindi in quello della residenza del responsabile. Si sostiene infatti che, essendo da ravvisare l’inizio della condotta omissiva relativa all’obbligo in questione nel momento del ricevimento della richiesta delle generalità del conducente da parte dell’organo accertatore e perdurando tale condotta fino alla scadenza dei sessanta giorni previsti dallo stesso articolo, l’illecito di cui trattasi non può ritenersi realizzato nel luogo dell’accertamento della violazione originaria, perché dovrebbe altrimenti presupporsi che il presunto trasgressore, nei suddetti sessanta giorni di inadempienza, abbia ininterrottamente dimorato nel territorio ricadente nella competenza del giudice al quale potrebbe essere sottoposta la questione relativa alla violazione suddetta. In realtà, è assai più probabile che, nell’intervallo temporale in questione, la persona abbia dimorato nel territorio in cui risiede. In altre parole, la mancata comunicazione delle generalità del conducente trasgressore concretizza una condotta illecita istantanea di natura omissiva che può essere realizzata, come tale, oltre che nella stessa località in cui è stata commessa la violazione originaria, anche in un luogo diverso dalla prima. Infatti, qualora l’autore della predetta condotta risulti avere la propria residenza in una località diversa da quella in cui si trovava quando ha commesso la violazione originaria, è in tale località che dovrà essergli notificata la richiesta di informazioni e che, decorso vanamente il termine previo, si perfezionerà l’illecito a causa del mancato riscontro all’invito dell’autorità. In tal senso si era inizialmente espresso il Ministero dell’Interno (Circolare n.5 Prot.M/2413/28 del 14.02.2007).
Né si può sostenere che l’illecito di cui all’art.126 bis secondo comma c.d.s. possa ritenersi consumato ex se nello stesso luogo in cui è stata commessa la violazione presupposta, in quanto ciò presuppone una sostanziale identificazione tra il luogo della commissione, da parte del conducente, della violazione originaria e quello della commissione, da parte del proprietario del veicolo, della violazione dell’art. 126, secondo comma c.d.s.. Tale assunto infatti disconosce la pacifica natura autonoma e non accessoria di tale violazione rispetto a quella da cui discende geneticamente, non potendosi dimenticare che la fattispecie di cui all’art. 126 bis, secondo comma c.d.s. sanziona un soggetto per non aver fornito le informazioni o esibito i documenti richiesti per l’accertamento di una violazione amministrativa commessa in precedenza da trasgressore in ipotesi anche diverso e, pertanto, del tutto autonoma rispetto alla prima sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo.
Secondo l’indirizzo, attualmente prevalente in giurisprudenza, territorialmente competente a decidere sulle opposizioni ex art.126 bis secondo comma c.d.s., deve ritenersi invece il giudice del luogo in cui si trova l’ufficio dove ha sede l’organo di polizia che ha accertato l’inadempimento da parte del proprietario del veicolo sanzionato, dell’obbligo di comunicare, nel termine previsto dalla legge, le generalità del soggetto che era alla guida al momento della commessa infrazione, dovendosi l’illecito in oggetto ritenersi consumato nel luogo in cui avrebbe dovuto pervenire la comunicazione che è stata invece omessa (Cass.n.24757/2011; Cass.n.18670/2010; Cass.n.17580/2007;). Si è infatti sostenuto che la natura omissiva dell’illecito amministrativo in oggetto non può derogare il principio della competenza territoriale funzionale del giudice del luogo in cui l’illecito è stato commesso (Cass. n.26184/2013; Cass.n.24757/2011; Cass.n.6317/2011; Cass.n.20287/2012). Del resto a favore di tale orientamento, che, re melius perpensa è stato successivamente fatto proprio anche dal Ministero dell’Interno (Circolare n.16 Prot. M/2413-28 del 02.04.2007; Circolare n.21 prot.M/2413-13 del 23.04.2007 emessa a seguito di conforme parere dell’Avvocatura Generale dello Stato) milita il disposto dell’art.376, primo comma del Regolamento per l’esecuzione del Codice della strada (D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495), il quale, in riferimento all’art. 180, ottavo comma c.d.s. testualmente dispone: “Quando, in ottemperanza all’invito dell’autorità, sono presentati i documenti o fornite le informazioni richieste a norma dell’art. 180, comma 8 del codice, entro il termine stabilito, il comando o l’ufficio di polizia stradale (…) presso il quale i documenti o le informazioni sono resi, ne prende atto redigendo apposito verbale e, se diverso dal comando o ufficio che ha formulato l’invito, ne dà comunicazione, senza ritardo, a quest’ultimo”. Ciò significa che nel caso in cui i documenti richiesti non vengano presentati o le informazioni sollecitate non vengano inviate, il comando o l’ufficio di polizia stradale prende analogamente atto dell’omissione concretatasi e quindi dell’illecito consumatosi procedendo alla contestuale verbalizzazione della violazione commessa presso la propria sede.

Competenza territoriale della Polizia Locale nell’accertamento delle violazioni al CdS
Capita ancora oggi di dover esaminare ricorsi in opposizione a sanzioni amministrative in cui viene lamentata l’incompetenza territoriale della Polizia Municipale in relazione a violazioni accertate nei confini comunali di riferimento anche se fuori dal centro abitato o su strade di proprietà di enti diversi, il più delle volte statali o provinciali, che attraversano il territorio comunale. La circostanza appare singolare considerando che ormai la giurisprudenza di legittimità ha assunto, al riguardo, un orientamento consolidato. Va peraltro evidenziato come lo sviluppo di siffatto “trend” sia stato significativamente incoraggiato da una certa giurisprudenza di merito che ha ritenuto di accogliere tale motivo di opposizione conseguentemente annullando i verbali redatti dagli agenti di Polizia Locale in relazione a sanzioni elevati su strade di proprietà “terza” pur se ricomprese nella cerchia territoriale comunale. La Corte regolatrice ha invece costantemente affermato la competenza della Polizia Municipale all’accertamento delle infrazioni su tutto il territorio del Comune dal quale essa dipende (o dell’entità territoriale allargata alle Unioni dei Comuni o alle altre forme consociate), a nulla rilevando né la classificazione geometrica e funzionale delle strade interne al territorio (urbana di scorrimento, etc.), né la loro classificazione amministrativa in base alla proprietà o al collegamento garantito (comunale, provinciale, statale, etc.). (Cass.n.19755/2011; Cass.n.3019/2002; Cass.n.11183/2001; Cass. n.15688/2006; Cass.n. 22366/2006 Cass.n.9497/2011; Cass.n.484/2012). E ciò senza tener conto che ai sensi dell’articolo 2, comma 7 del codice della strada i tratti di strada statale, regionale o provinciale correnti all’interno dei centri abitati con popolazione superiore a 10.000 abitanti sono sempre comunque classificati come strade comunali. Il motivo di opposizione si fonda quasi sempre su di una erronea lettura dell’art.11 terzo comma c.d.s. laddove si prevede che ai servizi di polizia stradale debba provvedere il Ministero dell’Interno, salvo che nel territorio posto all’interno di un centro abitato, in cui la competenza rimane ascritta al Comune. Senonchè tale norma attiene esclusivamente alla direzione e predisposizione di tali servizi spettanti in via esclusiva al Comune, nell’ambito del centro abitato, mentre riferiti in capo al Ministero dell’Interno, al di fuori di tale limite ristretto, così come allo stesso Ministero dell’Interno compete, in via esclusiva, il coordinamento dei servizi di polizia stradale, da chiunque siano effettuati. L’efficacia della richiamata disposizione non si estende tuttavia alla delimitazione delle competenze della Polizia Locale che è regolata dalla legge n.65/1986 (legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale) con riferimento all’intero territorio dell’ente di riferimento. Il Ministero dell’Interno aveva del resto già ribadito tale tesi, con propria circolare (Circolare Prot.n.300/A/2/511901/110/26 del 4 marzo 2002).
In buona sostanza, la Polizia Locale vanta una competenza coincidente con l’intero territorio dell’ente di appartenenza (quindi, non solo limitata ai centri urbani, o abitati, come comunemente si ritiene); e neppure la potestà di intervento può ritenersi legata alla proprietà della strada che, seppure provinciale o statale, bene può rientrare nell’ambito del territorio comunale, dove tale struttura non incontra limiti nell’esercizio delle funzioni previste. Più precisamente, secondo i giudici di legittimità, depongono, in tal senso: 1) l’articolo 13 della legge n. 689 del 1981, che ammette la competenza in materia generale di violazioni amministrative agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria; 2) l’articolo 57 c.p.p., che inquadra, tra gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria, anche le guardie dei comuni, con una limitazione (oltre che temporale, anche territoriale), che intende semplicemente riferirsi ai confini dell’ente di appartenenza; 3) gli artt. 3 e 5 della legge quadro sull’ordinamento della Polizia municipale (L.  6/1986), laddove si fissa il principio che tale organo svolge le proprie funzioni entro i confini del Comune di appartenenza e, segnatamente, ai sensi del c. 1, lett. b), quelle di polizia stradale.
Per completezza di esposizione sul tema va infine ricordato come la giurisprudenza abbia chiarito che la competenza territoriale dell’agente di Polizia Locale non viene meno se dopo l’accertamento della commessa infrazione nel proprio territorio di competenza la contestazione della violazione avvenga materialmente in diverso ambito comunale a seguito di inseguimento del trasgressore fuggitivo (Cass.n.15676/2014) e che gli appartenenti alla polizia municipale, a differenza di altri corpi, quali la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di finanza etc., i cui appartenenti operano su tutto il territorio nazionale e sono sempre in servizio, hanno la qualifica di agenti di polizia giudiziaria soltanto nel territorio di appartenenza e limitatamente al tempo in cui sono in servizio, con la conseguenza che debbono ritenersi nulle le contravvenzioni ad infrazioni al codice della strada elevate da agenti di polizia locale in comuni diversi da quello di appartenenza, in abiti civili e fuori dal servizio di vigilanza (Cass.n.5771/2008).

Prefetto territorialmente competente alla sospensione della patente in caso di mancato ritiro immediato da parte degli operanti. In tema di provvedimento prefettizio di sospensione della patente di guida può sorgere un problema di competenza territoriale nel caso in cui il documento di abilitazione non venga ritirato immediatamente dall’operante che ha accertato la violazione che comporta detta sanzione accessoria, contrariamente a quanto prevede in modo espresso l’art.218 c.d.s.. Normalmente, infatti, in forza di tale disposizione la patente viene ritirata contestualmente alla redazione del verbale di contestazione su cui viene fatta menzione del ritiro con conseguente rilascio di un permesso provvisorio di guida limitatamente al periodo necessario a condurre il veicolo nel luogo di custodia indicato dall’interessato. Ai sensi del secondo comma dell’art.218 c.d.s. l’organo che ha ritirato la patente di guida la invia poi, unitamente a copia del verbale, entro cinque giorni dal ritiro, alla prefettura del luogo della commessa violazione; è quindi il prefetto di tale luogo che, nei quindici giorni successivi, emana l’ordinanza di sospensione, indicando il periodo al quale si estende la sospensione stessa. Nel caso invece in cui l’immediato ritiro della patente di guida non possa avvenire, perché il trasgressore, per esempio, se l’è dimenticata a casa, gli operanti inviano al prefetto il solo verbale di contestazione, in quanto funzionale alla successiva emissione dell’ordinanza di sospensione della patente di guida al cui ritiro, per il periodo di tempo disposto dal Prefetto, verranno poi delegati i competenti agenti di polizia locale. In sede di opposizione all’ordinanza di sospensione è capitato di vagliare una eccezione di nullità di detto provvedimento in quanto emesso da Prefetto asseritamente incompetente sulla base del combinato disposto dei commi primo e terzo dell’art.129 c.d.s. che prevede il principio per cui, qualora il trasgressore sia incorso nella violazione di una delle norme di comportamento espressamente indicate o richiamate nel titolo V del codice della strada, la sua patente di guida deve essere sospesa dal prefetto del luogo di residenza del titolare. Nella fattispecie si trattava di una violazione dell’art.143 c.d.s, ossia di guida contromano in prossimità di curva, condotta rientrante appunto tra quelle previste dal richiamato titolo V.
Siffatta argomentazione, benché suggestiva, e che nasce da un evidente difetto di coordinamento tra norme nell’elaborazione dei rispettivi testi in sede di formulazione del dettato normativo, non può tuttavia essere condivisa, atteso che l’esigenza di una interpretazione estensiva del disposto dell’art.218 c.d.s. a tutti i casi in cui la sospensione del titolo abilitativo alla guida costituisca sanzione accessoria conseguente all’accertamento di un illecito amministrativo, discende da una lettura sistematica della disciplina codicistica, nonché dei principi generali che disciplinano la competenza sanzionatoria in materia di illeciti amministrativi sulla base del criterio del luogo della commessa violazione. Non può trascurarsi infatti il dato fondamentale che l’ordinanza di sospensione della patente non costituisce una sanzione autonoma e distinta da quella principale, ma è ad essa accessoria, con la conseguenza che, sotto il profilo della competenza territoriale all’emissione del relativo provvedimento, la competenza non può che essere quella dell’autorità che ha sede nel luogo in cui è stata commessa la violazione principale stessa.
D’altronde il sostenere la competenza territoriale del Prefetto del luogo di residenza del trasgressore in applicazione dell’art.129 c.d.s., in ipotesi diverso da quello del luogo di commissione dell’illecito, comporterebbe una situazione per cui avverso il provvedimento di sospensione della patente, sarebbe esperibile ricorso ad un giudice di pace diverso da quello al quale potrebbe essere presentata opposizione nel merito dell’accertamento stesso, con il rischio della formazione di due diversi, ed eventualmente confliggenti, giudicati sul medesimo fatto, ciò che comporterebbe conseguenze sicuramente abnormi sotto il profilo giuridico.
Si può dunque concludere che la competenza ad emettere il provvedimento di sospensione della patente deve attribuirsi sempre al Prefetto del luogo in cui è stato commesso il fatto sanzionato anche quando il documento non possa essere materialmente ritirato al momento della rilevazione dell’illecito. Si richiama peraltro, al proposito, una circolare del Ministero dell’Interno che ha sostenuto tale impostazione, sia pure dopo un iniziale orientamento di segno diverso. (Min. dell’Interno Circolare 03/9/2009).

Giurisprudenza richiamata- Cass.Sez. U, Ordinanza n. 18036 del 02/07/2008
Le controversie che, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 1998, erano attribuite alla competenza del pretore per limiti di valore e che sono, in base al vigente art. 9 c.p.c. ed all’art. 244 del d.lgs. 51/1998, di competenza del tribunale in composizione monocratica, sono soggette alle regole processuali del c.d. foro erariale di cui agli artt. 25 c.p.c. e 6 del r.d. 1611/1933, dovendosi ritenere implicitamente abrogato “in parte qua” l’art. 7 del r.d. 1611/1933 – che stabiliva l’inapplicabilità della regola del foro erariale nelle cause di competenza del pretore – per incompatibilità, non potendosi considerare perdurante la distinzione di competenza tra pretore e tribunale, ormai venuta meno; ciò non esclude che la disciplina del foro erariale sia derogata, per effetto di specifiche disposizioni del legislatore (controversie previdenziali, di opposizione a sanzioni amministrative, di disciplina dell’impugnazione, di convalida di sfratto), ogni volta che sia manifesto l’intento di determinare la competenza per territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, perciò, destinati a prevalere su questa.
Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 14562 del 11/10/2002. Per le opposizioni ai provvedimenti di confisca amministrativa è funzionalmente competente, ai sensi dell’art. 22 legge n. 689 del 1981, il giudice del luogo della commessa violazione ed a questo criterio di competenza territoriale non deroga l’art. 25 cod. proc. civ. che prevede la competenza del giudice del luogo ove ha sede l’Avvoc. dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Ciò consegue alla specialità del procedimento di opposizione alle ordinanze – ingiunzione per il quale è prevista la notificazione del ricorso direttamente all’autorità che ha emesso il provv. sanzionat. e la possibilità per la stessa autorità di stare in giudizio personalmente tramite propri funzionari.
Cass.Sez. 1, Ordinanza n. 14057 del 26/07/2004. In tema di sanzioni amm.ve ed in ipotesi di opposiz. ad ordinanze – ingiunzione è funzionalmente competente, ai sensi dell’art. 22 legge n. 689 del 1981, il giudice del luogo della commessa violazione, criterio al quale non deroga l’art. 25 cod. proc. civ., che prevede la competenza del giudice del luogo ove ha sede l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, in ragione della specialità del procedimento di opposizione.
Cass.Sez. 1, Sentenza n. 14828 del 27/06/2006. Per le opposizioni alle ordinanze-ingiunzioni è funzionalmente competente, ai sensi dell’art. 22 legge 689/1981, il giudice del luogo della commessa violazione ed a questo criterio di competenza territoriale non deroga l’art. 25 cod. proc. civ., che prevede la competenza del giudice del luogo ove ha sede l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. L’inapplicabilità del foro della P.A. consegue infatti alla specialità del procedimento di opposizione alle ordinanze – ingiunzioni, per il quale è prevista la notificazione del ricorso direttamente all’autorità che ha emesso il provvedimento sanzionatorio.
Cassazione Sez. U. Ordinanza n. 23285 del 18/11/2010. In materia di sanzioni amministrative, in conseguenza della modifica apportata dall’art. 26 d.lgs. 40/2006 all’art. 23 della Legge 689/198, il gravame contro i provvedimenti del giudice di pace va proposto secondo le norme previste in via ordinaria dal codice di rito per il procedimento di appello. Ciò nondimeno, va esclusa l’applicabilità dell’art. 25 c.p.c. che prevede la regola del foro erariale essendo manifesto l’intento del Legislatore di determinare la competenza per territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, perciò, destinati a prevalere su questa (già così, Cass. civ. SS.UU.18036/2008). Nel caso di specie, tale elemento diverso e predominante è da rinvenire nel criterio della “prossimità” rimasta attuale per il campo delle sanz. amm.ve in cui la competenza è quella del “luogo in cui è stata commessa la violazione.
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10917 del 11/07/2003. In tema di sanzioni amministrative ed ai fini della individuazione dell’autorità amministrativa e del giudice rispettivamente competenti, ai sensi della legge 689/1981, ad irrogare la sanzione (art. 17) e a decidere sulla conseguente opposizione (art. 22), il luogo della commissione dell’illecito è da reputarsi coincidente con il luogo dell’accertamento in relazione al presumibile perfezionarsi dell’infrazione nel posto in cui ne vengano acclarati gli elementi costitutivi, ovvero venga constatata parte della condotta attiva o passiva del trasgressore in sè idonea ad integrare contegno sanzionabile. L’operatività di detta presunzione deve tuttavia essere esclusa, per assenza della base logica su cui riposa, quando la stessa imputazione indichi un luogo della commissione del fatto diverso da quello dell’accertam., relegando questo a mero luogo del reperimento delle prove di un illecito commesso altrove.
Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 14818 del 24/06/2009. Ai sensi dell’art. 22 L. 689/1981, la competenza per territorio di natura inderogabile del giudice dell’opposiz. a sanz. amm.va si determina con riferimento al luogo in cui è commessa la violaz., che, di regola, coincide – quando non risulti diversamente – con il luogo dell’accertam., rimanendo irrilevante quello, eventualmente diverso, in cui venga compiuta successivamente la mera verbalizzazione dell’attività di accertamento.
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14668 del 03/06/2008. In tema di violazione del c.d.s., la regola secondo la quale l’omessa contestaz. immediata, o l’omessa indicazione, nel relativo verbale, dei motivi che l’hanno resa impossibile, rende annullabile il provv. sanzionat., non si estende alla ipotesi in cui, essendovi stata immediata contestaz. orale, sia tuttavia mancata la contestuale redazione e consegna del verbale al trasgressore o la indicazione dei motivi della mancata consegna immediata del verbale, attesa la distinzione logica e giuridica esistente ha, tre momenti dell’accertamento, della verbalizzazione e della copia di copia del verbale al trasgressore. (Nella fattispecie la Corte ha cassato la sent. del g.d.p. che aveva ritenuta nulla la contestaz. immediata in forma orale, seguita dalla notifica del verbale, contenente l’espressa spiegazione dell’omessa consegna immediata del verbale, in quanto dovuta a mancanza del formulario al seguito).
Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10243 del 04/08/2000. In tema di sanzioni amm.ve, il criterio secondo il quale la competenza dell’autorità amm.va ad emettere l’ordinanza ingiunzione va individuata con riguardo al luogo dell’accertamento della violazione non si sostituisce a quello del luogo della commessa violazione, emergente dalla lettera della legge (art. 17 L. 689/81), ma lo presuppone, regolando il possibile concorso di competenze territoriali qualora la consumazione della violazione non si esaurisca nel territorio di una sola autorità.
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9708 del 17/07/2001. In tema di sanzioni amm.ve, per luogo in cui è stata commessa l’infrazione – in base al quale si radicano, secondo la L. 689/1981, sia la competenza dell’autorità amministrativa cui spetta di emettere il provvedimento sanzionatorio (art. 17), nel luogo della commissione della violazione, sia quella del giudice della opposizione allo stesso (art. 22) – deve intendersi anche quello in cui l’infrazione è stata accertata (purché sussista la competenza territoriale degli organi accertatori), criterio – quest’ultimo – che non si sostituisce a quello del luogo della commessa violazione, ma lo presuppone. Ove, peraltro, vi sia contemporaneità di violazioni commesse in luoghi diversi, resta esclusa la possibilità di fare riferimento esclusivo al criterio del luogo di commissione dell’illecito amministrativo, dovendo esso essere integrato con il criterio del luogo dell’accertamento.
Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27202 del 16/12/2011. In tema di competenza per territorio del giudice dell’opposizione a sanzioni amministrative, ove siano contestate più violazioni verificatesi in luoghi diversi, nell’impossibilità di applicare il criterio del luogo di commissione degli illeciti continuati o di quello unico permanente, deve trovare applicazione il criterio del luogo del relativo accertamento. (Fattispecie concernente plurime infrazioni al codice della strada commesse in località differenti dall’autista di una ditta di trasporti, accertate mediante il successivo esame dei dischi cronotachigrafi).
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8294 del 20/04/2005. La competenza sull’opposizione all’ordinanza – ingiunzione ex art. 22 L. 689/1981, è devoluta funzionalmente e, quindi, inderogabilmente, al giudice del luogo in cui è stata commessa l’infrazione; pertanto, nei giudizi instaurati nel vigore del testo vigente (a seguito della modifica apportata dall’art. 4 della legge n. 353 del 1990) dell’art. 38 cod. proc. civ. (e, quindi, dopo il 30 aprile 1995) tale forma d’incompetenza territoriale del giudice adito è rilevabile, anche d’ufficio, ma solo entro la prima udienza di trattazione.
Cass.Sez. 1, Sentenza n. 6335 del 12/07/1996. La compet. sull’opposiz. all’ordinanza – ingiunz. ex art. 22 L. 689/1981 è devoluta funzionalmente e, quindi, inderogabilmente, al Pretore del luogo in cui è stata commessa l’infrazione; pertanto, nei giudizi instaurati nel vigore del testo previgente dell’art. 38 c.p.c. (e, quindi, prima del 30.4.1995) l’incomp. territ. del giud. adito è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del processo e, quindi, anche nel giudizio di Cass.
Corte Cost. Ord. n. 74 del 03/03/2011.  È dichiarata manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, la questione di legittimità cost. degli artt. 22 e 22 bis  L. 689/1981 – nella parte in cui radicano la competenza a conoscere delle controversie in materia di opposizione alla trascrizione del provvedimento di fermo amm.vo di beni mobili registrati, a seguito di violaz. del C.d.S., in capo al giudice del luogo in cui è stata commessa l’infrazione, anziché in capo a quello del luogo di residenza dell’opponente – sollevata in riferimento agli artt. 3, 97, 111, c. 2, e 113 della Cost. In particolare, nell’ord. di rimessione il giudice non ha addotto alcuna argomentazione in ordine alla applicabilità delle norme impugnate nel giudizio principale né, a fronte delle eccezioni sollevate dalle parti, si è pronunciato sulla propria compet.
Corte Cost.Ord. n.114 del 26/1/2005.  E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 L. 689/1981 (Modifiche al sistema penale) e dell’art. 204-bis del d.lgs 285/1992, “nella parte in cui stabiliscono la competenza territoriale inderogabile del giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione”, ai fini della proposizione dell’opposizione a sanzione amministrativa, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, II c. della Cost., per l’asserita disparità di trattamento in danno dei cittadini meno abbienti, nonché per la ritenuta lesione del diritto di agire in giudizio e del principio della parità delle armi. La sollevata questione è stata, invero, già ritenuta manifestamente infondata dalla Corte con numerose decisioni; citate, ordin. n. 59/2002, n. 75/2003, n. 193/2003, n. 259/2003, n. 61/2004, n.130/2004.
Corte Cost. Ord. n.130 del 10/03/2004. Va dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 111,secondo comma, e 113 della Costituzione, dell’art. 22 della legge 24 novembre 1989, n. 689, nella parte in cui, nelle controversie contro ordinanze-ingiunzioni, obbliga l’opponente ad adire il giudice del luogo in cui è stata commessa la presunta violazione, anziché in quello di residenza del ricorrente. La Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato manifestamente infondate identiche questioni sollevate in riferimento ai medesimi parametri costituzionali evocati ed, in assenza di prospettazione di nuovi o diversi profili di incostituzionalità, anche l’odierna questione deve essere decisa in egual modo.
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24876 del 23/11/2006. In materia di sanzioni amministrative, la competenza territoriale inderogabile, ai sensi dell’art. 22 L. 689/1981, appartiene al giudice (individuato ai sensi dell’art. 22 bis della med. legge) del luogo in cui è avvenuta la violazione e si estende a tutti coloro che, a qualsiasi titolo rispondono della medesima violazione. (Nella specie, La S.C. ha cassato la sent di merito in cui il giudice, in una opposizione a sanzione amministrativa emessa nei confronti di chi aveva aiutato un’azienda a percepire indebitamente aiuti comunitari, aveva ritenuto sussistente la propria competenza territoriale, per quanto l’attività dell’azienda che aveva indebitamente percepito gli aiuti operasse nel circondario di un diverso tribunale).
Cass.Sez. L, Sentenza n. 5629 del 24/06/1997. Nel rito del lavoro il convenuto, in omaggio al principio di concentrazione, deve proporre tutte le eccezioni e indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi nel termine previsto per la sua costituzione; non è necessario, tuttavia, che ciò avvenga materialmente in un unico atto difensivo, essendo invece possibile il deposito di memorie integrative della comparsa di costituzione onde devono ritenersi tempestive le eccezioni e le deduzioni di prova contenute in scritti successivi e separati dalla suddetta memoria, purché depositati nel termine di cui all’art. 416 c.p.c., tranne nell’ipotesi di formulazione dell’eccezione di incompet territoriale, che, dovendo essere proposta nel primo scritto difensivo, va necessariamente esplicitata nella memoria di costituzione.
Cass.Sez. 1, Sentenza n. 9211 del 03/08/1992. La disposiz.di cui all’art. 293, I c. c.p.c. – che consente la costituzione del contumace solo fino all’udienza in cui la causa è rimessa al collegio – non opera nel procedimento di opposizione ad ordinanzaingiunzione delineato dalla L. 689/1981, nel quale, svolgendosi esso davanti al giudice monocratico, non sussiste la distinzione tra una fase propriamente decisoria ed una soltanto istruttoria, e, pertanto, detta costituzione è ammissibile fino all’esaurimento della discussione, ferme restando le eventuali preclusioni e decadenze già verificatesi in danno del contumace.
Corte Cost. Sentenza n.98 del 25/02/2004. È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 22 L. 689/1981, nella parte in cui non consente l’utilizzo del servizio postale per la proposizione dell’opposizione ad ordinanza-ingiunzione. La struttura processuale assai semplificata – evidentemente intesa a rendere il più possibile agevole l’accesso alla tutela giurisdizionale nella specifica materia – che caratterizza il procedimento di opposizione all’ordinanza- ingiunzione di pagamento, quale disciplinato dagli artt. 22 e 23 L. 689/1981, unitamente all’esigenza, di carattere costituzionale, che le norme che determinano cause di inammissibilità degli atti introduttivi dei giudizi siano in armonia con lo specifico sistema processuale cui si riferiscono e non frappongano ostacoli all’esercizio del diritto di difesa non giustificati dal preminente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo adeguato alla funzione ad esso assegnata, rendono palesemente incongrua, nonchè, in taluni casi, eccessivamente onerosa la previsione del necessario accesso dell’opponente (o del suo procuratore) alla cancelleria del giudice competente al fine di depositare personalmente il ricorso, con esclusione della possibilità di utilizzo, a tale scopo, del servizio postale; mentre le esigenze di certezza che il deposito personale mira a realizzare riguardo all’instaurazione del rapporto processuale, possono d’altra parte essere allo stesso modo garantite attraverso l’utilizzo del plico raccomandato, espressamente previsto ad analoghi fini dallo stesso codice di rito. Circa l’esigenza, di carattere costituzionale, che le norme che determinano cause di inammissibilità degli atti introduttivi dei giudizi non frappongano ostacoli all’esercizio del diritto di difesa non giustificati dal preminente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo adeguato alla funzione ad esso assegnata, v. la richiamata sentenza n. 520/2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, commi 1 e 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui non consente, per il deposito degli atti ai fini della costituzione in giudizio, l’utilizzo del servizio postale.
Corte Cost. Sentenza n.477 del 22/10/2002. È costituzionalmente illegittimo il combinato disposto dell’art.149 c.p.c. e dell’art. 4, III c., L. 890/1982, nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. È, infatti, palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al notificante, ma a soggetti diversi (l’uff. giudiz. e l’agente postale come ausiliario di questo), e perciò del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo. Gli effetti della notificaz. a mezzo posta devono, dunque, essere ricollegati, per quanto riguarda il notificante al solo compimento delle attività a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’uff. giudiz.; restando, naturalmente, fermo, per il destinatario,il principio del perfezionamento della notificaz. solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento,con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo.
Cass.Sez. U, Sentenza n. 5160 del 04/03/2009.  L’invio a mezzo posta dell’atto processuale destinato alla cancelleria (nella specie, memoria di costituzione in giudizio comprensiva di domanda riconvenzionale) -al di fuori delle ipotesi speciali relative al giudizio di cassazione, al giudizio tributario ed a quello di opposizione ad ordinanza ingiunzione- realizza un deposito dell’atto irrituale, in quanto non previsto dalla legge, ma che, riguardando un’attività materiale priva di requisito volitivo autonomo e che non necessariamente deve essere compiuta dal difensore, potendo essere realizzata anche da un “nuncius”, può essere idoneo a raggiungere lo scopo, con conseguente sanatoria del vizio ex art. 156, terzo comma, cod. proc. civ.; in tal caso, la sanatoria si produce con decorrenza dalla data di ricezione dell’atto da parte del cancelliere ai fini processuali, ed in nessun caso da quella di spedizione.
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 27065 del 07/12/2005. La competenza sull’opposiz. ai sensi della L.689/1981, anche allorché si tratti di opposiz. a cartella esattoriale o ad avviso di mora per la riscossione della somma dovuta a titolo di sanzione pecuniaria, è devoluta funzionalmente e, quindi, inderogabilmente, al giudice del luogo in cui è stata commessa l’infrazione; pertanto, nei giudizi instaurati nel vigore del testo vigente (a seguito della modifica apportata dall’art. 4 L. 353/1990) dell’art. 38 c.p.c. (e, quindi, dopo il 30.4.1995), tale forma d’incompetenza territoriale del giudice adito è rilevabile, anche d’ufficio, ma solo entro la prima udienza di trattazione.
Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22541 del 20/10/2006. Allorquando il giudice dichiara la propria incompetenza, chiudendo il processo davanti a sé, è tenuto a provvedere sulle spese giudiziali, non potendo rimettere la relativa pronuncia al giudice dichiarato competente, atteso che tale dichiarazione chiude il processo avanti a detto giudice.
Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 23359 del 09/11/2011. La soppressione dell’inciso contenuto nel c. 1 dell’art. 91 c.p.c. (“eguale provvedimento emette nella sua sentenza il giudice che regola la competenza”) dovuta all’art. 45, c. 10, della legge 18 giugno 2009, n. 69, non ha determinato il venire meno del potere della Corte di cass. di provvedere sulle spese del regolamento di competenza tanto se la decisione sia d’inammissibilità od improcedibilità, tanto se se abbia ad oggetto una statuizione sulla compet. o sulla sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
Allo stesso modo la modifica normativa non ha inciso sull’analogo potere del giudice di merito di provvedere sulle spese di lite nel provvedimento con il quale abbia declinato la propria competenza, trattandosi di un’ordinanza (art. 279 cod. proc. civ.) che ha valore di sentenza in senso sostanziale, in quanto idonea a chiudere il processo davanti al giudice che l’ha emessa.
Cass.Sez. 1, Sentenza n. 272 del 10/01/2007. Nel caso in cui il provvedimento decisorio emesso nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa è impugnabile con ricorso per cassazione (anche se, come nella specie, pronunciato fuori udienza e nella forma dell’ordinanza) e, ove non impugnato, passa in giudicato, l’istanza diretta a provocare la revoca del provvedimento da parte dello stesso giudice che lo ha emanato, dopo che lo stesso con la pronuncia si è spogliato della “potestas iudicandi”, è estranea ad ogni schema processuale e quindi non determina neanche il potere – dovere di pronunciare. Ne consegue che il ricorso per cassazione proposto non contro l’ordinanza decisoria ma contro il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca è inammissibile.
Cass. Sez. L, Sentenza n. 10032 del 27/04/2007. Nel procedimento davanti al giudice di pace – nel quale non è configurabile una distinzione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione, ed il cui rito è tuttavia caratterizzato dal regime di preclusioni che assiste il procedimento dinanzi al tribunale – le preclusioni sono collegate allo svolgimento della prima udienza effettiva: ne consegue che se la prima udienza sia stata di mero rinvio, avendo il giudice soltanto rimesso alcuni procedimenti pendenti tra le stesse parti al coordinatore del suo ufficio per i provvedimenti del caso, l’incompetenza per materia, (nella specie, in favore del giudice del lavoro) può essere rilevata, dalla parte che ne ha interesse o anche d’ufficio, anche alla udienza immediatamente successiva, in cui la causa ha avuto effettiva trattazione.
Cass.Sez. 3, Ordinanza n. 10236 del 18/04/2008. Una volta ritualmente sollevata l’eccezione di incompet. territ., rientra nel potere-dovere del giudice adito l’identificazione del giudice competente, anche se diverso da quello indicato dalla parte. Tale potere-dovere compete anche alla Corte di Cass. in sede di regolam, rientrando fra i compiti di detta Corte quello di riparare alla mancata indicazione del giudice competente da parte del giudice “a quo” che ha dichiarato la propria incompet. territ.
Corte Cost. Sentenza n.77 del 24/01/2007.  È costituzionalmente illegittimo l’art. 30, l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione. Premesso che non può addebitarsi al rimettente di non aver valutato la praticabilità di una soluzione costituzionalmente orientata – in quanto non è condivisibile l’assunto, fatto proprio dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite, secondo il quale non esisterebbe nel nostro ordinamento un divieto espresso di “translatio iudicii” nei rapporti fra g.o. e giudice speciale, dal momento che l’espressa previsione della translatio con esclusivo riferimento alla competenza non può significare altro se non divieto di applicare il medesimo istituto alla giurisdizione -, il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi, se comprensibile in altri momenti storici, è certamente incompatibile, oggi, con fondamentali valori costituzionali, non potendo la previsione di una pluralità di giudici risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione, della tutela giurisdizionale; evenienza,
questa, che si verifica quando la disciplina dei rapporti tra diverse giurisdizioni, per di più innervantesi su un riparto di competenze complesso ed articolato, è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione, o l’errore del giudice in tema di giurisdizione, può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda, con conseguente pregiudizio per il diritto alla tutela giurisdizionale e ad una ragionevole durata del giudizio. La disciplina legislativa che necessariamente dovrà essere emanata per colmare una lacuna dell’ordinamento processuale sarà vincolata solo nel senso che dovrà dare attuazione al principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato davanti al giudice che ne è munito, ed il legislatore è libero di disciplinare, nel modo ritenuto più opportuno, il meccanismo della riassunzione”
Cass.Sez. 3, Ordinanza n. 14185 del 29/05/2008. La decisione con la quale il giudice di pace statuisca sulla propria competenza, ove non abbia natura meramente interlocutoria, ma costituisca una vera e propria sentenza, non è impugnabile col regolamento di competenza, ma può essere soltanto appellata, nei limiti e secondo le previsioni di cui all’art. 339 c.p.c.
Cass.Sez. 1, Sentenza n. 17695 del 04/08/2006. Nei giudizi dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell’art. 44 cod. proc. civ., qualora il giudice preventivamente adito declini la propria competenza, affermando la competenza per materia o territoriale inderogabile di altro giudice, e la parte non impugni con l’appello la relativa decisione, provvedendo a riassumere tempestivamente il giudizio dinanzi al giudice indicato come competente, si ha acquiescenza alla declaratoria di incompetenza e la competenza del giudice indicato rimane incontestabilmente stabilita.
Cass.Sez. 2, Ordinanza n. 17663 del 02/09/2004. È ammissibile il regolam di competenza d’uff, anche con riguardo a materie attribuite alla competenza del g.d.p., atteso che l’art. 46 c.p.c., nel disporre che gli artt. 42 e 43 non si applicano nei giudizi davanti al giudice di pace, ha escluso solo il regolam ad istanza di parte e fatto salvo quello d’ufficio, ai sensi dell’art. 45 dello stesso cod.
Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 15382 del 13/09/2012. A norma dell’art. 45 cod. proc. civ., è ammissibile il regolamento di competenza richiesto d’ufficio dal giudice di pace in un giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, individuando l’art. 22 L. 689/1981, in relazione al luogo della commessa violaz, un criterio di competenza funzionale equiparabile a quello della competenza territoriale inderogabile, e rendendo l’art. 46 c.p.c. inapplicabili al proc davanti al g.d.p. le sole disposiz concernenti il regolam di compet ad istanza di parte.
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5713 del 07/03/2013. Quando il giudice dinanzi al quale la causa è stata riassunta a seguito della dichiarazione di incompetenza di quello precedentemente adito abbia a sua volta declinato la propria competenza senza richiedere d’ufficio il regolamento di competenza, a norma dell’art. 45 cod. proc. civ., spetta alla parte la facoltà di provvedervi, denunziando il verificatosi conflitto negativo di competenza.
Cass.Sez. 2, Sentenza n. 2973 del 27/02/2012. La sentenza (o l’ordinanza di natura decisoria) dichiarativa dell’incomp. (anche per materia) del giudice adito va impugnata con istanza di regolamento necessario di competenza (ove il giudice indicato come competente non sollevi conflitto di ufficio, ai sensi dell’art. 45 cod. proc. civ.), acquistando, in caso contrario, efficacia di giudicato tanto la statuizione di incomp. del giudice che l’ha pronunciata, quanto quella sulla (asserita) competenza dell’autorità dinanzi alla quale la causa sia stata tempestivamente riassunta. Ne consegue che, nei successivi gradi del proc., né le parti, né il giudice procedente hanno la facoltà di rimettere in discussione quanto stabilito in tema di competenza dall’autorità giudiz. originariamente adita.
Cass.Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 23458 del 10/11/2011. La sentenza con la quale il giudice di pace – adito a seguito di declaratoria di incompetenza per territorio emessa da altro giudice di pace – abbia a sua volta declinato la propria competenza a favore di altro giudice, senza sollevare conflitto a norma dell’art. 45 cod. proc. civ., non essendo impugnabile dalla parte con regolamento di competenza, può essere appellata, nei limiti e secondo le previsioni dell’art. 339 c.p.c., contestando i criteri applicati per la dichiarazione di incompetenza, ma non in relazione al solo profilo del mancato esercizio della facoltà da parte del giudice di pace di sollevare conflitto.
Cass.Sez. 3, Sent. n. 3430 del 07/06/1984. Qualora il giudice indicato come competente per ragioni di valore dal giudice adito per primo, ritenendo la Competenza per materia di quest’ultimo, dichiari con sentenza la propria incompetenza per materia e rimetta le parti davanti allo stesso, anziché richiedere d’ufficio il regolamento di Competenza, in ottemperanza all’art. 45 cod. proc. civ., si determina, per effetto di tale pronuncia, una situazione di conflitto suscettibile di denuncia alla stregua della norma citata da parte del primo giudice.*
Cass.Sez. 1, Ord. n. 15126 del 25/10/2002. Il conflitto ex art. 45 cod. proc. civ. è ammissibile anche nel caso in cui il giudice dinanzi al quale è stata riassunta la causa ritenga di escludere la sua competenza a favore di quella di un terzo giudice, anziché di quello che per primo l’ha negata.
Cass. Sez. 3, Sent. n. 13414 del 29/10/2001. l giudice di primo grado ha la facoltà e non l’obbligo di rilevare d’ufficio la propria incompetenza non oltre la prima udienza di trattazione ai sensi dell’art. 38 cod. proc., sì che la causa resta definitivamente radicata presso di lui se non sia avvalso di tale potere e le parti non abbiano tempestivamente sollevato alcuna eccezione.
Cass. Sez. Lavoro Sentenza n. 7119 del 16/05/2002. In tema di rilievo d’ufficio di fatti processuali, quando il potere – dovere del giudice è ancorato a precisi limiti temporali, l’unica sanzione processuale prevista per la relativa inottemperanza è l’impossibilità di esercizio di esso oltre il termine stabilito e perciò, in ultima analisi, l'”indifferenza” dell’ordinamento al fatto, quando esso non abbia formato oggetto di rilievo tempestivo, dovendosi pertanto escludere, in sede di impugnaz, anche l’astratta configurabilità di una censura avente ad oggetto l’inottemperanza del giudice ad un dovere di rilievo officioso che risulti limitato nel tempo, senza che, peraltro, ciò arrechi pregiudizio alle parti, che possono sempre eccepire, nel termine prescritto, il fatto oggetto di mancato rilievo, rendendo così sindacabile in sede di impugnaz la pronuncia che non statuisca o, in ipotesi, statuisca erroneamente sulla sollevata eccezione. (Fattispecie relativa a censura di omesso rilievo d’ufficio della incomp territoriale, rilievo soggetto, per le ipotesi di compet territoriale inderogabile, al limite temporale fissato dall’art. 38 c.p.c.).
Cass. Sez. Lavoro Sent. n. 22055 del 13/10/2006.  Secondo il disposto dell’art. 38, c. 1, c.p.c., nel testo introdotto dall’art. 4 L. 353/1990 in vigore dal 30.4.1995 (in base alle disposizioni transitorie di cui all’art. 90 della stessa legge e successive modificazioni), l’incompet per materia – al pari di quella per valore e di quella per territorio nei casi previsti dall’art. 28 c.p.c. – è rilevata, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione, con la conseguenza che – diversamente dalla previgente disciplina – il giudice non può rilevare tale incompetenza in ogni stato e grado, ma è tenuto al rilievo officioso entro detta udienza, salvo esaminare l’eventuale eccezione ritualmente proposta dalle parti. Da ciò deriva che la parte può impugnare la decisione di primo grado per ragioni di incompetenza per materia solo ove abbia tempestivamente eccepito l’incomp e che, anche in presenza della tempestiva eccezione, la stessa parte è onerata della specifica impugnazione sul punto, ove il giudice abbia invece deciso nel merito, atteso che – venuta meno la possibilità del rilievo officioso durante tutti i gradi del giudizio – l’impugnaz nel merito non implica più la devoluzione al giudice di appello anche della questione di competenza per materia (così come di quella territoriale inderogabile di cui all’art. 28 c.p.c.). (Nella specie, la S.C., alla stregua del principio enunciato, ha cassato con rinvio l’impugnata sent, con la quale il giudice di appello aveva rilevato d’ufficio l’incompetenza per materia, malgrado si fosse formata in primo grado l’inerente preclusione e nonostante il giudice di I istanza avesse deciso la causa nel merito senza che l’appellante avesse proposto alcuna censura relativa alla compet. per materia).
Cass.Sez. 3, Ordinanza n. 16557 del 18/06/2008.  La questione di competenza ha natura assolutamente pregiudiziale, per cui vi è una manifesta inconciliabilità, sul piano logico e giuridico, tra la richiesta di una pronuncia sul merito in via principale (che implica necessariamente il riconoscimento della esistenza in concreto della “potestas iudicandi” del giudice adito) e la proposizione di una eccezione di incompetenza dello stesso giudice, da esaminare solo nella ipotesi di pronuncia sfavorevole alla parte che l’ha sollevata, con la conseguenza che, qualora l’eccezione di incompetenza sia stata formulata nei detti termini, essa deve considerarsi ed aversi come non proposta. In tal caso il giudice, mancando una rituale eccezione da esaminare, qualora possa rilevare d’ufficio l’incompetenza (come nella specie, venendo in evidenza la comp territoriale inderogabile relativa al foro del consumatore), deve farlo entro la prima ud di trattaz, a norma dell’art. 38 c.p.c.; la violaz della preclusione alla rilevazione è deducibile in sede di regolamento di compet ed è rilevabile d’ufficio dalla Corte di Cass.
Cass. Sez. 2, Sent. n. 2365 del 2/02/07. Nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, la mancata comparizione dell’opposto alla prima udienza o alle udienze successive non equivale alla rinuncia alle difese svolte con l’atto di costituzione. (Sulla base di tale principio la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di pace che aveva accolto l’opposizione motivando sulla base della mancata comparizione della P.A. opposta, che si era costituita resistendo all’opposizione).
Cass. Sez. 1, Sent. n. 7684 del 12/07/1993. L’art. 645 cod. proc. civ., stabilendo che l’opposizione a decreto ingiuntivo va proposta davanti all’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ha istituito una competenza funzionale di tale ufficio che non può essere derogata per ragioni di connessione, sia che questa si presenti nei termini ampi e generici dell’art. 40 c.p.c., sia che si tratti delle speciali ipotesi di connessione previste dagli artt. 34, 35 e 36 c.p.c., sia che la situazione di connessione preesista all’emanazione del decreto ingiuntivo e alla proposizione dell’opposizione, ovvero insorga successivamente nel corso dello stesso giudizio, con la conseguenza che, quando nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo sia proposta una domanda riconvenzionale eccedente la competenza per valore del giudice adito, questi non può rimettere tutta la causa al giudice superiore, ma deve rimettergli soltanto la causa relativa alla domanda riconvenzionale e, previa separazione, trattenere quella concernente l’opposiz a d. i., salvo a disporre, ove del caso, la sospensione di tale ultima causa ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 20324 del 20/09/2006. La competenza per l’opposizione a decreto ingiuntivo, attribuita dall’art. 645 cod. proc. civ. all’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ha carattere funzionale ed inderogabile, stante l’assimilabilità del giudizio di opposizione a quello di impugnazione, sicché essa non può subire modificazioni neppure per una situazione di connessione, senza che rilevi in contrario la eliminazione della regola della rilevabilità d’ufficio delle competenze cosiddette forti in ogni stato e grado. Ne consegue che, nel caso in cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso dal giudice di pace, sia proposta dall’opponente domanda riconvenzionale eccedente i limiti di valore della competenza del predetto giudice, questi è tenuto a separare le due cause, trattenendo quella relativa alla opposizione e rimettendo l’altra al giudice superiore, e che, in difetto, il giudice superiore cui sia stata rimessa l’intera causa può richiedere, nei limiti temporali fissati dall’art. 38 cod. proc. civ., il regolamento di competenza ex art. 45 cod. proc. civ.
Cass. Sez. 2, Ord. n. 6595 del 08/05/2002. Qualora la domanda riconvenzionale appartenga alla competenza per materia di un giudice diverso, il “simultaneus processus” previsto, in via di regola, dall’art. 36 cod. proc. civ., non può attuarsi davanti al giudice competente per valore a conoscere della domanda principale. In tal caso, non operando la deroga ai normali criteri attributivi della competenza disposti in considerazione della connessione oggettiva esistente tra le due domande, ciascuna di esse deve essere devoluta al giudice competente, con la conseguente separazione dei relativi giudizi. Pertanto, ove il giudice di pace, adito con domanda rientrante nella sua competenza “ratione materiae” ( nella specie, per il rispetto delle distanze legali nella piantagione di alberi), sia investito, in via riconvenzionale, di una domanda eccedente la sua competenza per valore o per materia ( nella specie, di accertamento dei confini tra i due fondi e condanna al risarcimento dei danni cagionati dai lavori di scavo e sbancamento eseguiti dall’attore), egli è tenuto, non operando la “translatio iudicii” a norma del citato art. 36 cod. proc. civ., a trattenere la causa principale, separando la causa riconvenzionale per la quale non è competente, senza che possa assumere alcuna rilevanza in contrario la disposizione del sesto comma del novellato art. 40 del codice di rito, secondo la quale, se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte davanti al tribunale per essere decise nello stesso processo, ne’ quella del settimo comma dello stesso articolo, che prevede che, se le cause connesse ai sensi del c. 6 sono proposte davanti al g.d.p. e al tribun, il primo deve pronunciare anche di ufficio la connessione a favore del tribun. Infatti, tali disposiz non prevedono l’ipotesi in cui le predette domande siano proposte sin dall’inizio davanti al g.d.p., rimanendo ferma, in tale ipotesi, in caso di riconvenzionale di compet del giudice togato, la competenza funzionale e inderogabile del giudice di pace per la causa principale.
Cass. Sez. 6 – 2, Ord. n. 944 del 17/1/11. In tema di sanzioni amministrative, la competenza per territorio a conoscere dell’opposizione al verbale di accertamento di infrazione di norme sulla circolazione stradale ha natura inderogabile, ai sensi dell’art. 204-bis del codice della strada. Ne consegue che, non applicandosi a tali illeciti l’istituto della continuazione così come disciplinato dall’art. 81 cod. pen., la connessione derivante dalla reiterazione della condotta non può avere alcun effetto processuale nel senso di attrarre la competenza per territorio in favore del giudice di pace competente per l’opposizione al verbale concernente l’accertamento della prima violazione.
Cass.Sez. 2, Sent n. 8460 del 09/4/10. Le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazione delle norme del codice della strada rientrano tra le “altre entrate di spettanza delle province e dei comuni” per le quali l’art. 52, VI c., del d.lgs. 446/1997 (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore all’abrogazione da parte dell’art. 1, comma 224, L.244/2007), prevede la possibilità di procedere alla riscossione coattiva anche con la procedura indicata dal r.d. 639/1910, atteso che il riferimento alle “altre entrate” è compiuto in modo ampio, senza alcuna distinzione, e che l’art. 15, comma 8-quinquiesdecies, del d.l. 78/2009, conv., con mod., nella L. 102/2009, nel dettare disposizioni finalizzate ad incrementare l’efficienza del sistema della riscossione dei comuni, fa espresso riferimento agli importi iscritti a ruolo ovvero per i quali è stata emessa l’ingiunzione di pagamento ai sensi del testo unico di cui al r.d. 639/1910, per sanzioni amm.ve derivanti dalle violazioni al c.d.s., di cui al d.lgs. 285/1992″.
Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15864 del 13/08/2004. In tema di tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP), nel caso in cui il servizio di accertamento e di riscossione della tassa sia stato affidato dal comune in concessione, la competenza territoriale in ordine alla controversia relativa ad avviso di accertamento emesso dal concessionario va individuata non in relazione alla sede del comune concedente, bensì alla sede del concessionario, atteso che questi subentra nei diritti e negli obblighi del comune verso i contribuenti ed è dunque il soggetto legittimato a resistere all’impugnazione del predetto atto impositivo.
Cass.Sez. 1, Ordinanza n. 9421 del 11/06/2003. In tema di ingiunzione fiscale emessa in materia di riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, ai sensi del R.D. 639/1910 (che cumula in sè le caratteristiche di forma ed efficacia di titolo esecutivo e di precetto), l’opposiz. all’ingiunzione in questione da luogo ad un procedim. di cognizione volto a contestare il diritto di procedere all’esecuzione forzata ed ad ottenere un accertamento negativo della pretesa fatta valere “in executivis” dalla P.A. Pertanto, avuto riguardo al carattere esecutivo del procedimento in cui essa opposizione si inserisce, deve trovare applicazione la disciplina dell’art. 7 T.U.1311/1933, costituente, in relazione ai proc. esecut., deroga ai criteri generali del Foro erariale.
Corte Cost., Sentenza n.452 del 16/12/1997. Non è fondata, con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., l’art. 3 R.d. 639/1910, (Approvazione del t.u. delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato), nella parte in cui attribuisce la competenza, nel giudizio di opposizione all’ingiunzione di pagamento, al giudice del luogo ove ha sede l’ufficio dell’ente che ha emesso l’ingiunzione medesima e non al giudice del luogo in cui risiede l’ingiunto opponente, in quanto – posto che il principio della precostituzione del giudice sancito dall’art. 25 Cost. è rispettato purché l’organo giudicante sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole controversie; e che la nozione di giudice naturale non si cristallizza nella determinazione di una competenza generale, ma si forma anche a seguito di tutte le disposizioni di legge che possano derogare a tale competenza in base a criteri che ragionevolmente valutino i disparati interessi coinvolti nel processo – la previsione che la competenza territoriale debba, nella specie, radicarsi nel luogo ove ha sede l’ufficio emanante non costituisce esercizio arbitrario o irragionevole della discrezionalità che spetta in materia al legislatore, poiché tale previsione è fondata sulla considerazione della natura dell’ente dal quale proviene l’ingiunzione, della articolazione territoriale di questo e della qualità dei crediti per il soddisfacimento dei quali il procedimento di ingiunzione fiscale può essere esperito.
Cass. Sez. U, Sent. n. 562 del 10/08/2000. In relazione ad una cartella esattoriale notificata ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie, è ammissibile l’opposizione nelle forme previste dalla legge n. 689 del 1981 solo per le sanzioni per cui sia mancata la notificazione dell’ordinanza – ingiunzione o del verbale di accertamento di violazione al codice della strada, al fine di consentire all’interessato di recuperare l’esercizio del mezzo di tutela previsto dalla legge riguardo agli atti sanzionatori; quando, invece, tali atti siano stati notificati, la notificazione della cartella esattoriale può dare adito all’opposizione all’esecuzione a norma dell’art. 615 cod. proc. civ. (sulla cui ammissibilità non incide l’art. 54 d.P.R. 602/1973, inapplicabile al di fuori della materia tributaria), in relazione ai fatti estintivi asseritamente sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, e all’opposizione agli atti esecutivi, in caso di deduzione di vizi di regolarità formale della cartella esattoriale.
Cass. Sez. 2, Sent. n. 17312 del 07/8/2007. L’opposizione a cartella esattoriale emessa per il pagamento di una sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, con cui si deduca l’illegittimità di tale atto per omessa notifica del verbale di contestazione dell’infrazione, va proposta nel termine di sessanta giorni stabilito dall’articolo 204 bis cod. strada, e non in quello di trenta giorni di cui all’art. 22 L. 689/1981, essendo a tal fine essenziale il dato rappresentato dalla incontestata funzione recuperatoria dell’opposizione, cui va riconosciuta una sorta di forza attrattiva nei confronti della relativa disciplina impugnatoria, da cui l’esigenza di conformare la disciplina applicabile a quella dettata per l’azione recuperata. Tale conclusione, peraltro, oltre che trovare sostegno sul piano dogmatico, appare altresì quella più consona ai valori costituzionali dell’effettività della tutela giurisdizionale e dell’uguaglianza, tenuto conto che essa restituisce al ricorrente la medesima posizione giuridica che avrebbe avuto se il verbale di contestazione dell’infrazione, come previsto dalla legge, gli fosse stato a suo tempo notificato, giacchè la riduzione del termine di opposizione da sessanta a trenta giorni per effetto di una mancanza – l’omessa notificazione del verbale – che è imputabile alla sola Amm.ne, finirebbe per favorire, con riferimento al termine perentorio per impugnare, la stessa amministrazione e, per converso, sanzionare il destinatario della cartella, che è chiaramente incolpevole dell’omissione.
Cass. Sez. 2, Sent. n. 21793 del 22/10/10. Avverso la cartella esattoriale o l’avviso di mora emessi ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie è ammissibile l’opposizione, ai sensi dell’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, soltanto ove la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogatale, in quanto sia mancata la notificazione dell’ordinanza-ingiunzione; in tal caso, però, l’opposizione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, nel termine di trenta giorni previsto dalla norma citata.
Cass. Sez. 6 – 2, Ord. n. 2531 del 21/02/2012. È territorialmente competente a decidere sull’opposiz. ex art. 615, I c., c.p.c., avverso la cartella esattoriale emessa per il pagamento di una sanzione amministrativa per violazione del c.d.s., il giudice del luogo in cui è stata commessa l’infrazione, ai sensi degli artt. 22 L. 689/1981 e 204-bis c.d.s. (nella rispettiva formulazione anteriore alla novella recata dal d.lgs. 150/2011), giacché la disciplina applicabile all’opposiz. di cui al cit art. 615, in quanto proposta in funzione recuperatoria dell’opposiz. al verbale di accertamento della violaz. al c.d.s. va conformata a quella dettata per l’azione recuperata.
Cass. Sez. 3, Sent. n. 1985 del 29/01/2014. L’opposizione alla cartella esattoriale, emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria comminata per violazione al codice della strada, va proposta ai sensi degli artt. 22 e 23 L. 689/1981 e non nelle forme della opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c., qualora la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogatagli in ragione della nullità o dell’omissione della notifica del processo verbale di contestazione o dell’ordinanza ingiunzione.
Cass. Sez. 2, Ord. n. 19801 del 19/09/2014. In tema di violazioni del c.d.s., ove l’opposizione, in assenza di pregressa notifica dell’ordinanza ingiunzione, sia stata proposta avverso la cartella esattoriale, dalla quale non sia identificabile il luogo dell’illecito, trova applicazione, ai fini dell’individuazione del giudice competente, il foro generale delle persone fisiche ex art. 18 c.p.c.
Cass. Sez. 6 – 2, Ord. n. 9486 del 11/06/2012. In tema di competenza per territorio del giudice dell’opposiz. a sanz. amm.ve per violaz. delle norme del c.d.s. sui limiti di velocità, ove detta violazione sia stata accertata mediante il sistema cosiddetto “Tutor” , il quale si distingue dalle altre apparecchiature di controllo, perché rileva non la velocità istantanea di un veicolo in un dato momento ed in un preciso luogo, ma la velocità media dello stesso in un certo tratto di strada, che può essere ricompreso tra due Comuni diversi, il giudice del luogo in cui è stata commessa l’infrazione, ai sensi degli artt. 22 L. 689/1981 e 204-bis c.d.s., va individuato alla stregua dell’art. 9 c.p.p., secondo cui, se la competenza non può essere determinata in base al luogo in cui il reato sia stato consumato, è competente il giudice dell’ultimo luogo in cui sia avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione. Ne consegue che, se il veicolo oggetto di accertamento abbia percorso un tratto di strada compreso tra due Comuni limitrofi, la competenza territoriale spetta al giudice di pace del luogo dove è situata la porta di uscita del sistema di controllo.
Cass. Sez. 2, Sent. n. 5252 del 04/03/2011. In tema di sanzioni amministrative pecuniarie, la L. n. 689 del 1981, art. 8, prevede il cumulo cosiddetto “giuridico” delle sanzioni per le sole ipotesi di concorso formale, omogeneo od eterogeneo, di violazioni, ossia nelle ipotesi di più violazioni commesse con un’unica azione ad omissione; non lo prevede, invece, nel caso di molteplici violazioni commesse con una pluralità di condotte. In tale ultima ipotesi non è applicabile per analogia la normativa in materia di continuazione dettata per i reati dall’art. 81 c.p., sia perché la menzionata L. n. 689 del 1981, art. 8, al comma 2, prevede una simile disciplina solo per le suddette violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (evidenziandosi così l’intento del legislatore di non estendere detta disciplina ad altri illeciti amministrativi), sia perché la differenza qualitativa tra illecito penale e illecito amministrativo non consente che attraverso l’interpretazione analogica le norme di favore previste in materia penale possano essere estese alla materia degli illeciti amministrativi.
Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 26434 del 16/12/2014. In tema di sanzioni amministrative, allorché siano poste in essere inequivocabilmente più condotte realizzatrici della medesima violazione, non è applicabile in via analogica l’istituto della continuazione di cui all’art. 81, secondo comma, cod. pen., ma esclusivamente quello del concorso formale, in quanto espressamente previsto dall’art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il quale richiede l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni. La disciplina stabilita dal citato art. 8 non subisce deroghe neppure in base alla successiva previsione di cui all’art. 8-bis della medesima legge, che, salve le ipotesi eccezionali del secondo comma, ha escluso, sussistendo determinati presupposti, la computabilità delle violazioni amministrative successive alla prima solo al fine di rendere inoperanti le ulteriori conseguenze sanzionatorie della reiterazione.
Giudice di Pace Ariano Irpino, 26/05/2009. Il tutor è una apparecchiatura che non consente l’individuazione del luogo preciso della rilevazione il cittadino non viene posto in grado di difendersi innanzi al suo giudice naturale e considerata, altresì, la sua veste di consumatore, l’alternativa più favorevole è il ricorso al giudice del comune di residenza, foro peraltro previsto dal Cod. del Consumo.
Giudice di Pace di Tagliacozzo Sentenza n.34 del 26/02/2010 . Il sistema di rilevazione che caratterizza l’apparecchiatura SICVE, o Safety tutor, non permetta di individuare con esattezza la località ove la violazione sia stata commessa e, conseguentemente, non consenta di determinare la competenza territoriale della Autorità Giudiziaria davanti alla quale proporre ricorso per la eventuale contestazione del verbale”.-
Giudice di Pace di Viterbo Sentenza n. 3641 del 15/10/2008 . La rilevazione con apparecchiatura Tutor non consente di conoscere il luogo esatto della violazione (superamento limite di velocità), quindi va applicato il principio, del resto ormai accettato da normativa europea in tutti gli altri campi, che la competenza sia del giudice di residenza del consumatore (rectius trasgressore), in quanto in questa sede è avvenuta la notifica del provvedimento da impugnare; ogni diversa applicazione prevista dalla vecchia 689/81 è certamente viziata per lesione del cittadino al costituzionale diritto di facile accesso alla giurisdizione (obiter dictum).
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23881 del 15/11/2011. In ipotesi di violazioni multiple, di competenza di g.d.p. diversi, perché commesse in luoghi diversi, ciascuno dei quali rientranti nella competenza di diversi uffici, il giudice di pace investito dell’opposizione avverso tutti i verbali in questione, in relazione a ciascuno dei quali sussiste la propria incompetenza territoriale, deve emettere sentenza convocando le parti e non già un decreto di inammissibilità inaudita altera parte.
Ministero dell’Interno – Circolare n. 5 prot.M/2413/28 del 14 febbraio 2007. Oggetto: Sanzioni amm.ve per violaz. del C.d.S. Individuazione della competenza territoriale del Prefetto e del G.d.P. a decidere i ricorsi avverso i verbali di contestazione per la violaz. dell’art. 180, VIII c., del CdS.
Sono state segnalate, da parte di alcune Prefetture, incertezze e difficoltà in ordine alla individuazione del Prefetto e/o del Giudice di Pace territorialmente competenti a decidere i ricorsi proposti avverso i sommari processi verbali di contestazione della violazione dell’art. 180, comma 8, CdS., violazione richiamata espressamente dall’art. 126 bis, comma 2 dello stesso Codice. Si ritiene utile, al riguardo, porre l’attenzione su taluni indirizzi esegetici, emersi anche in ambito giurisprudenziale, ai quali uniformarsi nell’applicazione delle disposizioni di cui sopra. Come è noto, ai sensi dell’art. 180 comma 8, CdS, chiunque, senza giustificato motivo, non ottemperi all’invito dell’Autorità di presentarsi entro il termine stabilito dall’invito medesimo, ad uffici di Polizia per fornire informazioni o esibire documenti ai fini dell’accertamento delle violazioni amministrative in materia di circolazione stradale, è soggetta al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria nonché all’applicazione, da parte dell’ufficio dal quale dipende l’organo accertatore, della sanzione prevista per la mancanza del documento da presentare. Inoltre, secondo quanto disposto dall’art. 126 bis, comma 2, CdS, in caso di mancata identificazione del responsabile di una violazione che comporti la decurtazione del punteggio attribuito alla patente di guida, l’organo accertatore deve darne notizia al proprietario del veicolo, salvo che lo stesso non comunichi, entro 30 giorni dalla richiesta, all’organo di Polizia che procede, i dati personali e della patente dell’effettivo conducente al momento della commessa violazione; se il proprietario del veicolo omette di fornirli, si applica a suo carico la sanzione prevista dall’art. 180, comma 8, CdS. Gli artt. 203 e 204 bis CdS, come pure l’art. 22 L.24 novembre 1981, n. 689, ravvisano, in generale, l’organo territorialmente competente a decidere i ricorsi, amministrativi e giurisdizionali , avverso i verbali di contestazione degli illeciti amministrativi, rispettivamente, nel Prefetto e nel Giudice di Pace del luogo in cui è stata commessa la violazione. Pertanto, per giungere ad una corretta soluzione del problema ermeneutico sopra prospettato, occorre individuare, innanzi tutto, il luogo in cui è posta in essere la condotta illecita specificamente contemplata dall’art. 180, comma 8, CdS. In effetti, la mancata comunicazione delle generalità del trasgressore, di cui al combinato disposto dell’art. 126 bis, comma 2 e dell’art. 180, comma 8, CdS, concretizza , senza dubbio alcuno, una condotta illecita di natura omissiva, che può essere realizzata, come tale, oltre che nella stessa località in cui è stata commessa la violazione originaria, anche in un luogo diverso dalla prima. Infatti, qualora l’autore della predetta condotta risulti avere la propria residenza in una località diversa da quella in cui si trovava quando ha commesso la violazione originaria, è in tale località che dovrà essergli notificata la richiesta di informazioni e che, decorsi vanamente i 30 giorni dalla avvenuta notifica,si perfezionerà l’illecito. Alla luce delle suesposte considerazioni, si ritiene, pertanto, che, al fine di fondare la competenza del Prefetto e/o del Giudice di Pace cui proporre ricorso avverso la condotta omissiva tenuta successivamente alla violazione contestata, il luogo della commissione di quest’ultima non possa assumere alcun rilievo e che debba, piuttosto, farsi riferimento al luogo di residenza dell’interessato. Si pregano le SS.LL. di voler tener conto delle enunciazioni esplicative sopra formulate, basate anche su recenti pronunce giurisdizionali, e si resta a disposizione per ogni eventuale, ulteriore chiarimento.
Cass.Sez. 2, Ordinanza n. 17580 del 09/08/2007. È territorialmente competente a decidere l’opposizione avverso il verbale di contestazione della violazione dell’art. 126 bis, II c., c.d.s. – sanzionante il proprietario del veicolo che senza giustificato motivo non comunichi nel termine previsto le generalità del conducente al momento della commessa infrazione – il giudice del luogo dove ha sede l’organo di polizia procedente, giacchè l’infrazione si consuma nel luogo in cui avrebbe dovuto pervenire la comunicazione che è stata omessa. (Nella specie il Giudice di Pace di Viareggio, con ord. del 9.11. 2006, aveva sollevato di ufficio regolamento di competenza avverso il decreto dell’8.5.2006 del G.d.P. di Lucca che lo aveva indicato competente e la S.C. ha dichiarato la competenza del G.d.P. di Lucca, dove aveva sede la Sezione di Polizia stradale procedente).
Cass. Sez. 2 Sentenza n.18670 del 13/08/2010. Spetta al giudice del luogo dove ha sede l’organo di polizia che ha accertato una infrazione alle norme del C.d.S., la competenza a pronunciarsi sul ricorso avverso il provvedimento con il quale è stato sanzionato il proprietario del veicolo che, senza giustificato motivo, non abbia adempiuto all’obbligo di comunicare, nel termine previsto dalla legge, le generalità del soggetto che era alla guida al momento della commessa infrazione. La violazione dell’obbligo di cui all’art. 126 bis c.s., II c., deve, infatti, ritenersi consumata nel luogo in cui avrebbe dovuto pervenire la comunicazione che è stata omessa.
Cass.Sez. 6, Ordinanza n. 26184 del 21/11/2013. E’ territorialmente competente a decidere l’opposizione avverso il verbale di contestazione della violazione dell’articolo 126 bis, comma secondo, cod. strada – sanzionante il proprietario del veicolo che senza giustificato motivo non comunichi nel termine previsto le generalità del conducente al momento della commessa infrazione – il giudice del luogo dove ha sede l’organo di polizia procedente, giacché l’infrazione si consuma nel luogo in cui avrebbe dovuto pervenire la comunicazione che è stata omessa
Cass.Sez. 6, Ordinanza n. 24757 del 23/11/2011. L’art. 126 – bis secondo comma del codice della strada sanziona il comportamento del proprietario del veicolo che senza giustificato motivo non ottempera, entro il termine ivi previsto, alla comunicazione all’organo di polizia procedente dell’identità del conducente dell’autoveicolo al momento della pregressa violazione, sicchè l’infrazione si consuma nel luogo in cui sarebbe dovuta pervenire la comunicazione che è stata omessa, vale a dire nel luogo in cui ha sede il detto organo di polizia procedente.
Min. dell’interno Circolare n.16 prot.M/2413/28 del 02/04/2007 Oggetto: Sanz. amm.ve per violazioni del C.d.S.. Individuazione della competenza territoriale del Prefetto e del G.d.P. a decidere i ricorsi avverso i verbali di contestazione per la violaz. dell’art. 180, c. 8, del C.d.S. Chiarimenti alla Circolare 14 febbraio 2007.n.5. Sono stati segnalati, da più parti, dubbi e perplessità in ordine all’orientamento fornito da questa Direzione Centrale con Circolare n. 5 del 14.02.2007, per quel che concerne i criteri di individuazione dell’Autorità cui proporre ricorso avverso la condotta omissiva di cui all’art. 180, c. 8, C.d.S., richiamata dall’art. 126 bis, c. 2, dello stesso Codice. Si è osservato, in primo luogo, che, al di là di qualsiasi valutazione giuridica, l’attribuzione di competenza all’autorità amministrativa o giudiziaria del luogo in cui risiede il trasgressore determinerebbe difficoltà di gestione del contenzioso giurisdizionale, dal momento che le Prefetture potrebbero essere chiamate a resistere in giudizio avverso i verbali redatti da Uffici di polizia anche assai lontani. Vengono ipotizzati, inoltre, dei problemi anche per gli operatori che hanno redatto i verbali, in quanto, per effetto delle sopraindicate disposizioni, gli stessi potrebbero anche essere chiamati a testimoniare nei giudizi di opposizione davanti ad uffici giudiziari aventi la propria sede in località molto distanti da quella in cui essi operano abitualmente. Infine, si manifesta il timore che l’indirizzo operativo fornito dalla Circolare in questione, riverberando i propri effetti su un rilevante numero di verbali già redatti e notificati, divenga fonte di una pericolosa espansione del relativo contenzioso. Si evidenzia, al riguardo, che, sotto il profilo prettamente giuridico, questo Dipartimento ha fondato il proprio orientamento sulla lettera degli artt. 203 e 204 bis C.d.S., i quali – come pure ha rilevato, anche di recente, la giurisprudenza (ex plurimis, Corte di Cass., Sez. Civ. 11, sent. n. 24876 del 23.11.2006 e G.d.P. Taranto 20/5/2004) – ravvisano l’organo territorialmente competente a decidere i ricorsi avverso i verbali di contestazione degli illeciti amministrativi in materia di circolazione stradale nel Prefetto e nel G.d.P. del luogo in cui è stata effettivamente commessa la violazione. Si rammenta che, ai sensi dell’art. 180, c. 8, C.d.S., chiunque, senza giustificato motivo, non ottemperi all’invito dell’Autorità di presentarsi, entro il termine stabilito dall’invito medesimo, ad uffici dì Polizia per fornire informazioni o esibire documenti ai fini dell’accertamento delle violazioni amministrative in materia di circolazione stradale, è soggetto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria nonché all’applicazione, da parte dell’ufficio dal quale dipende l’organo accertatore, della sanzione prevista per la mancanza del documento da presentare. Secondo quanto disposto dall’art. 126 bis, comma 2, C.d.S., in caso di mancata identificazione del responsabile di una violazione che comporti la decurtazione del punteggio attribuito alla patente di guida, l’organo accertatore deve darne notizia al proprietario del veicolo, salvo che lo stesso non comunichi, entro 30 giorni dalla richiesta, all’organo di Polizia che procede, i dati personali e della patente dell’effettivo conducente al momento della commessa violazione; se il proprietario del veicolo omette di fornirli, si applica a suo carico la sanzione prevista dall’art. 180, comma 8, C.d.S. Poiché la mancata comunicazione delle generalità del trasgressore, di cui al combinato disposto dell’art. 126 bis, c. 2 e dell’art. 180, c. 8, C.d.S., concretizza una condotta illecita di natura omissiva che può essere realizzata, oltre che nella stessa località in cui è stata commessa la violazione originaria, anche in un luogo diverso dalla prima, si è ritenuto – in assenza di indicazioni univoche da parte del legislatore ed in presenza dì un panorama giurisprudenziale piuttosto variegato – che, al fine di fondare la competenza dell’Autorità cui proporre ricorso avverso la condotta omissiva tenuta successivamente alla violazione contestata, debba farsi riferimento al luogo di residenza dell’interessato, e ciò in coerenza con il principio di ordine generale cristallizzato nell’art. 9 c.p.p., secondo cui, qualora la competenza del giudice non possa essere determinata sulla base del luogo in cui l’illecito penale è stato consumato, deve ritenersi competente il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione, e qualora il luogo sopra indicato non sia noto, la competenza appartiene al giudice della residenza, della dimora o del domicilio dell’imputato. Tanto sopra premesso, le osservazioni formulate appaiono tutt’altro che irrilevanti, ponendo esse l’accento su delicati profili di ordine tecnico-operativo che l’opzione ermeneutica prescelta da questa Direzione Centrale è destinata ad implicare. Ne deriva – nelle more di un contributo richiesto, sulla specifica problematica, all’Avvocatura Generale dello Stato, volto anche a cogliere l’esatta interpretazione delle locuzioni “luogo della commessa violazione” e “luogo in cui è stata commessa la violazione”’ contenute,rispettivamente, nell’art. 203 e nell’art. 204 bis C.d.S.- l’opportunità di continuare a seguire il previgente consolidato orientamento (anch’esso, in sostanza, confortato, a livello generale, da alcune pronunce giurisprudenziali) secondo cui il luogo della commissione di un illecito amm.vo coincide con il luogo in cui lo stesso è stato accertato. E’ evidente, infatti, che, in termini tecnicooperativi, tale orientamento non può che riflettersi sul criterio di individuazione dell’autorità competente a ricevere il ricorso o a giudicare della eventuale opposizione avverso i verbali di contestazione della violazione dell’art. 180, c. 8, C.d.S., autorità che viene così a identificarsi con quella del luogo in cui ha sede l’Ufficio di polizia presso il quale dovevano pervenire le informazioni o i documenti richiesti e che ha provveduto alla redazione del relativo verbale. Sì pregano, pertanto, le SS.LL. di voler tener conto delle enunciazioni esplicative sopra formulate, con riserva di far conoscere l’avviso che l’Avvocatura Generale dello Stato farà pervenire al riguardo.
Ministero dell’Interno Circolare n.21 prot.M/2413/13 del 23/04/2007. Oggetto: Sanzioni amministrative per violaz. del C.d.S.. Individuazione della competenza territoriale del Prefetto e del G.d.P. a decidere i ricorsi avverso i verbali di contestazione per la violaz. dell’art. 126,c. 2, C.d.S.
Si fa seguito alle Circolari del 14.2.07 n. 5, del 2.4.07 n. 16 e dell’ 11.4.07 n. 17, aventi ad oggetto la problematica dell’individuazione della compet. territoriale del Prefetto e del G.d.P. a decidere i ricorsi avverso i verbali di contestazione della violazione dell’art. 126 c. 2, C.d.S. Per la soluzione di tale problematica, questo Ministero aveva richiesto il contributo chiarificatore dell’Avvocatura Gen. dello Stato, la quale ha espresso, di recente, il proprio parere in merito alla questione. In particolare, ad avviso del citato Organo consultivo, “il luogo di commissione della violazione dell’art. 126-bis, c. 2, Cd.s. (luogo in cui, ai sensi degli artt. 203 e 204-bis dello stesso c.ds. si radica la competenza del Prefetto e del G.d.P. a conoscere rispettivamente dei ricorsi amministrativi e di quelli giurisdizionali, proposti avverso i verbali di contestazione della predetta violazione) è quello della sede dell’ “organo di polizia che procede” e non quello di residenza del soggetto, onerato dalla predetta norma di fornire i dati del conducente che ha commesso l’infrazione al c.d.s.”. Ne consegue che il Prefetto e il G.d.P.territorialmente competenti a conoscere, rispettivamente, dei ricorsi amm.vi e giurisdiz. proposti avverso i verbali di contestaz. per la violaz. dell’art. 126-bis, c. 2, del C.d.S., sono da individuare nel Prefetto e nel G.d.P. del luogo in cui ha sede l’organo di Polizia che ha dato inizio al procedimento sanzionatorio con la notifica del verbale di contestazione della violazione originaria ed al quale è attribuita la competenza ad accertare e contestare anche la violazione dello stesso art.126-bis,c. 2, del C.d.S.. L’Avvocatura Gen. dello Stato evidenzia, inoltre, che la nuova formulazione della citata disposizione attribuisce all’organo di Polizia che procede anche “il compito di verificare (accertare) se la predetta violazione si sia, o meno, concretata ovvero se l’omessa comunicazione dei dati identificativi del conducente, responsabile dell’infrazione, sia stata, o meno, determinata da un giustificato e documentato motivo”. Si pregano le SS.LL. di voler tener conto delle enunciazioni esplicative autorevolmente formulate dall’Avvocatura Gen. dello Stato, rispetto alle quali questo Ministero ritiene necessario uniformarsi, e si resta a disposizione per ogni eventuale, ulteriore chiarimento.
Cass. Sez. 2 sentenza n.19755 del 27/09/2011. Rientra nei compiti della polizia munic. l’accertamento delle infrazioni al c.d.s. consumate nel territorio comunale, anche se su tracciati appartenenti ad enti diversi, atteso che l’art. 11, 3 c., c.d.s. – che demanda al Min. dell’interno i servizi di polizia strad., con la sola salvezza delle attribuzioni dei comuni per quanto concerne i centri abitati – attiene alla direzione e predisposizione di tali servizi, nonché al loro coordinamento, ma non alla delimitazione delle competenze della polizia munic., che è regolata dagli artt. 3, 4, I c., n. 3, e 5 L. 65/1986 con riferimento all’intero territorio dell’ente di apparten.
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3019 del 01/03/2002. Rientra nei compiti della polizia municipale l’accertamento delle infrazioni al codice della strada consumate nel territorio comunale, anche se fuori del centro abitato, atteso che l’art. 11, 3 c., cod. str. – che demanda al Minist. dell’interno i servizi di polizia strad., con la sola salvezza delle attribuzioni dei comuni per quanto concerne i centri abitati – attiene alla direzione e predisposizione di tali servizi, nonché al loro coordinamento, ma non alla delimitazione delle competenze della polizia munic., che è regolata dagli artt. 3, 4, I c., n. 3, e 5 L. 65/1986 con riferimento all’intero territorio dell’ente di apparten.
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11183 del 22/08/2001. Rientra nei compiti della polizia munic., e non necessita, perciò, di autorizz del Prefetto, l’accertamento dell’infraz. al cod. strad. consumata in territorio comun, anche se fuori del centro abitato, poiché le disposiz. del C.S., che attribuiscono al Min. dell’interno il potere di coordinamento dei servizi di polizia strad. non sottraggono le relative competenze ai comuni, ai quali sono attribuite, dall’art. 18 d.P.R. 616/77, le funzioni della polizia locale urbana e rurale che si svolgono nell’ambito del territorio comun.
Minist dell’Interno Circol. Prot.n.300/A/2/511901/110/26 del 4.3.02. Oggetto:accertamenti di violaz. al c.d.s. effettuati dal personale della Polizia Munic. libero dal servizio.
Si fa riferimento alla nota sopra indic., con la quale codesta Associaz. segnala verbalizzazioni di violaz. al c.d.s. effettuate dal personale della Polizia Munic. libero dal servizio. Si fa presente che, ai sensi dell’art. 12 cds ed in linea con le disp.della legge quadro che ha riformato la Polizia Munic., gli appartenenti ai suddetti corpi o servizi hanno oggi come unico limite alla propria attività quella del territorio del comune da cui dipendono, senza escludere …. (omissis)… la possibilità di convenzioni tra comuni limitrofi al fine di svolgere funzioni e servizi lungo le strade che segnano confine tra i due comuni. Il personale della Polizia Munic., pertanto, può espletare tutte le funzioni di polizia stradale anche al di fuori del servizio comandato. …. (omissis)..
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5771 del 03/03/2008. Gli appartenenti alla polizia munic., ai sensi dell’art. 57 c.p.p. e 5 L. 65/1986, hanno la qualifica di agenti di polizia giudiz. soltanto nel territorio di appartenenza e limitatamente al tempo in cui sono in servizio e ciò a differenza di altri corpi, quali la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di finanza etc., i cui appartenenti operano su tutto il territorio nazionale e sono sempre in servizio. I predetti, quindi, possono accertare tutte le violazioni in materia di sanzioni amm.ve e fra queste anche quelle relative alla circolazione stradale purché si trovino nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza ed alla condizione che siano effettivamente in servizio. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto dovesse considerarsi nullo il verbale di contestazione di un’infrazione al c.d.s. redatto da un vigile urbano che si trovava in comune diverso da quello in cui operava con tale qualifica mentre, in abiti civili e fuori dal servizio di vigilanza, si trovava a bordo della sua autovettura).
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4018 del 21/02/2007. Avverso la cartella esattoriale emessa ai fini della riscossione di sanzioni amm.ve pecuniarie per violazioni del codice della strada è configurabile come opposizione agli atti esecutivi l’impugnativa con la quale si deducano vizi formali della cartella esattoriale, quali la mancata indicazione dei luoghi in cui si sono verificate le infrazioni al C.d.S., nonché delle norme violate, con la conseguenza che, ai sensi degli artt. 617 c.1 e 480 c.3 c.p.c., in mancanza di specifica indicazione nella cartella, la competenza territoriale spetta al giudice del luogo in cui la cartella è stata notificata.
Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 8704 del 15/04/2011. Il giudice territorialmente competente per l’opposizione a cartella esattoriale, derivante dal mancato pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, deve essere individuato secondo i criteri, di natura inderogabile, indicati nell’art. 27 cod. proc. civ., trattandosi di un vero e proprio giudizio di opposizione all’esecuzione, incardinato ai sensi dell’art. 615 c.p.c. Ne consegue che, qualora la cartella esattoriale, del tutto equiparabile all’atto di precetto, non contenga le indicazioni richieste dall’art. 480, 3 c., c.p.c., la competenza territoriale si radica nel luogo in cui la cartella esattoriale è stata notificata; né può assumere rilievo il foro della commessa violazione qualora non sia in discussione la validità dell’accertamento, ma solo l’avvenuto pagamento della relativa sanzione.
Min. dell’Interno Circol. 3.9.2009: Compet. territ. per l’adoz. della sanz. amm.va access. sospensione della patente di guida.  In considerazione di un siffatto dettato normativo, alcune Prefetture-UTG hanno ritenuto applicabile l’art. 129 C.d.S. che individua nel Prefetto del luogo di residenza dell’interessato l’organo amministrativo competente a disporre la sospensione della patente di guida nei casi in cui non sia espressamente disciplinato dal Codice ed in tal senso si era inizialmente espressa anche questa Direz. Centr. (nota n. 543 del 22.1.2008). Tale orientamento, tuttavia, fornito, peraltro, in maniera succinta e dubitativa in risposta ad un singolo quesito, deve necessariamente essere riconsiderato alla luce di criteri ermeneutici legati ad una lettura sistematica della disciplina codicistica, nonché dei principi generali che disciplinano la competenza sanzionatoria in materia di illeciti amministrativi sulla base del criterio del luogo della commessa violazione. Invero, a fronte di una possibile contrapposizione delle due disposizioni – riconducibile verosimilmente ad un difetto di coordinamento nell’elaborazione dei rispettivi testi in sede di formulazione del dettato normativo -, risulta coerente optare per una interpretazione estensiva dell’art. 218 C.d.S. in virtù della quale l’irrogazione del provvedimento sanzionatorio de quo spetta al Prefetto territorialmente competente in relazione al luogo della commessa infrazione in tutti i casi in cui la sospensione del titolo abilitativo alla guida costituisca sanzione accessoria conseguente all’accertamento di un illecito amministrativo. In tali casi, infatti, oltre alle sopra evidenziate ragioni che inducono a superare il dato letterale dell’art. 129 e a far propendere per un ampliamento della sfera di operatività dell’art. 218 C.d.S., si ritiene debba essere privilegiata una interpretazione che tenga conto dell’unicità dell’attività di accertamento e dei correlativi profili sanzionatori, come peraltro da consolidata prassi. Ne consegue che la competenza ad emettere il provv.to di sospensione della patente deve attribuirsi al Prefetto del luogo in cui è stato commesso il fatto sanzionato anche quando il documento non possa essere materialmente ritirato al momento della rilevazione dell’illecito. Del resto, qualora si accedesse alla opposta tesi, si potrebbero manifestare insanabili vizi di procedura. Contro il provvedimento di sospensione della patente, infatti, sarebbe esperibile ricorso ad un giudice di pace diverso da quello al quale potrebbe essere presentata opposizione nel merito dell’accertamento stesso, con il rischio della formazione di due diversi, ed eventualmente confliggenti, giudicati sul medesimo fatto. Il che risulterebbe palesemente abnorme sotto il profilo giuridico. Atteso quanto esposto, superando ogni diversa indicazione in passato fornita, si ritiene, d’intesa con il Dipartim. della Pubbl. Sicurezza, che nei casi sopraindicati, competente ad adottare il provvedimento della sospensione della patente del trasgressore sia il Prefetto del luogo in cui è stato commesso il fatto, al quale, secondo le indicazioni dell’art. 218 C.d.S., gli organi di polizia stradale che hanno accertato la violazione debbono trasmettere tempestivamente copia del verbale.

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“SOCIETA’: ESTINZIONE DI SRL E DEBITI: I SOCI SONO RESPONSABILI IN SOLIDO?”

L’art. 2495 c.c., secondo cui “Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”, èstato oggetto della nota sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 6070 del 12/3/2013 che, seppur chiamata a decidere una questione di natura principalmente processuale, ha colto l’occasione per porre alcuni insegnamenti fondamentali anche di diritto sostanziale.Poiché, conformemente a quanto stabilito dalla citata norma, la sentenza ha stabilito che i soci succedono nelle obbligazioni passive già facenti capo alla società estinta e ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione (sempreche non debbano risponderne in modo illimitato per altra ragione), interessa qui domandarsi se i soci medesimi ne rispondano in regime di solidarietà oppure se ciascuno di essi risponde solo della sua parte ossia in misura proporzionale alla sua quota di partecipazione al capitale sociale, in ragione della quale ha partecipato anche al riparto del patrimonio residuo in sede di liquidazione.La Cassazione ricostruisce la fattispecie del subentro nell’obbligo di pagamento dei debiti rimasti insoddisfatti in seguito alla liquidazione in termini di fenomeno successorio ma -è bene chiarirlo subito- pare che il ricorso ad una simile analogia antropomorfica sia stato dettato più dalla necessità di fornire un titolare a rapporti giuridici che, altrimenti, non avrebbero più fatto capo ad alcuno che non dall’effettiva convinzione che sia davvero possibile configurare un parallelismo fra gli effetti della morte della persona fisica e gli effetti dell’estinzione della persona giuridica. Infatti -si legge in motivazione- la stessa sentenza espressamente rifiuta “improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica”, cosicché il riferimento alla successione pare più operato ad un concetto di successione tout court che non alla successione mortis causa.Ed infatti il parallelismo pare effettivamente impossibile già a livello normativo solo se si tiene conto del fatto che, qualora -in seguito alla morte di una persona- non esista nessun chiamato all’eredità oppure nessun chiamato abbia potuto o voluto accettarla, si apre la procedura di eredità giacente ed i beni restano tutti ed unitariamente destinati alla soddisfazione dei creditori, senza alcuna limitazione od alcun frazionamento di responsabilità.Ciò senza tener conto del fatto che, come acutamente osservato (U. La Porta, in Rivista del Notariato 2013, pag. 726), “nel nostro ordinamento la responsabilità per debiti ereditari è posta a carico di chi è già divenuto erede, ed è tale non perché acquisti attivo e passivo in una visione universalistica del patrimonio ereditario ma soltanto per avere acquistato, ai sensi dell’art. 588 c.c., l’universalità o una quota dei beni del testatore”.Invero la norma citata non disciplina una devoluzione successoria del debito già facente capo alla società cancellata (e quindi estinta) ma “estende, in ossequio ad un generale principio di economia dei mezzi giuridici, alle somme ricevute dai soci in sede di liquidazione -evidentemente in sostanziale violazione dell’art. 2491 c.c.- l’assoggettamento al potere di aggressione del creditore” (U. La Porta, op. e loc. cit.), dato che “la norma non si preoccupa di garantire continuità nella titolarità delle situazioni soggettive passive ma soltanto di garantire continuità di tutela al creditore” (U. La Porta, op. cit., pag. 727) e ciò evidentemente per la necessità pratica di tutela del terzo creditore e non di astratta sistemazione teorica del fenomeno.In effetti lo stesso tenore letterale dell’art. 2495 c.c. non rappresenta alcuna forma di successione dei soci nelle obbligazioni già della società ma mira, senza dubbio, a mantenere a favore dei creditori un potere di azione per ottenere la soddisfazione delle loro ragioni, dettandone le modalità e così “assicurando la permanenza di una destinazione funzionale del patrimonio sociale alla soddisfazione dei creditori della società che l’effetto istintivo della cancellazione potrebbe minare” (U. La Porta, op. e loc. cit.).Tuttavia pare a chi scrive che la prospettiva nella quale deve valutarsi l’importante pronuncia della Cassazione ai fini che qui interessano, ossia la sussistenza o meno del vincolo solidale fra gli ex soci per i debiti rimasti impagati, debba essere diversa e la questione non pare essere se siamo di fronte o meno ad un fenomeno in generale di natura successoria ma, piuttosto, specificamente, se, indipendentemente dalla configurazione o meno di un fenomeno successorio, debbano ritenersi operanti o meno gli artt. 752, 754 e 1295 c.c. secondo cui l’obbligazione si fraziona fra i coeredi, gravando su ciascuno di essi solo in proporzione della quota ereditaria.Precisato sin da subito che, per pacifica interpretazione, si tratta di norme di natura eccezionale e come tali inapplicabili per analogia, per esaminare il problema che ci occupa pare necessario prendere le mosse dal principio della comune destinazione dei beni (già) sociali al soddisfacimento delle ragioni dei creditori e considerare che l’art. 754 c.c. presuppone un fenomeno successorio diverso da quello apparentemente conseguente all’estinzione di una società i) in quanto implica la cessazione della persona fisica (la morte) che non è frutto di un atto di volontà (a differenza dell’estinzione della persona giuridica che, invece, è frutto della decisione dei soci), ii) in quanto i successori nulla hanno lucrato in base alla destinazione dei beni del defunto (a differenza dei soci i quali, al contrario, hanno goduto pendente societate dei frutti dell’utilizzo dei beni sociali percependo gli utili), iii) ed in quanto la posizione dell’erede (o coerede) si confonde con quella del defunto (mentre la posizione degli ex soci non si confonde affatto con il complesso dei rapporti giuridici che facevano capo alla società estinta, rispondendo solo delle obbligazioni nei termini e nei modi stabiliti dalla legge).Ed il “vantaggio” della parziarietà della responsabilità resta bilanciata dalla responsabilità illimitata dell’erede (puro e semplice), il quale, se intende godere di una responsabilità limitata, deve farsi carico di accettare l’eredità col beneficio d’inventario subendo tutti i vincoli e le limitazioni che tale forma di accettazione comporta.La diversità fra un gruppo di ex soci ed una compagine di coeredi è resa evidente anche dal fatto che i coeredi di una persona defunta non hanno mai voluto ed inteso costituire una collettività e non sono mai stati legati fra di essi da un contratto sociale, tanto che il Codice ha dovuto dettare norme espresse per disporre una loro responsabilità frazionata e proporzionata alle quote ereditarie; e la differenza appare evidente anche all’origine della responsabilità laddove la fonte della responsabilità del socio nei confronti del terzo creditore è da individuare nell’impegno assunto, tramite la società, nei suoi confronti, il che non accade nella successione mortis causa perché l’erede non ha mai assunto alcun impegno nei confronti di alcun creditore, che sovente neppure conosce.Ciò detto, riprendiamo la disposizione dell’art. 2495 c.c. per verificare se in essa ricorrano o meno i presupposti della solidarietà e pare che la risposta possa e debba essere positiva per le seguenti ragioni:1) le obbligazioni solidali passive sono le obbligazioni che fanno capo a più debitori, tutti tenuti ad una sola prestazione in modo che l’adempimento dell’uno libera gli altri e che l’obbligazione (già sociale) al cui adempimento sono chiamati gli ex soci è identica per tutti come espressamente precisato dalla stessa decisione della Suprema Corte sopra richiamata;2) i debitori sono obbligati in solido quando le obbligazioni derivano dalla stessa fonte ed hanno ad oggetto un’unica prestazione ossia quando le obbligazioni hanno origine dalla medesima fattispecie legale o negoziale e l’obbligazione facente capo agli ex soci deriva dall’unica responsabilità dell’unico soggetto precedentemente debitore ossia la società estinta.La funzione della solidarietà passiva è la garanzia del creditore (C.M. Bianca, Diritto Civile, Milano, 1990, vol. IV, pag. 695), che costituisce l’elemento veramente intrinseco ed organico della solidarietà secondo un’opinione che risale addirittura alla dottrina tedesca ottocentesca secondo cui la vera importanza dell’istituto della correalità risiede tutto nella sicurezza e comodità nella persecuzione del credito. Il vincolo solidale è diretto a rendere più sicura e più agevole la realizzazione del diritto del creditore, evitandogli il disagio di esercitare una pretesa per ciascun debitore e per la rispettiva quota (Bianca, op. e loc. cit.), disagio inesistente pendente societate. E non è pensabile che l’estinzione della società decisa dai soci (ossia da coloro che subentreranno nell’obbligazione di pagamento rimasta inadempiuta) possa pregiudicare le ragioni dei creditori e rendere più difficoltosi i meccanismi della loro soddisfazione, non potendo essi nemmeno contare su una pluralità di patrimoni personali (quanti sono gli ex soci) stante il limite della responsabilità a quanto percepito in sede di liquidazione;3) le obbligazioni solidali costituiscono un insieme collegato di più rapporti obbligatori, il che è esattamente ciò che prevede il citato art. 2495 c.c.;4) presupposto della solidarietà passiva è quello dell’identità della prestazione, che significa che tutti i debitori sono obbligati per la medesima prestazione; il che significa ancora che la prestazione ha lo stesso contenuto per tutti, restando irrilevante il fatto che siano eventualmente tenuti con modalità diverse. In altri termini: la stessa prestazione si ripropone ad oggetto dei singoli rapporti obbligatori.Ed il limite di responsabilità stabilito dall’art. 2495 c.c. non cambia il contenuto della prestazione ma solo lo comprime;5) la norma generale di cui all’art. 1294 c.c. prevede che i condebitori sono tenuti in solido se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente, così fondando una presunzione generale di solidarietà che può essere vinta solo da norme espresse e specifiche.Ma la solidarietà degli ex soci appare fondarsi, oltre che su motivi rinvenibili nella struttura della fattispecie, anche sulla base di motivi teleologici e funzionali, primo fra tutti la necessità di evitare agli incolpevoli creditori il disagio di dover esperire azioni separate (con il conseguente aggravio processuale) per ciascuna parte di debito gravante su ciascun ex socio con il conseguente plurimo rischio di insolvenza.Non minore rilievo assumono anche i motivi di natura sistematica e così non si vede per quale motivo i creditori possano far valere, a soddisfazione delle loro ragioni, la responsabilità solidale dei liquidatori (Cass. 05/07/1979 n. 3859) che sono venuti meno ai loro doveri e non possano invece contare su pari responsabilità solidale degli ex soci.E così nemmeno si comprende il motivo per cui debba venir meno quell’unitarietà funzionale ai beni sociali (che l’art. 2495 c.c. mira invece a tutelare) e dunque la loro comune destinazione alla soddisfazione dei creditori che permane -e persino rafforzata- nella fase di liquidazione e che dovrebbe anche resistere alla cancellazione della società, se l’intenzione del legislatore è -come è- quella di assicurare che l’estinzione della società non faccia venir meno le sue obbligazioni passive residue.La sussistenza o meno del vincolo solidale nell’obbligazione passiva crea implicazioni anche di natura processuale, atteso che, come è evidente, qualora il debito abbia natura solidale tutti gli ex soci possono essere convenuti avanti al giudice competente per valore in ragione dell’importo complessivo mentre, invece, qualora la solidarietà non vi sia, ciascun socio dovrà essere convenuto avanti al giudice competente per valore in ragione solo della parte di debito gravante su tale socio.
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SRL QUANDO I SOCI RISPONDONO CON IL PROPRIO CAPITALE

Le società a responsabilità limitata – come tutte le altre società di capitali – rispondono delle obbligazioni sociali esclusivamente con il proprio patrimonio (art. 2462 cod. civ.) .

I creditori sociali, in caso di insolvenza di una società di capitali o nel nostro caso di una società a responsabilità limitata, non potranno chiedere l’escussione dei beni di proprietà personale dei singoli soci.

Tale principio non ha, contrariamente a quanto generalmente si pensi, carattere assoluto.

Vi sono dei casi, infatti, in cui gli amministratori rispondono dei debiti contratti dalla società (pur se a responsabilità limitata) che amministrano. Le società a responsabilità limitata, infatti e tutte le società di capitali infatti hanno “un’autonomia patrimoniale c.d. perfetta”: il patrimonio della società a responsabilità limitata è, pertanto, del tutto autonomo e distinto rispetto a quello dei soci e dell’amministratore.

La responsabilità patrimoniale dei soci, per le obbligazioni sociali della società a responsabilità limitata, è circoscritta esclusivamente:

  1. a) ai conferimenti di beni e danaro effettuati in sede di costituzione della società;
  2. b) agli apporti di beni e denaro eseguiti successivamente a favore della società, in conto capitale.

LE SOCIETA’ DI PERSONE E L’AUTONOMIA PATRIMONIALE IMPERFETTA

Nella società di persone (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) al contrario, si parla di autonomia patrimoniale imperfetta in quanto il patrimonio dei soci illimitatamente responsabili, sia pur distinto da quello societario, può essere aggredito dai creditori sociali nel momento in cui il credito verso la società non sia stato soddisfatto dalla escussione dei beni sociali. I creditori di una società di persone hanno – in ogni caso – l’obbligo della preventiva escussione dei beni societari e, solo qualora il credito resti insoddisfatto, potranno aggredire, in giudizio, il patrimonio personale dei singoli soci ai fini del recupero del loro credito.

LA RESPONSABILITA’ LIMITATA DEL SOCIO DELLA SRL

Con riferimento specifico alla società a responsabilità limitata, se chiudiamo e cancelliamo la società, quando i soci sono tenuti a pagare i debiti fiscali?

Il nostro sistema prevede che con l’iscrizione della cancellazione dal Registro delle Imprese si determina la sicura estinzione della società, anche qualora, successivamente, emergano rapporti societari non risolti e, in particolare, debiti non soddisfatti.

Fatta questa premessa, l’articolo 2495 del c.c. (cancellazione della società) è molto chiaro a riguardo. L’articolo prevede che, ferma restando l’estinzione della società di capitali dopo la cancellazione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Anche i giudici della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13259 del 26 giugno 2015, avevano chiarito che è inutile chiudere l’azienda al solo scopo di non voler pagare i debiti con il Fisco o con Equitalia.

Ovviamente la questione non è così immediata e non può essere liquidata con questa semplice affermazione.

Presupposto dell’esercizio di tale azione sarebbe proprio “l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale” potendo l’azione essere proposta quando “il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”.

Una responsabilità diretta e personale dell’amministratore nei confronti del creditore sociale dunque, come conseguenza della sua mala gestione, giusto contrappeso alla responsabilità limitata, che costituisce al pari della responsabilità illimitata nella società personali, un disincentivo a comportamenti avventati da parte di chi gestisce l’impresa sociale.

Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’amministratore presenti infedeli dichiarazioni dei redditi o bilanci societari irregolari.

Se l’Amministrazione Finanziaria vuole recuperare dai soci le imposte dovute dalla società chiusa e cancellata dal Registro delle Imprese, deve dimostrare l’esistenza di un attivo di liquidazione e l’ammontare di tale attivo (in pratica, deve dimostrare l’ammontare di quanto ha percepito ciascun socio in fase di liquidazione della società)

In questo caso, come si evince e contrariamente a quanto accade in genere, l’onere della prova ricade sull’Amministrazione Finanziaria.

I giudici della Suprema Corte hanno ricordato che la cancellazione dal Registro delle Imprese costituisce il presupposto della proponibilità dell’azione direttamente nei confronti dei soci, ma solo a condizione che questi abbiano percepito somme in sede di liquidazione del bilancio finale.

La responsabilità personale del socio (che scatta solo dopo la chiusura della società) non può estendersi al patrimonio personale ma si limita a quanto il socio ha realmente ricevuto con il bilancio di liquidazione.

Per esempio se, in fase di liquidazione, al socio viene riconosciuta una quota di 5.000 euro, per i debiti verso l’erario ma anche per quelli verso i fornitori o le banche, il socio risponderà solo fino alla soglia di 5.000 euro.

Nulla devono e non rispondono di alcun debito della società estinta, i soci che invece non hanno percepito nulla dalla fase di liquidazione della società.

Altresì l’Agenzia delle Entrate potrà chiedere il saldo dei debiti della società cancellata, solo quando dimostra che nella fase della liquidazione ci sia stata una distribuzione del patrimonio della società stessa.

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La (nuova?) responsabilità dei liquidatori

La recente modifica introdotta dal Decreto Semplificazioni all’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, con riferimento alla responsabilità dei liquidatori per il pagamento delle imposte dovute dalla società liquidata, sta scatenando dibattiti (e preoccupazioni) alla luce delle (presunte) gravi conseguenze che detta novità avrebbe sulla velocità e (soprattutto) sui rischi con cui le procedure liquidatorie possano essere condotte a termine.

E’ ormai noto che i liquidatori, a seguito della modifica de qua, “rispondono in proprio del pagamento delle imposte [dovute per il periodo della liquidazione e per quelli anteriori] se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari”.

Ebbene, la novità non consiste nella responsabilità personale e patrimoniale dei liquidatori, già prevista (in modo pressoché identico) nella versione previgente dell’art. 36, ma semplicemente nell’inversione dell’onere della prova: mentre prima era l’Ufficio fiscale a dover provare che i liquidatori non avevano adempiuto all’obbligo del soddisfacimento privilegiato dei crediti tributari, ora sono i liquidatori a dover fornire tale prova (ovviamente contraria), potendo l’Ufficio limitarsi a dimostrare l’esistenza di crediti tributari rimasti insoddisfatti.

Quindi non sembra sia cambiato granché, quantomeno nella sostanza: se il liquidatore adempie correttamente ai propri obblighi (rispettando i gradi di privilegio siccome stabiliti dall’art. 2777 Cod.Civ.), evidentemente non avrà nulla da temere, perché potrà sempre “provare” di non aver agito in danno dell’Erario.

La questione si complica, e nascono i dubbi e (soprattutto) le preoccupazioni, perché il Decreto Semplificazioni, parallelamente alla modifica dell’art. 36 citato, ha previsto che “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese.

Non serve, in questa sede, dilungarsi sulle (note) motivazioni che hanno indotto il Governo ad emanare siffatta disposizione.

Ciò che qui interessa, piuttosto, è notare come la lettura congiunta delle suddette novità normative induce i commentatori alla seguente conclusione: poiché la società liquidata può (ora) essere oggetto di pretese accertative e/o liquidatorie che si manifestano e vengono azionate in epoca successiva alla sua cancellazione, se tali pretese si trasformano in “crediti tributari privilegiati” (sia perché gli atti accertativi/liquidatori non vengono impugnati, sia perché, laddove impugnati, si arrivi ad una sentenza sfavorevole definitiva), i liquidatori potrebbero essere chiamati a risponderne personalmente ex art. 36.

Viene quindi suggerito ai liquidatori medesimi di accantonare un apposito “fondo rischi fiscali potenziali” – cui corrisponda un parallelo fondo di liquidità – da utilizzarsi, a fronte di accadimenti come quelli sopra descritti, per soddisfare detti crediti tributari (una volta che si siano resi definitivi) e così fornire la “prova” richiesta dal più volte citato art. 36.

Con ciò sacrificando, evidentemente, il pagamento di debiti di grado inferiore a quelli fiscali nonché la distribuzione ai soci dell’attivo di liquidazione, per un importo pari al fondo accantonato.

In altri termini, e più sinteticamente, la tesi sottostante al suggerimento sopra descritto si basa sulla considerazione che tra i crediti tributari da soddisfare in via privilegiata rientrino non solo quelli conclamatisi nella fase liquidatoria, ma anche quelli meramente potenziali, che cioè si manifestino, in concreto, nell’an e nel quantum, solo successivamente alla conclusione della procedura liquidatoria ed alla cancellazione della società.

Ebbene, simile conclusione non può essere condivisa, per motivi di ordine pratico ma soprattutto giuridico.

In particolare, dal punto di vista giuridico occorre sottolineare la profonda differenza che esiste tra responsabilità dei soci e responsabilità dei liquidatori:

  • è pacifico che la responsabilità dei soci (prevista dall’art. 36 comma 3 e, in via più generale, dall’art. 2495 Cod. Civ., in base al quale “i creditori sociali [tra cui l’Erario] non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse”) si fonda su un rapporto giuridico di successione;
  • la responsabilità dei liquidatori è invece riferita ad un debito proprio, distinto dalla obbligazione tributaria della società, anche se a questa commisurata.

Ciò significa che, mentre ai soci può essere imputato – per effetto della norma speciale ex art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 e generale ex art. 2495 Cod. Civ. – il debito di imposta scaturente dalla fattispecie impositiva realizzata dalla società (alle condizioni e nei limiti previsti dalla norma), la ragione giustificatrice della responsabilità dei liquidatori non può che essere quella della violazione dei doveri del liquidatore, in grado di far sorgere una specifica fattispecie, non fondata sulla capacità contributiva del soggetto, bensì sull’illecito oggettivo.

In questo senso, si esprime la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, quando afferma che la responsabilità del liquidatore ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 è una “autonoma obbligazione legale che insorge quando ricorrono gli elementi obiettivi della sussistenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione e della distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute”.

Con la conseguenza che, mentre il pagamento di debiti di imposta conclamatisi e divenuti certi ed esigibili successivamente alla cancellazione potrà sempre essere coercitivamente preteso dai soci, ai liquidatori sarà consentito sottrarsi a tale responsabilità “provando” di non aver violato il dovere imposto dal più volte citato art. 36.

Traducendo in pratica tale principio, se ne conclude che giammai potrà essere attribuita al liquidatore la colpa di aver pretermesso il pagamento di un debito fiscale privilegiato allorquando tale debito semplicemente fosse stato inesistente al momento del pagamento di debiti con privilegio inferiore (o dell’assegnazione ai soci dell’attivo di liquidazione).

E la prova della mancanza di colpa potrà essere fornita dimostrando di aver impiegato la massima diligenza professionale richiesta dalla propria funzione, nella verifica dell’esistenza di debiti fiscali antecedentemente al pagamento di debiti di rango inferiore ovvero dell’assegnazione ai soci dell’attivo di liquidazione.

A tal fine, gli strumenti di verifica che il liquidatore può attivare (lasciandone traccia documentale da offrire come “prova” della mancanza di colpa) sono numerosi:

  • richiesta di eventuali estratti di ruolo presso il competente Agente della riscossione;
  • accesso al Cassetto fiscale della società per verificare l’esistenza di eventuali comunicazioni di irregolarità rimaste inevase;
  • richiesta al locale Ufficio dell’Agenzia delle entrate della certificazione dei carichi pendenti ex art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997.

Aderire alla tesi opposta, ovvero quella che ritiene i liquidatori comunque responsabili del pagamento dei debiti tributari sorti a seguito di pretese fiscali azionate (per la prima volta) successivamente alla cancellazione della società, condurrebbe a conseguenze pratiche paradossali: è infatti evidente che, per evitare qualsiasi rischio, i liquidatori sarebbero indotti ad astenersi dall’eseguire qualsiasi pagamento di debiti diversi da quelli fiscali, non potendo escludere a priori il futuro manifestarsi di debiti fiscali, che in quel momento risultano tuttavia sconosciuti.

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RESPONSABILITA’ DEL LIQUIDATORE DI SRL

In seguito alla cancellazione, la società (articolo 2495 del Codice civile) perde la soggettività giuridica e, pertanto ogni diritto e dovere, a prescindere dall’eventuale esistenza di rapporti non definiti. Quando la società estinta non onora il proprio debito tributario, l’amministrazione finanziaria può rifarsi sul patrimonio del liquidatore che abbia privilegiato altri crediti o utilizzato o trasferito in altro modo i fondi.

Rapporti pendenti:
– I creditori insoddisfatti possono esclusivamente rivolgersi contro i soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse, risultanti dal bilancio finale di liquidazione e dal piano di riparto, e contro i liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da loro dolo o colpa.
Due disposizioni regolano la disciplina dei diritti dei creditori Fisco compreso:
– L’art. 36 del Dpr 602/1973 Responsabilità tributaria del liquidatore: prevede che il liquidatore risponda in proprio quando non provvede al versamento dell’Ires (solo Ires, per crediti Irap e Iva si può eventualmente applicare l’art 2495 del c.c.) per pagare crediti di ordine inferiore a quelli tributari o per assegnare beni ai soci senza aver soddisfatto tali crediti (non viene rispettato l’ordine di privilegio dei creditori).
Il liquidatore che non adempie all’obbligo di pagare con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quello anteriore, rispondono in proprio nel caso di:
– Abbiano soddisfatto creditore di grado inferiore di quelli tributari
– Assegnino beni ai soci prima di soddisfare i debiti tributari
È consigliabile che il liquidatore accantoni, in sede di riparto, le somme necessarie per l’estinzione di debiti d’imposta esistenti o prevedibili, costituendo un deposito vincolato o accollandoli ai soci.

È onere dell’Erario provare la certezza ed esigibilità dei crediti da un lato e la non corrispondenza del bilancio finale di liquidazione (prova della scorretta allocazione delle risorse disponibili o della riscossione da parte del socio di somme o beni anche riguardante i due periodi precedenti la messa in liquidazione).
La responsabilità del liquidatore si riferisce non solo alle passività fiscali note, in quanto cristallizzate in atti impositivi già notificati, ma anche a passività non ancora definite. In tale prospettiva, dunque, i liquidatori possono essere chiamati a rispondere, oltre dell’inadempimento dell’obbligo di pagare con le attività della liquidazione le imposte dovute dalla società, anche del mancato accantonamento delle somme necessarie al pagamento delle future e prevedibili maggiori imposte, derivanti da successivi avvisi di accertamento che l’Amministrazione Finanziaria potrebbe notificare dopo la chiusura della procedura di liquidazione.

In base a tali principi di diritto, la posizione dell’amministrazione finanziaria risulta dunque fortemente agevolata, poiché essa – differentemente da quel che accade in ambito societario – non deve provare che il comportamento dei soggetti reputati responsabili sia ascrivibile a dolo o colpa, ma è sufficiente la dimostrazione della ricorrenza dei presupposti oggettivi sopra descritti, cioè che: a) sussistano debiti tributari certi e definitivi a carico della società, b) esistano attività di liquidazione, c) tali attività siano state distratte per finalità diverse dal pagamento delle “imposte dovute”.
La responsabilità del liquidatore è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.
Termine di prescrizione: 10 anni.

Responsabilità per mancato pagamento delle imposte sui redditi: manleva
In caso di chiusura dell’attività senza attendere lo spirare dei termini di decadenza delle azioni accertatrici dell’amministrazione finanziaria, è consigliabile farsi rilasciare dai soci una dichiarazione con cui essi, nel prendere atto che i liquidatori stessi provvederanno alla cancellazione della società dal registro delle imprese, senza attendere la definizione fiscale di tutti gli esercizi e lo spirare dei termini di decadenza per l’azione accertatrice dell’amministrazione finanziaria per tributi diretti e indiretti, si obbligano nei di lui confronti a tenerlo indenne da eventuali azioni intraprese per l’accertamento e la riscossione di imposte dovute dalla società e a prestargli la necessaria assistenza legale ove fosse ritenuto responsabile di illeciti compiuti dalla società suddetta e dai suoi precedenti amministratori.

Art. 2495 c.c. A differenza di quanto disposto dall’art. 36 e di quanto previsto per i soci, l’applicazione dell’art. 2495 in caso di comportamento colposo o doloso del liquidatore la pretesa fiscale potrà essere fatta valere senza alcuna limitazione quantitativa e il liquidatore risponderà dell’intero debito con tutto il proprio patrimonio. La responsabilità potrà essere fatta valere sia per il soddisfacimento di un debito sorto antecedentemente alla chiusura della fase di liquidazione, sia con riferimento ad un debito che trae origine da un atto impositivo emesso successivamente alla cancellazione della società. La responsabilità dei liquidatori nei confronti dei creditori sociali ai sensi dell’art. 2495 c.c., viene ritenuta alla stregua di una responsabilità extracontrattuale (aquiliana) per lesione del diritto di credito del terzo. Trattandosi di responsabilità aquiliana, l’azione esperita nei confronti del liquidatore è soggetta a prescrizione quinquennale, decorrente dal giorno dell’iscrizione della cancellazione della società dal Registro delle imprese.
– Il liquidatore che a seguito dell’azione di responsabilità dei creditori ha dovuto versare delle somme, poiché ha pur sempre pagato un debito della società che avrebbe decurtato le somme da ripartire, ha diritto di regresso nei confronti dei soci che hanno beneficiato di tale riparto, come fosse un normale creditore.
I liquidatori sono soggetti a:
– azione sociale di responsabilità (art.2393c.c.)
– azione sociale di responsabilità esercitata dai soci (art.2393bis c.c.)
– azione di responsabilità esercitata dai creditori (art.2394 c.c.)
– azione individuale di responsabilità esercitata dai soci o da terzi danneggiati (art.2305 c.c.)
art 2489-comma 2: le azioni suddette si prescrivono in 5 anni dalla cessazione del liquidatore dalla carica (2393 co2, 2949 co.2)

 

Responsabilità del liquidatore:
Fonte normativa Natura del debito Periodo di prescrizione Quali somme Tipo di responsabilità del liquidatore
a.                   art. 36 del Dpr 602/1973

disposizioni sulla riscossione delle imposte sui redditi

 

IRES

 

10 anni

Soci: bilancio finale di liquidazione e percezioni fino a 2 periodi di imposta antecedenti alla messa in liquidazione Responsabilità oggettiva: pretesa fiscale parziale, solo relativamente all’attivo destinato indebitamente ad altri creditori/soci
 

 art. 2495 c.c.

 

Creditori in genere, IRAP, IVA

5 anni (dalla cancellazione per il Fisco, dal momento in cui si viene a conoscenza dell’insufficienza dell’attivo per gli altri creditori)  

Bilancio finale di liquidazione

Responsabilità soggettiva legata a dolo/colpa: pretesa fiscale senza limitazioni

Si ritiene che una società di capitali ed in particolare la srl possa “proteggere” il patrimonio personale di soci e amministratori dai creditori non soddisfatti. In parte è vero, ma sussistono comunque delle responsabilità, cosa succede quando si decide di chiudere una srl ed analizzeremo i doveri che spettano ai soggetti chiamati a liquidare la società.

L’art. 2495 comma 2 del codice civile prevede che dopo l’estinzione della società, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.

Quindi a seguito dell’estinzione della società, i creditori, hanno la possibilità di agire nei confronti dei soci se questi al momento della chiusura si sono ripartiti delle somme senza avere completamente estinto i debiti societari. Questa possibilità nella pratica appare di difficile realizzazione, in quanto il creditore dovrebbe avere contezza della ripartizione in tempo reale, di modo da poter intervenire anche tramite un sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c. nei  confronti del socio prima che le somme non siano più recuperabili.

Invece l’art. 2495 comma 2 c.c. prevede che i creditori sociali possano agire verso i liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa. Da un lato la funzione della disposizione è quella d’innalzare la tutela dei creditori, aumentando il numero di soggetti chiamati a rispondere. Da un altro lato, l’obiettivo della norma è quello di responsabilizzare i liquidatori, i quali devono svolgere diligentemente la loro attività, essendo altrimenti esposti ad addebito di colpa e all’obbligo di risarcire il danno.

Sempre secondo la ratio della norma, i soci rispondono pro-quota come successori della società estinta, nel senso che sono diventati, titolari del patrimonio che prima della cancellazione era della società, i liquidatori rispondono invece a titolo proprio per gli eventuali comportamenti scorretti posti in essere durante la liquidazione. La responsabilità dei liquidatori nei confronti dei creditori deve considerarsi di natura extracontrattuale.

La responsabilità dei liquidatori ha diverse basi normative. La disposizione generale è costituita dall’art. 2489 comma 2 c.c., secondo cui i liquidatori rispondono per i danni derivanti dall’inosservanza dei loro doveri secondo le norme in materia di responsabilità degli amministratori. A tale norma si aggiunge il disposto dell’art. 2491 comma 3 c.c. secondo cui i liquidatori sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni cagionati ai creditori sociali con la ripartizione fra i soci di acconti sul risultato della liquidazione, quando non vi è stata integrale e tempestiva soddisfazione dei creditori.

Rispetto a tali disposizioni, l’art. 2495 comma 2 c.c. fonda un’ulteriore ipotesi di responsabilità professionale dei liquidatori. Questi hanno il compito di gestire la liquidazione della società, assicurando il soddisfacimento dei creditori (nei limiti delle risorse disponibili) e ripartendo il residuo fra i soci. Nello svolgere la loro attività i liquidatori sono tenuti all’osservanza di una precisa diligenza professionale (art. 2489 comma 2 c.c.). Laddove tali professionalità e diligenza non fossero osservate, i liquidatori possono essere chiamati a rispondere nei confronti dei creditori sociali. Il creditore insoddisfatto che vuole agire nei confronti dei liquidatori deve pertanto identificare delle inosservanze che si lasciano ricondurre essenzialmente a due categorie: inadeguata massimizzazione dell’attivo societario oppure errata distribuzione delle risorse sociali.

Mancata massimizzazione dell’attivo societario.

Un caso tipico di possibile responsabilità dei liquidatori può realizzarsi quando la vendita dei beni sociali avviene a un prezzo marcatamente inferiore al valore di mercato. Sei beni sociali vengono venduti a prezzi eccessivamente bassi, i liquidatori possono non arrivare a raccogliere risorse sufficienti per la soddisfazione dei creditori. L’addebito di responsabilità potrà esserci solo quando la vendita avviene colpevolmente a un prezzo decisamente inferiore a quello di mercato. In altre parole bisogna ricostruire il valore di mercato del bene,in un dato momento, e confrontarlo con il prezzo concreto di realizzo. Laddove la divergenza sia significativa e non giustificata, potrebbe realizzarsi una fattispecie di responsabilità. Una situazione simile, idonea a fondare la responsabilità dei liquidatori, si realizza quando questi omettono di attivarsi seriamente per recuperare i crediti della società facilmente recuperabili, così finendo per ridurre l’attivo sociale distribuibile ai creditori.

Errata distribuzione delle risorse sociali

I liquidatori possono essere ritenuti responsabili quando hanno trascurato crediti di terzi che erano invece facilmente riconoscibili: si pensi al caso di un credito debitamente comunicato dal terzo alla società, ma di cui i liquidatori non tengono conto. Si tratta dell’ipotesi in cui il bilancio finale di liquidazione non registra un credito,con l’effetto che le risorse disponibili vengono distribuite agli altri creditori a danno del creditore escluso. Rispetto al caso esaminato sopra non mancano in sé le risorse per soddisfare i creditori sociali (l’attivo è sufficiente), ma tali mezzi vengono malamente ripartiti. Un’altra ipotesi simile si ha quando sono stati pagati ai soci anticipi sui risultati della liquidazione in misura talmente eccessiva da produrre l’effetto che non rimangono mezzi sufficienti per poter soddisfare i creditori sociali. Il liquidatore che paghi incautamente acconti in violazione dell’art. 2491 comma 2 c.c. si rende responsabile nei confronti dei creditori, in quanto privilegia i soci a danno dei creditori.

L’art. 2495 comma 2 c.c. si compone di un elemento oggettivo (mancato pagamento) e di un elemento soggettivo (colpa dei liquidatori).

L’elemento oggettivo non richiede particolari approfondimenti, è sufficiente che i creditori sociali non ricevano quanto loro spetta.

Con riferimento all’elemento soggettivo, la responsabilità dei liquidatori esige un addebito di colpa (o addirittura di dolo) e non può essere fatta valere per il mero fatto che l’attivo societario non è sufficiente. Laddove il comportamento dei liquidatori sia stato corretto e rispettoso di tutte le regole che devono essere osservate durante la liquidazione, non potranno essere ritenuti responsabili nei confronti dei creditori sociali.

Con riguardo alla prescrizione dell’azione dei creditori sociali nei confronti dei liquidatori, il termine decorre dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, ed è esperibile entro cinque anni, secondo un’applicazione analogica dell’art. 2949 comma 2 c.

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Sorte dei debiti e dei crediti nella società di capitali cancellata

Quali sono gli effetti della cancellazione della società di capitali dal Registro delle Imprese? I rapporti obbligatori, di debito e di credito, si estinguono con la sua estinzione? Può, la società di capitali, essere considerata esente da responsabilità a seguito della cancellazione dal Registro delle Imprese? Che strumenti residuano a tutela dei creditori delle società cancellate dal Registro delle Imprese?
Queste sono solo alcune delle domande a cui gli interpreti del diritto sono chiamati a rispondere.
Questione centrale è sicuramente quella relativa alle conseguenze della cancellazione della società dal registro delle imprese.
Ante e post riforma.
Prima della riforma del 2003, in mancanza di una specifica previsione normativa, si erano delineate in dottrina e in giurisprudenza posizioni discordanti. Infatti, se per un verso, la dottrina dominante riconosceva alla cancellazione della società di capitali dal Registro delle Imprese efficacia costitutiva, comportante l’estinzione della persona giuridica, e ciò anche in pendenza di rapporti giuridici, per altro verso, la giurisprudenza maggioritaria attribuiva all’atto formale di cancellazione efficacia meramente dichiarativa, con la conseguenza che l’eventuale sussistenza di rapporti giuridici, nonché la pendenza di controversie giudiziali con i terzi, ne precludesse l’estinzione (cfr. sul punto: Cass. Civ., n. 12553/2004; Cass. Civ., n. 11021/1999; Cass. Civ., n. 5233/1999; Cass. Civ., n. 2676/1998).
Il legislatore della riforma, novellando l’articolo 2495 c.c., ha espressamente ricollegato il momento estintivo della società di capitali all’atto della cancellazione della stessa dal Registro delle Imprese. Ciò nondimenno, i contrasti interpretativi non sembrano essersi sopiti.
Giova, a tal proposito, segnalare un orientamento minoritario che ha continuato a riconoscere efficacia meramente dichiarativa alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese, per effetto della quale, la persona giuridica sopravvive sino all’estinzione dei rapporti giuridici pendenti (Cass. Pen., n. 35001/2010; Cass. Civ., n. 646/2007; Cass. Civ., n. 4652/2006).
Solo nel 2010 si è giunti ad una parziale ricomposizione delle discordanze interpretative. Con le sentenze n. 4060, 4061 e 4062, la Corte di legittimità, in seduta plenaria, ha riconosciuto efficacia costitutiva alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese, a prescindere dalla eventuale pendenza di rapporti giuridici di varia natura. Le società di capitali, e di persone, devono, quindi, considerarsi estinte a far data dalla cancellazione dal Registro delle Imprese, ovvero a far data dalla entrata in vigore della riforma legislativa in parola (01/01/2004) se la cancellazione risale ad epoca anteriore.
Il detto intervento delle Sezioni Unite, ha lasciato, tuttavia, insoluta la questione relativa alle sopravvivenze e alle sopravvenienze attive. Sul punto, di recente, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi a Sezioni Unite, sancendo la sopravvivenza dei rapporti attivi e passivi in capo ai soci, quali successori delle società estinte (cfr. Cass. Civ., n. 6070/2103, n. 6071/2013 n. 6072/2103).
Tale principio è stato, da ultimo ribadito dalla Cassazione con la sentenza n. 18250 del 26.08.2014, in relazione all’esame dei rapporti attivi pendenti esclusi dalla liquidazione in quanto trascurati o sconosciuti.
Sorte dei debiti e dei crediti
Per quanto concerne, in particolare, i rapporti e le sopravvenienze passive, i giudici di legittimità si sono rifatti a quanto stabilito dal secondo comma dell’articolo 2495 c.c., a mente del quale i creditori sociali, una volta che la società si sia estinta in seguito alla cancellazione dal Registro delle Imprese, possano agire nei confronti dei singoli soci. La responsabilità dei soci nei confronti dei creditori sociali è, infatti, diretta conseguenza del principio secondo cui la soddisfazione delle pretese dei primi è postergata rispetto a quella di quest’ultimi. Tuttavia, l’articolo 2495 c.c., nel rispetto del principio dell’autonomia patrimoniale perfetta e della conseguente responsabilità limitata dei soci delle società di capitali, ben circoscrive i confini entro i quali i creditori sociali possono agire e rivalersi sui singoli soci: solamente, infatti, ‘fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione’. Nel caso in cui, invece, il mancato pagamento dei debiti sociali dipenda dalla mala gestio del liquidatore, la giurisprudenza ha chiarito che i creditori sociali dovranno agire nei confronti di quest’ultimo, non potendosi ravvisare, dunque, la responsabilità dei singoli soci. La giurisprudenza di merito, tuttavia, ha anche chiarito che ‘affinché vi possa essere risarcimento per comportamento illegittimo dell’amministratore o del liquidatore, occorre che sia provata non solo illiceità del comportamento, ma anche la conseguenza dannosa che da questa discende, in modo causalmente connesso’. (Cfr., Trib. Milano, Sez. VIII, 14.11.2007; Trib. Torre Annunziata, 16.12.2008, ord.).
Dunque, quello che si verifica, anche ad opinione della giurisprudenza maggioritaria, è un ‘fenomeno successorio’, inteso lato sensu: i soci subentrano nei rapporti obbligatori facenti capo all’ente ormai estinto nello stesso modo in cui gli eredi subentrano nei debiti del de cuius. In realtà, a ben vedere, il regime di co-obbligazione dei soci con riferimento ai debiti della società, altro non è che il riflesso del regime di solidarietà passiva previsto in via generale dall’articolo 1294 c.c.
La soluzione sin qui prospettata, tuttavia, può, de facto, comportare un indebolimento della tutela dei creditori della società, laddove si venga a creare una ‘confusione’, nell’ambito del patrimonio del singolo socio, tra quello che è il proprio residuo patrimoniale e la somma riscossa in sede di liquidazione. A proposito di quest’ultima, infatti, manca quel ‘vincolo’ necessario ad assicurare che la stessa venga destinata al soddisfacimento delle sole pretese dei creditori sociali. La circostanza che, invece, la somma riscossa in seguito all’estinzione della società confluisca naturalmente e direttamente nel patrimonio del singolo socio, non permette più di tracciare quel confine essenziale ai fini dell’individuazione di quale sia la ‘fetta patrimoniale’ su cui i singoli creditori del socio possano legittimamente rivalersi, e quella, al contrario, finalizzata al soddisfacimento delle pretese creditorie sociali.
È stato, peraltro, chiarito che dalla responsabilità limitata dei soci non derivi altresì pregiudizio alcuno per i creditori sociali superstiti, nel caso in cui si riesca a dimostrare che le pretese creditorie non si sarebbero potute comunque soddisfare, neanche durante societate, per manifesta incapienza patrimoniale della società. Spetta, infatti, a tutti i creditori, e non solo a quelli superstiti, sopportare ‘l’impatto dell’insolvenza della società sciolta’.
L’articolo 2495 c.c. nulla dice, invece, con riferimento ai crediti della società estinta. Il tema è stato affrontato dalla Cassazione con le note sentenze del 2013: in esse si fa differenza fra le “mere pretese” e i crediti controversi e illiquidi, da un lato, e i crediti certi e liquidi e gli altri beni, dall’altro. Riguardo ai primi, la Suprema Corte ritiene che debbano intendersi rinunciati se la cancellazione della società sia avvenuta senza l’espletamento, da parte dei liquidatori, dell’ulteriore attività necessaria a renderli iscrivibili in bilancio. A parere dei giudici di legittimità, in altri termini, la scelta operata dal liquidatore di velocizzare i tempi del procedimento di liquidazione e pervenire all’estinzione della società, rinunciando ad espletare le incombenze occorrenti per la definizione di situazioni pendenti conosciute o conoscibili, è da considerare come una manifesta rinuncia alle stesse. Quanto, invece, ai crediti certi e liquidi e agli altri beni, mobili o immobili, i quali, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati dal liquidatore, avrebbero dovuto essere iscritti in bilancio, gli stessi si considerano trasmessi in capo ai soci, che ne diventano, rispettivamente, contitolari (crediti) e comproprietari (altri beni).
Non è chiaro, poi, a chi spetti effettivamente il diritto di pretendere la riscossione dei crediti non rinunciati. Se, per un verso, la Cassazione ha stabilito che, nei procedimenti instaurati dalla società prima della sua estinzione, legittimati a richiedere il pagamento sono esclusivamente i soci, qualificando come litisconsorzio necessario quello esistente tra gli stessi, e ritenendo, tra gli altri, applicabile l’articolo 110 c.p.c., dall’altro ha lasciato irrisolta la problematica che sorge nel caso in cui la pretesa creditoria venga fatta valere solo successivamente alla cancellazione della società. La Suprema Corte, nelle cennate sentenze del 2013, si è limitata – come visto – a far riferimento a un regime di ‘contitolarità’ sui crediti o di “comunione” sugli altri beni: non potendosi, però, ritenere applicabili in via analogica né i principi dettati in materia di comunione ereditaria, non essendo la trasmissione in capo ai soci dei rapporti della società totalmente assimilabile alla successione testamentaria, né quelli del condominio, si deve dedurre che ciascun socio avrà diritto di richiedere – e il debitore tenuto a corrispondergli – solo la propria parte del credito in contitolarità, ai sensi dell’articolo 1314 c.c.
La cancellazione della cancellazione
Le sentenze n. 6070-6071-6072/2013, segnano altresì il superamento della tesi secondo cui la mera permanenza di rapporti giuridici pendenti possa comportare una reviviscenza dell’ente societario, sostenendo che è ‘da escludere che l’esistenza di residui o sopravvenienze sia da sola sufficiente a giustificare un’eventuale revoca della cancellazione della società dal Registro delle Imprese’.
La Suprema Corte apporta così un ulteriore contributo alla discussione relativa al carattere irreversibile o meno della cancellazione della società, questione, questa, tutt’ora aperta.
Ad avviso di parte della giurisprudenza merito (Trib. Padova 2 marzo 2011), il Giudice del Registro dovrebbe disporre la ‘cancellazione della cancellazione’ solo nel caso in cui non sia stata definita la liquidazione. Si tratta di una tesi che, però, secondo alcuni, non tiene in considerazione il fatto che l’unico presupposto per richiedere la cancellazione è costituito dall’approvazione del bilancio finale di liquidazione, e che solo su quest’ultimo potrà concentrarsi il controllo del Giudice del Registro. Diversa opinione è espressa da altra parte della giurisprudenza (Trib. Bologna, 6 giugno 2013), secondo la quale l’istituto in argomento potrebbe trovare applicazione nel caso in cui non vi sia stata una totale ripartizione dell’attivo disponibile. Detta posizione non convince chi rileva che la distribuzione dell’attivo non è legata all’approvazione del bilancio finale, la quale costituisce l’unico presupposto per richiedere la cancellazione della società.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute sul punto, nel 2010, con sentenza n° 8426, e – come visto – nel 2013, chiarendo che il ricorso all’istituto della cancellazione d’ufficio della cancellazione è possibile solo nella circostanza in cui si riesca a dimostrare che la società ‘apparentemente estinta’ abbia continuato concretamente a svolgere la propria attività. C’è chi fa notare, tuttavia, che tale assunto mal si concilia con il disposto dell’art. 2495 c.c.. A detta di una parte della dottrina, la Cassazione avrebbe potuto optare per una diversa soluzione, rintracciando nella prosecuzione dell’attività d’impresa il sorgere di una nuova società di fatto tra i soci che, in quanto tale, sia, quindi, soggetta alla normativa vigente in materia.
Resta il fatto che allo stato attuale non è possibile ravvisare una posizione netta ed univoca da parte della giurisprudenza in ordine alle questioni che sorgono in seguito alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese. E ciò anche probabilmente a causa della mancanza di un intervento esaustivo da parte del legislatore in materia. Ed è, dunque, a salvaguardia della certezza dei rapporti giuridici e dei molteplici interessi in gioco, che si auspica da più parti un ulteriore intervento chiarificatore che possa porre fine alle varie incertezze interpretative.

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Crediti insoddisfatti: azione verso liquidatori e soci di società estinta

In una realtà economica e finanziaria caratterizzata da crisi di mercato, forti limitazioni nelle possibilità di accesso al credito, difficoltà nei pagamenti, si è ampliato il fenomeno della improvvisa cessazione di attività di imprese (organizzate in forma di società di capitali), impossibilitate a proseguire nel loro business; tale fatto ha determinato (e determina tutt’ora) gravi problemi per i fornitori e creditori, anche in assenza di procedure concorsuali.

Nel caso di liquidazione di una società di capitali, secondo quanto previsto dalle disposizioni normative vigenti (art. 2495 cc), terminata la fase di liquidazione, dopo il deposito dell’ultimo bilancio di liquidazione approvato, avviene la cancellazione della società dal Registro delle Imprese.

A questo punto, per i crediti impagati, vi sono limitate possibilità di avere un soddisfacimento anche parziale.

In tale contesto il Tribunale di Milano, con una recente sentenza n. 3142 del 2011, ha compiutamente affrontato e motivato (richiamando anche precedenti della giurisprudenza di legittimità e di merito) il tema dei presupposti in presenza dei quali i terzi creditori possono far valere le proprie ragioni nei confronti del liquidatore o dei soci della società cancellata.

Il caso affrontato dal Tribunale riguarda un’azione promossa da un imprenditore, il quale aveva ottenuto (con sentenza pronunciata nel 2006) il riconoscimento di un proprio credito nei confronti di una s.r.l. in liquidazione dal 2001 e, quindi, cancellata dal Registro delle Imprese nel luglio 2008 dopo il deposito del bilancio finale di liquidazione. Il credito, ovviamente, non era in contestazione e vi era stata la piena consapevolezza, da parte del liquidatore, dell’esistenza del medesimo. Il titolare del credito, con la predetta iniziativa, aveva convenuto in giudizio il liquidatore ed uno dei soci della società, chiedendo la condanna di entrambi, in via solidale ed alternativa, al pagamento integrale del credito vantato e rimasto insoddisfatto nel bilancio di liquidazione.

I Giudici, chiamati a valutare le ragioni poste a base della pretesa, hanno, dapprima, esaminato la posizione del liquidatore, ribadendo che verso quest’ultimo le azioni di eventuali terzi creditori possono essere avanzate solo allorché sia dimostrata una responsabilità extracontrattuale in capo al medesimo. Infatti, non vi è alcun

vincolo obbligatorio tra il creditore della società ed il liquidatore; inoltre, vi è un esplicito parallelismo, giusto richiamo dell’art. 2489 c.c., tra la natura della responsabilità dei liquidatori e quella prevista in materia di responsabilità degli amministratori.

Più precisamente, si evidenzia che l’art. 2394 c.c. sanziona – a titolo di responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali – le eventuali condotte degli amministratori poste in essere con inosservanza degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Identica responsabilità (peraltro soggetta alla prescrizione quinquennale decorrente dall’iscrizione della cancellazione della Società dal Registro delle Imprese) è posta in capo al liquidatore.

La natura di responsabilità extracontrattuale impone al creditore, che promuova un’azione per danni, l’onere di dimostrare l’esistenza, nel bilancio finale di liquidazione, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a soddisfare (in tutto o in parte) le proprie ragioni e che, invece, è stata distribuita ai soci od utilizzata per pagare solo taluni dei creditori, violando la cosiddetta par condicio creditorum.

In alternativa deve essere dimostrato, sempre ad opera di colui che agisce, che il liquidatore ha posto in essere una condotta colposa o dolosa con la quale abbia, in sostanza, impedito la costituzione o la conservazione del patrimonio attivo nell’interesse sia dei soci che dei creditori (ad esempio non attivando le opportune azioni di recupero di crediti esigibili o operando delle dispersioni del patrimonio). Su questi presupposti, la domanda del creditore è stata respinta dal Tribunale, posto che,

pur avendo accertato una condotta colposa del liquidatore, tuttavia non vi era dimostrazione del nesso causale tra il mancato pagamento e la condotta del liquidatore medesimo.

Nel caso di specie, l’unico bilancio agli atti dimostrava, sostanzialmente, una situazione patrimoniale della Società totalmente negativa e l’assenza, pertanto, di qualsiasi posta attiva da cui potessero emergere plusvalenze idonee a soddisfare le ragioni dell’attore. Anche per quanto riguarda l’eventuale responsabilità dei soci, il Tribunale ha statuito che nel sistema di responsabilità limitata delle società di capitali (caratterizzata dalla totale autonomia del patrimonio della società destinato a soddisfare i creditori medesimi nei limiti della capienza), l’eventuale coinvolgimento dei soci dopo la cancellazione della società può avvenire solo ed esclusivamente sul presupposto che i soci stessi abbiano percepito (attraverso il bilancio finale di liquidazione) parte delle attività destinate alla soddisfazione dei creditori sociali. In altre parole, occorre l’avvenuta dimostrazione che vi sia stata una concreta attribuzione

patrimoniale, in base al predetto bilancio.

Tale fatto determina, ex lege, l’assunzione in capo al socio anche di una corrispondente quota parte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti. Dunque, questo fatto costituisce il fondamento ed limite della pretesa che può essere fatta valere dai creditori. In tale contesto il Tribunale ha anche confermato la possibilità di una diretta utilizzabilità, verso il socio, del titolo esecutivo già ottenuto nei confronti della società debitrice. Ovviamente – in sede di processo di esecuzione – il creditore che si avvale di titolo dovrà dimostrare il presupposto dell’azione (e cioè l’entità della quota di liquidazione attribuita al Socio aggredito dall’esecuzione).

A fronte di quanto sopra illustrato e degli oneri probatori relativi, diviene fondamentale, da parte dei soggetti interessati, acquisire preventivamente tutti gli elementi inerenti la gestione della fase di liquidazione, per valutare l’esistenza o meno delle condizioni per l’azione e fornire, tempestivamente, le prove necessarie per far valere le proprie ragioni di credito.

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LINEE GUIDA DEL CURATORE FALLIMENTARE

In linea generale, il Curatore con riferimento alle istanze di fallimento,

  • Curerà che:
  1. a) siano numerate progressivamente (es. da ISTANZA N. 1 a seguire);
  2. b) riportino il numero e l’anno del fallimento (FALL. N. 124/2014);
  3. c) indichino il nome del giudice delegato;
  4. d) indichino se il comitato dei creditori è stato costituito (COMITATO NON COSTITUITO/COSTITUITO);
  5. e) indichino se la procedura disponga di fondi liquidi sufficienti, qualora sia richiesto impegno di spesa;
  6. f) indichino il nominativo del professionista che si intende designare, se è richiesta autorizzazione alla nomina di un collaboratore;
  7. g) riportino, in allegato, in formato word modificabile, una bozza del provvedimento che il giudice è chiamato ad emettere (a titolo esemplificativo ordinanze di vendita, decreti di trasferimento).
  • Per quanto attiene, in generale, alle particolarità del PCT relativo alle procedure concorsuali, i Curatori sono pregati di fare riferimento alle: “Linee guida per i curatori e i commissari nelle procedure concorsuali telematiche. Aggiornamento 2.0” – o a successivi eventuali aggiornamenti – reperibile sul sito del Tribunale di Catania al seguente link: http://www.tribunalecatania.it/news.aspx?id=2760
  • Il Curatore che, nell’esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale (art. 30 L.F.) deve tempestivamente denunciare alla Procura della Repubblica, eventuali fatti che potrebbero costituire ipotesi di reato di cui sia venuto a conoscenza

ADEMPIMENTI DEL CURATORE

  • ACCETTAZIONE DELL’INCARICO (art. 29 L.F.)

Entro 2 giorni dalla conoscenza della nomina (per presa visione in Cancelleria o per trasmissione via PEC), dovrà essere comunicata l’accettazione dell’incarico, dichiarando che non sussistono cause d’incompatibilità (art. 28, comma 3, l. fall.) (il non rispetto dei termini comporta la sostituzione).

  • ADEMPIMENTI TELEMATICI

PEC del fallimento : In caso di fallimento, il curatore, entro i quindici giorni successivi all’accettazione a norma dell’articolo 29 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, comunica ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40, i dati necessari ai fini dell’eventuale insinuazione al passivo della procedura concorsuale.

Per la violazione dell’obbligo di comunicazione sono raddoppiate le sanzioni applicabili”. (art. 29 c.6 D.L. 78/2010 convertito nella L. n. 122/2010);

Deposito telematico degli atti: Si ricorda che è stato disposto a far data dal 30 giugno 2014,  e a partire dal 1 gennaio 2015 anche per le procedure “vecchio rito”, l’obbligatorietà dell’osservanza delle modalità telematiche (c.d. Processo Civile Telematico) per le procedure concorsuali con riferimento al deposito degli atti e dei documenti da parte del curatore, del commissario giudiziale, del liquidatore, del commissario liquidatore e del commissario straordinario (art. 16-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 , convertito in l. 17 dicembre 2012, n. 221).

PEC del Curatore/commissario: Il curatore fallimentare, il commissario giudiziale (nel concordato preventivo), il commissario liquidatore e il commissario giudiziale (nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi) entro 10 giorni dalla nomina, comunicano al Registro delle Imprese, ai fini dell’iscrizione, il proprio indirizzo di posta elettronica certificata. (legge di stabilità 2013 (L. n. 228/2012), all’art. 1 comma 19, n.2bis).

La comunicazione dovrà essere effettuata con una pratica telematica attraverso la Comunicazione Unica.

  • CONVOCAZIONE DEL FALLITO

Il Curatore convocherà al più presto il fallito (ditta individuale) o tutti i soci falliti ex art. 147 L.F. (società di persone) o i legali rappresentanti (società di capitali) e redigerà dettagliato verbale delle dichiarazioni rilasciate e dei documenti prodotti (in caso di mancata comparizione, la circostanza sarà evidenziata nella relazione ex art. 33 l. fall. e  se ne darà immediata notizia al  G.D che valuterà i presupposti per la convocazione, dinanzi a sé,  mediante notificata da parte dell’U.G.).

  • APPOSIZIONE DEI SIGILLI (art. 84 l. fall.)

A norma degli artt. 752 ss. c.p.c., si provvederà ad apporre i sigilli sui beni che si trovano nella sede principale dell’impresa e sugli altri beni del debitore redigendo verbale e chiedendo, ove necessaria, l’assistenza della forza pubblica;

per i beni situati in più luoghi, l’apposizione può essere delegata ad uno o più coadiutori (artt. 84 c. 3 e 32 c. 2 l.f.);

il Cancelliere che assisterà alle operazioni di apposizione dei sigilli – conformemente a quanto stabilito in data 12.2.2008 con provvedimento  prot. n. 1400/08U dalla Presidenza del Tribunale di Catania –  sarà indicato  dal direttore della  cancelleria;

il verbale deve essere depositato in cancelleria;

può essere opportuno, alla presenza del fallito, procedere ad una ricognizione dei beni redigendo un verbale e, se questo non fosse possibile, procedere a scattare foto dei beni in modo da poter controllare la conformità dello stato dei luoghi  in sede del successivo inventario;

occorrerà adottare tutti gli accorgimenti necessari per la conservazione dei beni in relazione alla loro eventuale deperibilità, al rischio di furto, al rischio d’incendio e ad eventuali altri pericoli, chiedendo nel caso di beni mobili registrati la consegna dei documenti di proprietà e delle chiavi  (si valuterà l’opportunità, caso per caso, di stipulare contratti di assicurazioni e/o  vigilanza).

  • CASSETTO FISCALE

Il Curatore richiede all’Agenzia delle Entrate il rilascio del codice PIN per l’accesso al servizio di “cassetto fiscale” che consente di recuperare le dichiarazioni dei redditi, i contratti registrati ed i modelli di versamento F23 e F24 presentati dal fallito: dati utili per la relazione art. 33 e per la ricerca di beni patrimoniali.

  • CORRISPONDENZA FALLITO (art. 48 L.F.)

Il Curatore segnalerà agli uffici postali, che potrebbero ricevere comunicazioni dirette all’impresa fallita, l’avvenuta dichiarazione di fallimento.

Riceverà dal fallito, persona fisica, la corrispondenza, incluso email e fax, riguardante i rapporti compresi nel fallimento.

  • COMITATO DEI CREDITORI (artt. 40-41 L.F.)

Il Curatore acquisirà la disponibilità dei creditori, ove possibile a mezzo pec, ad essere nominati componenti del Comitato dei Creditori ai sensi dell’art. 40 c. 1 al fine di fornire indicazioni al G.D. in merito alla nomina del Comitato dei Creditori;

segnalerà i nominativi dei creditori, o di altri soggetti da questi designati, che avessero dato disponibilità a ricoprire l’incarico nonché di tutti gli altri creditori allo stato accertati, con indicazione, se possibile, dei relativi crediti;

immediatamente dopo la nomina del Comitato dei Creditori, provvederà a convocarlo affinché si riunisca entro 10 giorni per accettare la carica e per designare il Presidente.

La composizione del Comitato dei Creditori può essere modificata dal GD in relazione alle variazioni dello stato passivo o per altro giustificato motivo.

In ogni caso, il curatore dovrà specificare in ogni istanza al G.D. se il comitato dei creditori sia stato costituito o meno, al fine di consentire al GD di provvedere in surroga (art. 41 c. 4).

  • REDAZIONE INVENTARIO (art.87 L.F.)

Il Curatore avviserà il fallito ed il Comitato dei Creditori, se nominato, della data nella quale sarà redatto l’inventario nel più breve termine possibile; rimuoverà i sigilli e redigerà l’inventario unitamente al Cancelliere ed, eventualmente, allo stimatore designato dallo stesso curatore (art. 87, comma 2, l. fall.).

Redigerà processo verbale delle attività svolte.

Verificherà l’eventuale sussistenza di beni di cui all’art. 87-bis l. fall. (beni gravati da diritti di terzi e beni del fallito in godimento a terzi).

Prima di chiudere l’inventario, chiederà al fallito se esistono altri beni, avvertendolo delle pene previste in caso di falsa dichiarazione (art. 220 l. fall.).

L’inventario deve essere redatto in doppio originale e sottoscritto da tutti gli intervenuti; un originale deve essere immediatamente depositato in cancelleria.

L’inventario deve essere redatto anche se negativo: il fallito deve fare la dichiarazione che non vi sono beni.

Nell’inventario devono essere indicati anche i beni immobili.

  • TRASCRIZIONE DELLA SENTENZA DI FALLIMENTO (art. 88 l. fall.)

In presenza di beni immobili, la sentenza di fallimento andrà trascritta dal curatore, salvo casi particolari ed in presenza di motivate ragioni (ad es. immobili che si trovino fuori del distretto),presso la Conservatoria competente, allegando una copia autentica del provvedimento.

In presenza di beni mobili iscritti nei pubblici registri, la sentenza va notificata ai pubblici registri, allegando l’estratto della sentenza ed indicando chiaramente i numeri di targa degli autoveicoli su cui effettuare la trascrizione (la trascrizione avviene in esenzione da spese).

  • LIBRO GIORNALE (art. 38 l. fall.)

Il Curatore predisporrà il Giornale del Fallimento (c.d. “libro cassa”) e lo farà vidimare, previa numerazione delle pagine, da almeno un componente il Comitato dei Creditori, se costituito, altrimenti operando il principio dell’art. 41 c. 4.

  • ESERCIZIO TEMPORANEO DELL’IMPRESA (art.104 l.f.)

Il Curatore valuterà l’opportunità di proporre la continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa anche limitatamente a specifici rami (art. 104, comma 2, l. fall.) o l’affitto dell’azienda o rami della stessa (art. 104-bis l. fall.), previa acquisizione del parere favorevole del Comitato dei Creditori (si comunicherà in tal caso  agli enti previdenziali e alla C.C.I.A.A. l’avvenuta autorizzazione del Tribunale alla continuazione dell’esercizio dell’impresa o l’affitto dell’azienda o rami di essa).

  • RAPPORTI PENDENTI (artt. 72 ss. l. fall.)

Il Curatore verificherà la situazione dei contratti pendenti alla data del fallimento ai fini delle conseguenti determinazioni (si segnalano i seguenti rapporti contrattuali, maggiormente ricorrenti: contratti preliminari di compravendita immobiliare anche relativi ad immobili da costruire, contratti di locazione finanziaria, contratti di locazione di immobili, contratto di affitto di azienda o rami di essa, contratti di appalto, contratti di assicurazione), valutando l’opportunità di sciogliersi nel termine di giorni trenta.

  • CONTENZIOSO

Per le cause intraprese dal fallito, prima della dichiarazione di fallimento, il Curatore opererà ai sensi dell’art.43 co.3 l.f., valutando l’opportunità di riassumere, entro tre mesi (art.305 c.p.c.), il giudizio chiedendo al GD autorizzazione.

  • SOMME DI PERTINENZA DEL FALLIMENTO (art.34 l.f.)

E’ necessario predisporre apposita istanza al Giudice Delegato per ricevere l’autorizzazione all’apertura del conto corrente intestato alla procedura, producendo proposta contrattuale dell’istituto di credito prescelto, con specifica limitazione dei prelievi all’ordine del Giudice Delegato, e con previsione ad operare per la presentazione del modello F24 in via telematica, come ora previsto per effetto del d.l. n. 66/20124 convertito in l. n. 89/2014 per importi superiori a euro 1.000,00.

Copia dell’estratto conto dovrà essere periodicamente presentato in uno al rapporto riepilogativo nei tempi previsti ex art. 33  c. 5 l.f.

  • ADEMPIMENTI FISCALI

E’ onere del Curatore adempiere ai vari incombenti fiscali imposti per legge.

A seconda del profilo professionale del Curatore potrà essere valutata dal GD l’opportunità di nominare un coadiutore fiscale al fine di procedere a tali adempimenti da parte di un professionista, a tal fine nominato su richiesta del Curatore.

Con riferimento a tali adempimenti, a titolo meramente esemplificativo e salvo l’avvicendarsi degli aggiornamenti normativi, si segnala l’esistenza di un documento denominato: “Adempimenti fiscali del Curatore fallimentare” reperibile al link: http://www.tribunale.cosenza.giustizia.it/doc/modulistica/proc_conc-mod_curatori/adempimenti_fiscali_del_curatore.pdf

  • 33 L.F.

Come noto, l’art. 33 comma 1 l.f. prevede che il curatore entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento presenti al giudice delegato una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa, sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale.

Se si tratta di società la relazione deve esporre i fatti accertati e le informazioni raccolte sulla responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e eventualmente di estranei alla società.

Pre-relazione

Atteso che in ragione dell’esiguità del termine previsto non sempre è possibile l’elaborazione di relazione completa,  i curatori saranno comunque tenuti, entro il termine di 60 giorni, al deposito di relazione sommaria, che orientativamente fornisca le prime indicazioni, relazionando sulle attività compiute (a titolo meramente esemplificativo: apposizione dei sigilli, inventario, convocazione ed audizione del fallito, individuazione dei creditori e di debitori, comunicazione ad istituti di credito, tracciatura delle comunicazioni postali, acquisizione ed esame delle scritture contabili, apertura del cassetto fiscale, accertamenti presso il PRA e conservatoria) e sui  riscontri ottenuti (art. 33 c. 2).

Prima Relazione

Nei successivi  60 giorni il curatore depositerà la relazione con le modalità previste per il PCT, anche tenuto conto delle valutazioni contabili effettuate, se necessario per il tramite di un consulente,  provvedendo a depositare anche copia cartacea, con allegata eventuale relazione del suddetto consulente su supporto informatico (CD o equivalente) per il P.M.

La prima relazione ex art. 33 indicherà:

  • le generalità complete e l’attuale domicilio del fallito, ovvero degli amministratori, degli amministratori di fatto se riscontrati, dei sindaci e dei liquidatori nel caso in cui il fallimento riguardi società;
  • l’accesso alla sede legale e alle eventuali sedi operative dell’impresa;
  • le dichiarazioni rese dall’imprenditore in merito alle cause del fallimento;
  • quali scritture contabili sono state consegnate o comunque rinvenute;
  • le eventuali cause pendenti;
  • i contratti pendenti;
  • se esistono atti di disposizione suscettibili di revocatoria;
  • l’attivo rinvenuto o da recuperare;
  • prospettazione in ordine ai tempi di predisposizione del programma di liquidazione;
  • eventuale acquisizione di elementi (documentali e/o testimoniali) tali da far ritenere che l’attività d’impresa fosse diretta da un imprenditore/amministratore di fatto;
  • prime informazioni sull’entità del passivo, tipologie dei debiti ed epoca di formazione;
  • cause dello stato di dissesto;
  • informazioni su eventuali condotte distrattive ed elementi utili ai fini delle valutazioni in ordine alla responsabilità civile e penale dell’imprenditore;
  • se non siano stati rinvenuti in sede di inventario beni che, invece, risultavano essere nella disponibilità del  soggetto fallito;
  • se risultino cessioni di beni o di azienda, o di rami della stessa per valori incongrui o a favore di persone fisiche o giuridiche riconducibili alla medesima compagine sociale del fallito o a soggetti collegati;
    • se sussistono elementi tali da far ritenere l’eventuale prosecuzione, da parte del fallito, anche per interposta persona, di attività di impresa;
    • l’eventuale presenza di soci occulti.

 Rapporto Riepilogativo Periodico

Ai sensi dell’art. 33 c. 5 il Curatore ogni sei mesi, successivi alla presentazione della prima relazione, redigerà un rapporto riepilogativo delle attività svolte, con indicazione di tutte le informazioni raccolte e delle ragioni che ostano alla chiusura della procedura (a titolo esemplificativo: esistenza di giudizi pendenti e stato degli stessi, attività di liquidazione dell’attivo ancora in corso), accompagnato dal conto della gestione, allegando copia dell’estratto conto relativo al conto corrente intestato alla curatela, ove attivato.

Il curatore provvederà alla trasmissione del rapporto dei relativi allegati ai soggetti e nei tempi di cui all’art. 33 c. 5 ultimo capoverso.

ACCERTAMENTO DEL PASSIVO

  • AVVISO AI CREDITORI (art.92 l.f.)

Il Curatore ha l’onere di dare comunicazione ai creditori ed ai titolari di diritti reali o personali sui beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del fallito risultanti tali dalle scritture o comunque  da altre informazioni, e comunque ad altri uffici e/o enti potenzialmente interessati (es. INAIL, INPS, Riscossione Sicilia, ecc…), della data fissata per l’esame dello stato passivo, nonché del termine e delle  modalità per presentare le domande d’ammissione al passivo (artt. 92 e 93 L.F.).

La comunicazione andrà  effettuata: a) a mezzo PEC, se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (eventualmente reperibili ai link: www.inipec.gov.it/cerca-pec/-/pecs/companies); b) in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore.

Il Curatore avrà particolare cura di invitare il creditore ad indicare l’indirizzo di PEC al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura, con espresso onere di comunicarne anche le variazioni e con l’espresso avvertimento che, in mancanza, tutte le comunicazioni saranno eseguite  esclusivamente mediante deposito in cancelleria.

2) PREVISIONE DI INSUFFICIENTE REALIZZO (ART.102 L.F.)

Il Curatore valuteerà l’opportunità di procedere ai sensi dell’art. 102 l.f., nell’eventualità in cui non stimi plausibile la realizzazione di alcun attivo, né la convenienza di un’eventuale azione di responsabilità ex at. 146 l.f.

In ogni  caso, dovrà comunque, preliminarmente, depositare relazione ai sensi dell’art. 33 l.f.

3)         VERIFICA DELLO STATO PASSIVO (art.95 l.f.)

Il Curatore avrà cura di depositare l’elenco cronologico delle domande secondo l’ordine di trasmissione, nonché  il progetto di stato passivo, corredato dalle relative domande, verificando che le stesse risultino caricate al SIECIC con apposita numerazione ed indicazione del creditore istante e che i documenti prodotti – il cui oggetto verrà specificamente evidenziato – siano ordinatamente inseriti in allegato a ciascuna domanda.

Il Curatore dovrà prendere posizione sulle domande e sulle osservazioni formulate da ciascun creditore tenendo conto delle presenti linee guida, avendo cura di verificare che non vi siano aggiornamenti a riguardo.

Si invitano i Curatori a evidenziare, già in seno al progetto, la necessità che eventuali osservazioni allo stesso e i relativi documenti siano trasmessi fino a cinque giorni prima dell’udienza fissata per la verifica dello stato passivo.

Il Curatore depositerà copie cartacee di cortesia delle domande e dei relativi allegati e delle eventuali osservazioni.

  • 1. Sulle udienze di verifica:

1.1. la verifica, di norma, avverrà in un’unica udienza (quella fissata con la sentenza di fallimento, ovvero dal giudice delegato per le tardive).

1.2. l’udienza di verifica potrà essere rinviata:

  1. a) su richiesta del curatore, in presenza di nuove deduzioni delle parti o nuovi documenti prodotti dalle parti all’udienza stessa;
  2. b) d’ufficio, quando il curatore non abbia depositato il progetto di stato passivo nei quindici giorni precedenti all’udienza;
  3. c) su richiesta dei creditori, quando il curatore abbia sollevato, ovvero il giudice delegato abbia rilevato d’ufficio, nuove eccezioni (di rito o di merito) non formulate precedentemente nel progetto di stato passivo;
  • 2. Sulle domande tardive

2.1. l’udienza per l’esame delle tardive fissata dal Giudice Delegato va comunicata a tutti i creditori tardivi almeno trenta giorni prima della stessa;

2.2. è in facoltà del Giudice Delegato fissare l’udienza per l’esame delle tardive anche in seno al verbale dell’udienza di verifica delle tempestive, fermo restando l’onere a carico del curatore di comunicazione di detta udienza a tutti i creditori tardivi;

2.3 l’udienza di verifica va sempre fissata anche per l’esame delle sole domande c.d. supertardive (depositate oltre l’anno dal deposito dello stato passivo).

  • 3 Sulle spese :

Possono essere riconosciute: a) per l’istanza di insinuazione a titolo di rimborso spese borsuali € 150,00 al chirografo; b) per l’istanza di fallimento € 300,00, con il privilegio generale mobiliare, ove richiesto (cfr. Cassazione civile,  sez. I, 31/01/2014, n.2112).

  • 4 Sulla documentazione probatoria a corredo delle istanze
    • Titoli
  1. decreto ingiuntivo (anche in copia), purché definitivamente esecutivo prima della dichiarazione di fallimento, munito quindi della dichiarazione di esecutorietà (Cassazione civile sez. I, 17 gennaio 2014, n.1650); per il precetto spese indicate in precetto solo se è stata tentata (anche con esito negativo) l’esecuzione forzata ai danni del fallito;
  1. sentenza di condanna anche non definitiva (anche in copia), purché depositata prima della dichiarazione di fallimento;
  2. assegni e cambiali sempre in originale (cfr. 44 legge assegni);
  3. contratto rogato da notaio o scrittura privata autenticata (anche in copia).

4.2)  Documenti provenienti dal creditore o nella sua disponibilità:

  1. fattura (anche in copia), purché sempre corredata dal documento di trasporto, salvo che trattasi di fattura accompagnatoria; documenti sottoscritti dal destinatario ovvero anche solo dal vettore. Irrilevante l’estratto autentico delle scritture contabili. Nei confronti del curatore non ci si può avvalere dell’efficacia probatoria riconosciuta ai libri contabili ex artt.2709 e 2710 cc (Cassazione, sez. VI ord. 23-04-2013 n. 9764). Saranno dovuti gli interessi ex d. lgs. n. 231/2002 fino alla data di fallimento;
  2. estratti conto bancari, anche scalari, purché sempre completi dall’inizio del rapporto e fino alla chiusura, accompagnati dal contratto di conto corrente, ovvero dal contratto di conto anticipi o dal contratto di sconto; occorrerà verificare il rispetto del c.d. tasso soglia considerate anche le c.m.s. a decorrere dal 1.1.2010 (circolare della Banca d’Italia sulla applicazione della legge n. 2/2009); irrilevante la dichiarazione ex art. 50 d.lgs. 385/1993;
  3. contratto di mutuo e relativo piano di ammortamento; nel caso di mutuo ipotecario il creditore dovrà allegare il calcolo eseguito ai sensi dell’art. 2855 c.c. e il credito andrà ammesso secondo i criteri stabiliti dall’art. 54 u.c. l.f.;
  4. contratti di somministrazione relativi a luce, acqua, gas, ovvero concernenti servizi pubblici erogati da gestori pubblici o concessionari, sempre corredati dalle fatture;
  5. documentazione attestante la prestazione intellettuale resa dal professionista (atti processuali, elaborati progettuali, consulenze tecniche, dichiarazioni fiscali etc.); senza necessità di parcella vistata dall’ordine competente;
  6. contratto di lavoro, CCNL se applicato, CUD, buste paga, comunicazioni UNILAV, lettere di assunzione e/o di licenziamento o dimissioni, estratti contributivi.

Le buste paga sono da considerarsi sufficienti a dimostrare quanto dovuto per retribuzione ordinaria e lavoro straordinario, nonché per le voci accessorie, se prodotto contratto collettivo di riferimento del quale risulti dimostrata la vincolatività.

Il CUD comproverà il tfr maturato, la cui misura potrà essere dimostrata anche mediante la produzione dell’ultima busta paga, se provata la durata del rapporto di lavoro (mediante la produzione di contratto di lavoro e/o comunicazione unilav e/o estratti contributivi).

La lettera di licenziamento sarà sufficiente a dimostrare il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, se risulterà  non concesso. Quanto all’ammontare della suddetta indennità si farà riferimento alla disciplina collettiva.

La suddetta documentazione non sarà sufficiente a provare il diritto all’indennità sostitutiva di ferie e riposi non goduti nel caso in cui non risultino prodotte tutte le buste paga fino a quella relativa all’ultimo mese del rapporto di lavoro.

  1. g) scritture private contenenti riconoscimento di debito, purché con data certa anteriore al fallimento desumibile da elementi non riferibili al fallito (cfr. Cassazione civile sezione III, 17 gennaio 2014, n.883) (a titolo esemplificativo, quanto alla data certa, da protesto del titolo; da timbro postale a secco (non adesivo) apposto sulla medesima pagina contenente la scrittura; da registrazione della scrittura; dalla morte o dall’impedimento permanente del soggetto che ha apposto la sottoscrizione);
  2. h) contratti di leasing; piano di ammortamento che indichi le rate pagate e quelle insolute, nonché la sorte capitale distinta dagli interessi; eventuale comunicazione di risoluzione del contratto avente data certa anteriore al fallimento (ad es. racc. con avviso di ricevimento regolarmente recapitata al destinatario). Nel caso in cui il contratto sia stato risolto prima del fallimento non trova applicazione la disciplina dell’art. 72 quater l.f. (cfr. Cass. Civ. Sez. 3, Sentenza n. 11293 del 2011 e, in senso analogo, Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 9488 del 2013) e sarà necessario determinare la natura del leasing, se traslativo o di godimento, al fine di applicare, nel caso di leasing traslativo, la disciplina dell’art.1523 c.c. con conseguente obbligo per il creditore di restituire le rate riscosse e considerata l’avvenuta restituzione del bene, salvo il riconoscimento di un “equo compenso” per il godimento del bene, essendo invece esclusa la ripetibilità dei canoni in caso di leasing di godimento (cfr. tra le più recenti Cass. n. 19732/2011; cfr. ad es. Cass. n. 23324/11; Cass. n.73/2010).

Nell’ipotesi, invece, in cui il rapporto sia pendente alla data del fallimento, troverà applicazione la disciplina dell’art.72 quater ed il Curatore, prima della verifica, dovrà prendere posizione in ordine all’opportunità di sciogliersi o meno dal rapporto.

4.3) Domande di Riscossione Sicilia S.p.A. o di altri agenti per la riscossione

In virtù di quanto previsto dalla normativa vigente, precisamente dall’art.87 2° comma del  D.P.R. n. 602 del 1973, novellato da D.Lgs. n. 46 del 1999,  l’istanza di ammissione al passivo di:

  1. a) Tributi la cui cognizione è riservata alla Commissione tributaria (IRPEF, IRPEG, IRE, IRES, IVA, contributo SSN, ILOR, TOSAP, IRAP, TARSU, TIA, ICI, BOLLO auto, etc.) può essere presentata sulla base del solo ruolo che, in difetto di specifiche contestazioni da parte del curatore, costituisce prova del credito senza che occorra la previa notifica della cartella esattoriale, né la sua definitività al momento del fallimento. (Cass. sez. VI, 20/11/2014 n. 24736; id. I 17/03/2014  n. 6126);
  2. b) Contributi Previdenziali e Premi Assicurativi

Ciò vale anche quando trattasi di crediti iscritti a ruolo rientranti nella giurisdizione dell’AGO (enti impositori INPS, INAIL, CASSA EDILE, etc.), (cfr. Cass. Civ. sez VI ord. 28.6.2012, n.11014).

  1. c) Aggio, Diritti di Notifica e Interessi di Mora

Sarà in ogni caso necessario verificare l’avvenuta notifica delle cartelle di pagamento al soggetto fallito in bonis, solo in tal caso potendo essere ammessi al passivo aggio – sempre al chirografo (Cassazione civile sez. I 10/05/2013, n.11230) – diritti di notifica e interessi di mora, successivi alla notifica;

  1. d) Diritti di Tabella

In caso di produzione del solo ruolo o di notifica della cartella alla curatela, vanno  riconosciuti solo i diritti di tabella;

  1. e) Eccezioni di merito

In caso di crediti rientranti nella cognizione dell’AGO sarà possibile formulare contestazioni ed eccepire la prescrizione dei crediti.

Anche in caso di notifica della cartella al soggetto fallito in bonis sarà possibile eccepire la c.d. prescrizione su prescrizione, decorrente dalla data di compimento della notifica. Il termine di prescrizione, anche in tal caso, sarà da ritenersi quinquennale: la decorrenza del termine per l’opposizione, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione (cfr. Cass. n.12263/07 in tema di ingiunzione fiscale, nonché Cass. sez. un. 10.12.2009 n. 25790 alle cui argomentazioni di ordine sistematico si rinvia).

LIQUIDAZIONE DELL’ATTIVO

 PROGRAMMA DI LIQUIDAZIONE (art.104 ter l.f.)

Possibilmente entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, il Curatore deve predisporre un “programma di liquidazione” tenendo conto – oltre a quanto previsto dalla legge fallimentare – che:

  1. a) Il programma deve indicare, in una prospettiva di valutazione globale, le modalità di liquidazione dell’attivo: ciò significa che debbono essere evitate parcellizzazioni delle proposte di liquidazione (es. prima beni immobili, poi beni mobili, poi azioni giudiziarie), al fine di consentire una valutazione nell’insieme, consapevole ed organica della convenienza delle attività proposte;
  2. Il programma va sottoposto all’approvazione del Comitato dei creditori e, ove questo manchi, a quella del GD ex art.41 co.4 l.f.

In seguito, il Curatore dovrà chiedere al GD l’autorizzazione a compiere gli atti in conformità al programma;

  1. solo nelle eccezionali ipotesi di cui all’art.104 ter c.7 l.f. potrà procedersi ad attività liquidatorie prima dell’approvazione del programma di liquidazione: il Curatore dovrà quindi avere cura di esplicitare e motivare l’eventuale istanza depositata in tal senso;
  2. se non si intende acquisire all’attivo uno o più beni oppure se si intende rinunciare alla loro liquidazione è possibile ottenere l’autorizzazione in tal senso da parte del Comitato dei Creditori;
  3. il Curatore dovrà avvertire tutti i creditori di tale rinuncia;
  4. è possibile elaborare un supplemento del programma di liquidazione (art.104 ter c.5 l.f.) in caso di sopravvenute esigenze, a titolo esemplificativo in caso di richieste di vendita a condizioni diverse da quelle indicate nel programma di liquidazione, o di richieste di atti e/o attività non indicate nel programma di liquidazione da far approvare con le modalità in precedenza illustrate;
  5. per la liquidazione dei beni immobili, che siano già stati oggetto di procedure esecutive prima della dichiarazione di fallimento, è possibile prevedere la prosecuzione della liquidazione da parte del GE (art.107 co.6 l.f.), specie quando si tratti di bene indiviso solo parzialmente appreso alla massa, valutando, in ogni caso, la convenienza della prosecuzione della vendita in sede esecutiva piuttosto che fallimentare, considerati i relativi costi e la previsione dei tempi delle rispettive procedure.

Nell’ipotesi in cui l’azione esecutiva prosegua per la determinazione del creditore fondiario, prima di spiegare intervento, appare opportuno valutare in concreto l’effettiva sussistenza di un potenziale utile per la massa tenendo in considerazione il valore dell’immobile e l’importo del credito del creditore fondiario;

  1. prima di procedere al recupero coattivo del credito o ad intraprendere altre azioni legali, allo scopo di non gravare la procedura di inutili spese, è necessario accertarsi: 1) che il credito sia sufficientemente documentato (fattura, D.D.T., ecc.); 2) che la pretesa sia fondata; 3) che il soggetto contro cui si intende agire sia solvibile;
  2. per la liquidazione dei beni mobili è possibile procedere anche con modalità non normativamente codificate (es. aste telematiche): devono tuttavia e comunque sempre essere assicurate adeguate procedure competitive (art.107 l.f.) con idonee forme di pubblicità per garantire la massima trasparenza, partecipazione ed informazione agli interessati.

SPESE DI GESTIONE

I crediti in prededuzione relativi alla gestione della procedura andranno posti a carico dell’Erario (art. 144 del d.p.r. n. 115/2002), in mancanza di fondi, con espressa avvertenza che, non appena vi siano disponibilità, dovrà procedersi al pagamento del campione.

Sarà cura del Curatore precisare, in sede di parere sulle istanze dei professionisti, se il fallimento ha fondi, in che misura, se vi siano crediti in prededuzione ancora da soddisfare, tendenzialmente risultando preferibile effettuare il pagamento al primo riparto parziale, salva l’autorizzazione al rimborso di spese vive.

RIPARTI PARZIALI

Non appena sia acquisito attivo sufficiente ad eseguire un riparto parziale dei creditori, il Curatore provvederà con sollecitudine a depositare il relativo piano al G.D., indicando l’attivo complessivo allo stato conseguito, le somme che ritiene di accantonare per la prosecuzione della procedura, ai sensi dell’art.113 l.f. e, comunque, considerando i crediti in prededuzione che matureranno e le ulteriori spese necessarie fino alla chiusura.

Le comunicazioni del riparto ai creditori, eseguite a mezzo pec, e gli avvisi di ricevimento delle raccomandate, con le quali vengono spediti gli assegni circolari ai creditori, in esecuzione del piano di riparto, andranno depositate presso la cancelleria del G.D. in originale. Al fine di consentire al G.D. di verificare a quale creditore si riferisca ciascuna comunicazione, nell’ipotesi di indirizzo pec di un soggetto diverso dal creditore (esempio professionista cui sia stata conferita la procura), dovrà indicarsi nella comunicazione il nominativo del creditore così come ammesso al passivo. Il Curatore, per ogni riparto, dovrà allegare l’elenco dei creditori ammessi al passivo per consentire al G.D. di verificare che le comunicazioni siano state eseguite a tutti i creditori ammessi.

Anche per il riparto finale si osserveranno le superiori indicazioni.

RENDICONTO FINALE DI GESTIONE

Una volta conclusa l’attività di gestione e, comunque prima della chiusura della procedura, o nel caso di cessazione dalla carica avvenuta nel corso della procedura, il Curatore presenterà il conto finale della gestione avendo cura di elencare, nel dettaglio, sia le entrate che le uscite, nonché le somme anticipate non ancora rimborsate, il fondo spese e gli eventuali acconti sul compenso ricevuti. Non è sufficiente allegare il giornale del fallimento e farvi riferimento per relationem. Prima di presentare il rendiconto finale, anche se non vi sia attivo o lo stesso sia insufficiente, il Curatore verificherà che tutti i creditori in prededuzione abbiano presentato istanza di liquidazione (in genere professionisti) assegnando loro un termine entro cui depositare l’istanza. Tutti i compensi liquidati vanno inseriti in rendiconto, anche se il pagamento sia a carico dell’Erario. Il Curatore segnalerà l’omessa presentazione dell’istanza di liquidazione da parte del professionista, giacchè non si procederà a liquidazioni successive al deposito del rendiconto finale.

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TERMINE PER LA NOTIFICA DELL’ORDINANZA INGIUNZIONE DEL PREFETTO

Corte di Cassazione n. 25690 del 4.12.2009

 FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato il 3.9.04 C. A. proponeva opposizione all’ordinanza ingiunzione n. (OMISSIS) – emessa dal Prefetto di (OMISSIS) a seguito di reiezione del ricorso amministrativo avverso il verbale di contestazione della Polizia Municipale di (OMISSIS) n. (OMISSIS) per infrazione dell’art. 142 C.d.S., comma 8 chiedendone l’annullamento, perchè emessa oltre il termine perentorio di 120 giorni stabilito dall’art. 204 C.d.S., comma 1, decorrente dalla data di ricezione degli atti da parte dell’Ufficio accertatore, contestando altresì la decurtazione dei “punti” dalla patente di guida e la mancata contestazione immediata, nonchè l’erronea indicazione della decurtazione dei punti dalla patente di guida indicata nel verbale di contestazione dell’infrazione in misura di 10 anzichè di 2.

Il Giudice di pace di (OMISSIS) con sentenza n. (OMISSIS), depositata il 3.2.05, rigettava il ricorso e compensava alle spese.

Per la cassazione della decisione ricorre l’opponente esponendo quattro motivi:

  1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 126 bis, 142, 200, 201, 203 e 204 C.d.S., degli artt. 116, 119, 342, 345, 383, 384, 385 relativo Regolamento e succ. mod., artt. 3, 24, 97 Cost. nonchè difetto di motivazione, L. n. 241, artt. 3 e 7, nel punto in cui ha ritenuto che l’ordinanza prefettizia era stata emessa nel termine all’uopo previsto dalla normativa in materia.

Sostiene il ricorrente che, avendo inoltrato in data 2.12.03 al Comando dei Vigili Urbani di (OMISSIS) il ricorso amministrativo al Prefetto e avendo lo stesso Comando trasmesso già in data 16.12.03 lo stesso ricorso al Prefetto, l’Organo di Autogoverno avrebbe dovuto adottare la sua decisione nel termine di 120 giorni decorrenti dalla stessa data di recezione del ricorso; viceversa, la decisione era stata adottata solo in data 5.5.04, vale a dire oltre il termine previsto dalla menzionata norma;

  1. violazione delle stesse disposizioni di legge e falsa applicazione delle medesime, nonchè difetto di motivazione, nel punto in cui ha ammesso la decurtazione dei punti dalla patente di guida anche nel caso di mancata comunicazione all’Autorità amministrativa competente delle generalità del trasgressore, in violazione del disposto della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 27 del 2005, considerando, invece, la sanzione di decurtazione dei punti un caso di responsabilità oggettiva a carico del proprietario del veicolo e, comunque, anche nel caso di mancata contestazione immediata dell’infrazione rilevata con mezzo di autovelox in assenza dell’operatore di Polizia.
  2. violazione delle stesse disposizioni di legge e falsa applicazione delle medesime, nonchè difetto di motivazione nel punto in cui ha irrogato il provvedimento di decurtazione dei punti dalla patente di guida in assenza di espressa segnaletica di limitazione della velocità nel tratto di strada indicato nel relativo verbale di infrazione;
  3. violazione delle stesse disposizioni di legge, per assenza del requisito di atto pubblico del verbale di contestazione in assenza della firma del Comandante del corpo o di chi per esso in calce al verbale al medesimo, necessaria perchè l’atto assuma il valore di atto assistito dalla presunzione di fede pubblica.
    Il ricorso è infondato.

Ben vero, il giudice di pace ha fornito ampia e motivata risposta ai quattro quesiti riproposti con il ricorso, significando, quanto al primo motivo, che le due fasi del procedimento amministrativo di ricorso al Prefetto non sono autonome, bensì costituiscono ripartizioni di un unico procedimento destinato a concludersi nel termine complessivo di giorni 180 dalla sua proposizione.

Ed infatti, è principio di diritto ormai consolidato in giurisprudenza di legittimità che i termini di cui ai all’art. 203 C.d.S., commi 1 bis e 2 e all’art. 204 C.d.S., comma 1 sono perentori e si cumulano fra loro ai fini della valutazione di tempestività dell’adozione dell’ordinanza – ingiunzione, nel senso che la cumulabilità dei due termini consente al Prefetto di usufruire, per il complessivo svolgimento della sua attività di accertamento e decisione, del tempo massimo previsto dalla somma delle due scansioni operative, ovvero di 60 giorni per la raccolta dei dati e le deduzioni degli accertatori e di 120 giorni per l’emissione del provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa, senza che, a tal fine, abbia alcuna incidenza sul computo totale di 180 giorni l’eventuale trasmissione anticipata degli atti di competenza da parte dell’organo accertatore (Cass. Civ. Sez. 2^ 9 giugno 2009 n. 13303).

Parimenti è a dirsi in ordine al secondo e terzo motivo di ricorso, ove si osservi che non è in discussione il rilevamento attraverso apparecchio elettronico della velocità debitamente omologato nel tratto di strada individuato con decreto prefettizio del 4.11.02, ne’ può essere messa in discussione l’apposizione della relativa segnaletica nello stesso punto di rilevamento della velocità in assenza della querela di falso di un atto fidefaciente.

Ed invero, il D.L. 27 giugno 2003, n. 151, anteriore all’accertamento del fatto, ha individuato una serie di casi, fra cui quello in discussione, nei quali non è necessaria la contestazione immeditata come richiesta dal ricorrente.

Infine, è stata data risposta alla doglianza dell’erronea indicazione in verbale di constatazione dell’infrazione della decurtazione di 10 punti della patente in luogo dei 2 punti previsti nella norma di riferimento, rilevando che l’ordinanza prefettizia aveva rilevato l’erronea indicazione, provvedendo alla relativa riduzione della comminata decurtazione da punti 10 a 2.

Stante alla lettera della sentenza impugnata costituisce doglianza nuova e perciò inammissibile, in sede di gravame la questione attinente alla sottoscrizione del verbale di contestazione.

Il ricorso va quindi, rigettato perchè infondato, mentre l’assenza dell’intimato esime della statuizione sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

____________________________________________________________________________________________________________

Corte Cassazione Civile, sezione seconda – Sentenza n. 25650/2010

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’avv. D. L. F. propose opposizione a ordinanza ingiunzione del Prefetto di (OMISSIS) relativa a sanzione amministrativa per violazione del codice della strada (sosta in parcheggio a pagamento senza esporre la ricevuta del pagamento stesso).

Il Giudice di pace di (OMISSIS) respinse l’opposizione e la sua sentenza fu confermata in grado di appello dal Tribunale.

L’avv. D. L. ha quindi proposto ricorso per cassazione per tre motivi, cui non ha resistito l’autorità intimata.

La causa, inizialmente avviata alla procedura camerale ai sensi dell’art. 375 c.p.c., è stata poi rimessa alla pubblica udienza con ordinanza collegiale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Con il primo motivo di ricorso vengono svolte Le seguenti censure:
    a) si ripropone la questione della nullità dell’ordinanza ingiunzione per difetto di motivazione;
    b) si lamenta la violazione del diritto di difesa, nella fase del ricorso al Prefetto, per la mancata esibizione al ricorrente delle controdeduzioni dell’organo accertatore.

1.1. – La censura sub a) è infondata, avendo le Sezioni Unite di questa Corte chiarito che, in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative – emessa in esito al ricorso facoltativo al prefetto ai sensi dell’art. 204 C.d.S., ovvero a conclusione del procedimento amministrativo L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 18 – i vizi di motivazione in ordine alle difese presentate dall’interessato in sede amministrativa non comportano la nullità del provvedimento, e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia che le stesse investano questioni di diritto sìa che investano questioni di fatto (sentenza n. 1786 del 2010).

1.1. – La censura sub b) è inammissibile.

Invero una censura siffatta non risulta, dallo stesso ricorso per cassazione, dedotta nel giudizio di primo grado. Il medesimo ricorso la menziona soltanto a fondamento dell’atto di appello, ma correttamente la sentenza del Tribunale non le da risposta, dato che deve considerarsi censura, già in quella sede, nuova e dunque inammissibile.

  1. – Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 203 e 204 C.d.S., si lmenta:
    a) che il giudice di appello non abbia disposto l’esibizione delle controdeduzioni della Polizia Municipale di (OMISSIS), autrice del verbale di accertamento e consegnataria del ricorso al Prefetto dell’avv. D. L.: esibizione richiesta dall’appellante al fine di dimostrare la tardività dell’ordinanza ingiunzione emessa il 23 novembre 2006 a seguito di ricorso presentato il 16 giugno dello stesso anno alla Polizia Municipale e che quest’ultima ben poteva aver rimesso alla prefettura in data anteriore alla scadenza del termine massimo di 60 giorni, di cui all’art. 203 C.d.S., comma 2, e dalla quale doveva calcolarsi il termine di 120 giorni concesso al Prefetto dall’art. 204 C.d.S., comma 1;
    b) che non si sia tenuto conto, nel computo del termine di 120 giorni per l’adozione dell’ordinanza ingiunzione, anche del tempo trascorso fra l’emissione della stessa e la sua presentazione all’ufficio postale per la notificazione.

2.1. – Nessuna delle due censure può trovare accoglimento.

Invero, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni di norme del codice della strada cui sia applicabile – come nella specie – la nuova disciplina introdotta dal D.L. 27 giugno 2003, n. 151, conv., con modif., nella L. 1 agosto 2003, n. 214, la nuova disposizione prevista dall’art. 204 C.d.S., comma 1 bis – secondo cui i termini di cui all’art. 203, commi 1 bis e 2 e allo stesso art. 204, comma 1 sono perentori e si cumulano fra loro ai fini della valutazione di tempestività dell’adozione dell’ordinanza ingiunzione – deve intendersi nel senso che la cumulabilità dei due termini consente al prefetto di usufruire, per il complessivo svolgimento della sua attività di accertamento e decisione, del tempo massimo previsto dalla somma delle due scansioni operative, ovvero di 60 giorni per la raccolta dei dati e le deduzioni degli accertatori e di 120 giorni per l’emissione del provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa, senza che, a tal fine, abbia alcuna incidenza sul computo totale di 180 giorni l’eventuale trasmissione anticipata (ovvero prima della scadenza del termine massimo prescritto di 60 giorni) degli atti di competenza da parte dell’organo accertatore (Cass. 13303/2009). Conseguentemente nessun rilievo poteva avere l’accertamento, nel giudizio davanti al Tribunale, della data di ricezione degli atti da parte del Prefetto.

Quanto, poi, alla censura sub b), va ribadito che ai fini del rispetto del termine in questione è sufficiente la semplice emissione dell’ordinanza del Prefetto e non è necessaria la sua notifica (cfr., da ult., Cass. 9420/2009, 15171/2008).

  1. – Il ricorso va in conclusione respinto. Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali, in mancanza di attività difensiva della parte intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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Corte di Cassazione Civile sez. II 6/6/2011 n. 12219

Sanzioni amministrative per violazione delle norme sulla circolazione stradale – termine entro il quale il prefetto deve emettere lordinanza ingiunzione

In tema di sanzioni amministrative per violazione delle norme sulla circolazione stradale, il termine entro il quale il prefetto deve emettere l’ordinanza ingiunzione – vigenti gli artt. 203, comma 2, e 204 del codice della strada, come modificati dal d.l. n. 151 del 2003, conv., con modificazioni, nella legge n. 214 del 2003 – è complessivamente di 180 giorni, giacchè al termine di 120 giorni, previsto dall’art. 204, deve essere aggiunto quello di 60 giorni, stabilità dal precedente art. 203, per la trasmissione degli atti al prefetto da parte del comando accertatore al quale viene presentato il ricorso. Ai fini del rispetto del termine entro cui il prefetto deve emettere l’ordinanza ingiunzione è, poi, sufficiente la semplice emissione – e non la notifica – dell’ordinanza suddetta (Cass., Sez. II, 21 aprile 2009, n. 9420).

(omissis)
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
M. L., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. L. M., elettivamente domiciliata nel suo studio in Roma, via F. M., n. 45;

contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, per legge, dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata presso gli Uffici di questa in Roma, via dei P., n. 12;

contro ricorrente
per la cassazione della sentenza del Tribunale di Torino . n. 1396 del 23 febbraio 2009.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11 marzo 2011 dal Consigliere relatore Dott. A. G.;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. R. F. G., che ha concluso: “nulla osserva”.
Rilevato che il consigliere designato ha depositato, in data 24 dicembre 2010, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ.: “Il Giudice di pace di Torino le aveva ingiunto il pagamento delle somme dovute a titolo di sanzioni amministrative per violazioni dell’art. 7 del codice della strada, per aver circolato nella zona ZTL di Torino, in data 10 settembre 2004, senza averne titolo.
Il Tribunale di Torino, giudicando in grado di appello ha respinto il gravame della M.
Per la cassazione della sentenza del Tribunale la M. ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi.
L’intimata Amministrazione ha resistito con controricorso.
Preliminarmente, non sussiste la dedotta nullità del ricorso perché rivolto al Ministro dell’interno – Ufficio territoriale del Governo di Torino, in persona del Ministro pro tempore, anziché al Prefetto. Invero, la medesima parte era stata così evocata nel grado di appello e, dal testo della sentenza impugnata, non consta che il Ministero, costituitosi per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, abbia lamentato l’erronea individuazione del soggetto legittimato passivamente.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 204 del codice della strada, in relazione al termine massimo di 210 giorni entro il quale il Prefetto di Torino avrebbe dovuto, a pena di decadenza, provvedere si ricorsi avanzati ai sensi dell’art. 203 del medesimo codice.
Il motivo – scrutinabile nel merito perché corredato da idoneo quesito di diritto – è fondato.
In tema di sanzioni amministrative per violazione delle norme sulla circolazione stradale, il termine entro il quale il prefetto deve emettere l’ordinanza ingiunzione – vigenti gli artt. 203, comma 2, e 204 del codice della strada, come modificati dal d.l. n. 151 del 2003, conv., con modificazioni, nella legge n. 214 del 2003 – è complessivamente di 180 giorni, giacchè al termine di 120 giorni, previsto dall’art. 204, deve essere aggiunto quello di 60 giorni, stabilità dal precedente art. 203, per la trasmissione degli atti al prefetto da parte del comando accertatore al quale viene presentato il ricorso. Ai fini del rispetto del termine entro cui il prefetto deve emettere l’ordinanza ingiunzione è, poi, sufficiente la semplice emissione – e non la notifica – dell’ordinanza suddetta (Cass., Sez. II, 21 aprile 2009, n. 9420).
E’ pacifico che nella specie al termine di 180 giorni dovesse aggiungersi – ai sensi dell’art. 204, comma 1-ter, del codice della strada – l’ulteriore termine di 30 giorni, derivante dalla sospensione del termine per essere stata disposta, con raccomandata del 3 giugno 2005, l’audizione dell’interessata.
Nella specie, poiché – pacificamente – il termine decorreva dal 10 marzo 2005 (data nella quale l’ufficio accertatore ha ricevuto l’opposizione indirizzata al Prefetto), il termine di 210 giorni (180 giorni + 30 giorni) andava a scadere il 6 ottobre 2005.
Perciò l’emissione delle ordinanze il 7 ottobre 2005 è da ritenere tardiva.
L’accoglimento del primo mezzo determina l’assorbimento degli altri due motivi.
Sussistono, pertanto, le condizioni per la trattazione del ricorso in camera di consiglio”.
Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra, alla quale non sono stati mossi rilievi critici;
che, in particolare, va sottolineato che dal testo della sentenza impugnata e dalle difese delle parti risulta essere pacifico che nel caso di specie al termine di 180 giorni dovesse essere aggiunto il termine di trenta giorni, pari al periodo di sospensione decorrente dalla notifica dell’invito alla ricorrente per la presentazione all’audizione alla data fissata per l’audizione stessa;
che, pertanto, il ricorso deve essere accolto;
che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con l’accoglimento della proposta opposizione e l’annullamento dell’ordinanza-ingiunzione opposta;
che le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie la proposta opposizione ed annulla l’ordinanza-ingiunzione opposta.
Condanna l’Amministrazione al rimborso delle spese processuali sostenute dalla M., che liquida, per il giudizio dinanzi al Giudice di pace, in euro 480, di cui euro 220 per diritti, euro 180 per onorari ed euro 80 per esborsi, oltre a spese generali ed accessori di legge, per la fase dinanzi al Tribunale in euro 600, di cui euro 280 per diritti, euro 220 per onorari ed euro 100 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge, e per il giudizio di cassazione in euro 600, di cui euro 400 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

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Legge sull’omicidio stradale

La legge n. 41/2016 istituisce i reati autonomi di omicidio stradale e lesioni personali stradali, con pene fino a 12 anni di carcere (che possono arrivare a 18 nei casi più gravi), prelievi coattivi per stabilire se il conducente si trova in stato di ebbrezza, arresto in flagranza obbligatorio e revoca della patente.

Numerose le novità della legge, che ha fatto e continua a fare discutere, per l’impianto sanzionatorio estremamente severo, visto da molti come non conforme al principio di proporzionalità tra illeciti e sanzioni, in quanto non colpisce soltanto i c.d. pirati della strada ma anche coloro che commettono infrazioni diffuse, la cui gravità andrà valutata caso per caso.

Le nuove sanzioni, infatti, possono scattare anche per chi effettua manovre pericolose, come l’eccesso di velocità, il passare col rosso, il circolare contromano o il fare inversioni di marcia in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi, o ancora il sorpasso in corrispondenza di una linea continua o di un attraversamento pedonale.

È proprio l’equiparazione degli incidenti causati dalla guida in stato di ebbrezza (da alcol o droghe) a quelli derivanti dalle specifiche violazioni del codice della Strada ad aver scatenato le maggiori critiche, anche da parte di coloro che erano favorevoli a un inasprimento delle sanzioni (leggi: “Omicidio stradale: basterà una distrazione per andare in carcere“).

Un’assimilazione di condotte che farà rischiare la galera allo stesso modo sia a chi si mette alla guida consapevolmente, pur avendo alzato troppo il gomito o con la mente annebbiata dalla droga, sia agli automobilisti c.d. “normali” che commettono infrazioni a volte attribuibili alle carenze di manutenzione o di progettazione delle strade: basta pensare al sorpasso sugli attraversamenti pedonali che i test qualificati denunciano da anni come poco visibili.

La domanda che sorge spontanea pertanto è se l’Italia potrà permettersi un sistema di sanzionatorio così severo.

La partita si giocherà sulla serietà delle indagini, ma queste passano innanzitutto dalla preparazione degli agenti che effettuano i rilievi sul luogo dell’incidente, con corpi però come quello della polizia stradale, in forte carenza di organico, poi dai periti, cui non è richiesta una preparazione specifica sulla materia essendo chiamati indifferentemente per sparatorie o incidenti, e infine sui magistrati, sottoposti a carichi di lavoro sempre più imponenti che non permettono di affrontare al meglio le indagini.

Il sistema disegnato parte, dunque, già in squilibrio, con sanzioni e colpe certe per gli utenti finali ma senza aver fatto nulla sul fronte degli altri attori da cui dipende la sicurezza stradale.

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ISTANZA DI VISIBILITA’

TRIBUNALE CIVILE DI ………………..

Istanza di richiesta di visibilità temporanea

del fascicolo informatico n. ———-/—- R.G. – UD. ——

Giud. dott. —————————-

Gli Avv.ti —————— (c.f. —————————–) e ——————————- (c.f. ————————), con studio in —————-, Via ————————————–, N. —  come da procura rilasciata ex art. 83 c.p.c. ed allegata alla busta di deposito del presente atto, dalla S.R.L. ——————(c.f. e p.iva ————————–9), con sede in (———-) —————, Via —————————— n. ….,  ai fini della costituzione in giudizio, ha interesse, nel procedimento in epigrafe indicato, ad esaminare i documenti ed i provvedimenti depositati nel fascicolo informatico per una migliore difesa in giudizio, pertanto

CHIEDE

che il Sig. Cancelliere voglia consentire agli scriventi Avvocati, la consultazione da remoto del fascicolo telematico per il tempo necessario all’espletamento delle anzidette attività difensive.

Luogo e data

Con osservanza.

Avv. ———————–

 

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Liquidazione spese processuali anche all’avvocato che, in giudizio, si difende personalmente

Anche l’avvocato che sta in giudizio personalmente, ossia si difende da solo, ha diritto alla liquidazione delle spese processuali se vince il giudizio. Il fatto che non abbia pagato alcuna parcella a un altro collega avvocato per assisterlo non significa, comunque, che non abbia subito un pregiudizio, in questo caso derivante dal tempo impiegato per la difesa processuale. È quanto chiarito dalla Cassazione con una interessante sentenza di ieri [1].

Spese processuali in favore dell’avvocato che si difende da solo

La Cassazione parte dalla natura dell’istituto della condanna alle spese processuali [2]: non già una sanzione, né una forma di risarcimento del danno, bensì un’ «applicazione del principio di causalità», che fa pesare l’onere delle spese su chi ha provocato la necessità del processo.

Gli unici casi in cui è possibile la compensazione delle spese è:

  • se vi è soccombenza reciproca
  • in caso di assoluta novità della questione trattata
  • in caso di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

Ne consegue che il giudice è sostanzialmente tenuto ad applicare sempre la regola della soccombenza, a meno che non si tratti di un caso eccezionale e riconducibile ad una delle ipotesi previste dalla legge; in ogni caso il provvedimento che divide (in tutto o in parte) le spese di giudizio tra i soggetti in causa deve essere motivato.

Detto ciò è innegabile che l’avvocato – seppur rappresenti, nella stessa persona, sia la parte processuale che il proprio difensore – sia il soggetto vincitore della causa. Pertanto, non ci sono ragioni per discostarsi dalla regola generale della soccombenza. L’essersi avvalso della facoltà di difesa personale non può avere alcun effetto, visto che questa «non incide sulla natura professionale dell’attività svolta in proprio favore e, pertanto, non esclude che il giudice debba liquidare in suo favore, secondo le regole della soccombenza e in base alle tariffe professionali, i diritti e gli onorari previsti per la sua prestazione».

C’è soccombenza anche senza difesa avversaria

Un altro interessante aspetto della sentenza riguarda tutti quei giudizi, specie quelli contro la pubblica amministrazione, dove, a fronte del ricorso, l’attività di difesa dell’avversario è blanda o del tutto assente; si pensi al ricorso contro una multa dove spesso si assiste al deposito di un generico controricorso non corredato da alcuna documentazione o richiesta di prova, tanto da rendere più agevole la difesa della controparte. Tuttavia, questi aspetti vengono ritenuti irrilevanti, dalla Cassazione, ai fini della condanna alle spese: condanna che scatta comunque dato che non bisogna tanto focalizzarsi sull’attività processuale svolta dall’avversario, quanto sul suo comportamento a monte, illegittimo, che ha reso necessario il ricorso al giudice.

Dunque, concludendo, secondo la Cassazione si ha diritto al rimborso delle spese processuali sia quando la controparte non si sia concretamente difesa nel giudizio, sia quando il ricorrente è lo stesso avvocato che si difende in proprio.

[1] Cass. sent. n. 189/17 del 9.01.2017.

[2] Art. 92 cod. proc. civ.

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Dimissioni e disoccupazione: tutti i casi in cui spetta l’indennità dell’Inps

L’ex indennità di disoccupazione ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali o ridotti, così come l’Nuova assicurazione sociale per l’impiego NASPI (ex Aspi e Mini-Aspi), sono riconosciute anche per le dimissioni volontarie per giusta causa da parte del lavoratore. Vediamo tutti i casi in cui il recesso dà diritto alla percezione dell’assegno da parte dell’Inps.

– A favore dei lavoratori che perdono l’occupazione è previsto dall’ordinamento previdenziale un trattamento economico sostitutivo della retribuzione, erogato dall’Inps. Si tratta dell’indennità di disoccupazione (Naspi 2015), che consente, al lavoratore che ha perso il posto di lavoro, la percezione di un assegno che riduca gli effetti negativi della mancanza di un lavoro.

Domanda “se mi licenzio, ho diritto all’indennità di disoccupazione?” o “se uno si licenzia ha diritto all’indennità di disoccupazione?” o alla domanda “quando si ha diritto alla disoccupazione?”. Vediamo quindi la disoccupazione in caso di dimissioni.

Ad essere tutelata è la disoccupazione non volontaria, quindi non la risoluzione di un rapporto di lavoro per volontà del lavoratore.

Normalmente, infatti, non si ha diritto all’indennità di disoccupazione, né quella ex ordinaria né quella ex con requisiti ridotti, nel caso di dimissioni volontarie da parte del lavoratore. Ossia quando il rapporto di lavoro, appunto, cessa per volontà del lavoratore. Ma se il caso in questione è una dimissione è per giusta causa, le cose cambiano totalmente. Vediamo perché.

Sul tema del diritto all’indennità di disoccupazione nel caso di dimissioni volontarie è intervenuta la Corte Costituzionale, chiarendo quali sono i casi in cui, pur essendo intervenuta una dimissione da parte del lavoratore, essa è riconducibile alla disoccupazione involontaria e quindi dà comunque diritto alla percezione dell’indennità di disoccupazione. Ossia quando appunto la dimissione è per giusta causa.

La Corte Costituzionale, con una sentenza del 2002, ha stabilito che le dimissioni per giusta causa non sono riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro. Comportano, quindi, uno stato di disoccupazione involontaria. Di conseguenza il diritto all’indennità ordinaria di disoccupazione, agricola e non agricola, deve essere riconosciuto ogni qual volta la cessazione del rapporto di lavoro avvenga per giusta causa, e cioè quando si verifichi una causa che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro (articolo 2119 del codice civile). La Corte Costituzionale è intervenuta per dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 comma 5 della legge n. 448 del 1998 che aveva disposto che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni intervenuta successivamente al 31 dicembre 1998 non dà titolo in nessun caso all’erogazione dell’indennità ordinaria di disoccupazione, agricola e non agricola, con requisiti normali  e con requisiti ridotti. Sulla base di questa sentenza che ha cancellato quanto stabilito dalla legge 448 del 1998, l’Inps ha elencato tutti i casi in cui la dimissione è considerata per giusta causa e quindi dà diritto all’indennità di disoccupazione, sia ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali o ridotti. Nonché il diritto all’Assicurazione sociale per l’impiego dal 2013.

La circolare Inps n. 163 del 2003 ha chiarito che si considerano “per giusta causa” le dimissioni determinate dai seguenti eventi:

-dal mancato pagamento della retribuzione;

-dall’aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;

-dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;

-dal cosiddetto mobbing, ossia di crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l’altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o “demansionamento”, già previsti come giusta causa di dimissioni);

-dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda;

-dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’art. 2103 codice civile (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);

-dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985).

L’articolo 2119 c.c. (“Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto … a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto …”) demanda alla giurisprudenza il compito di enucleare le varie fattispecie di “giusta causa”. Per tale motivo, l’INPS può riconoscere l’indennità di disoccupazione solo nei casi in cui sussista una delle cause già indicate dalla giurisprudenza.

Indennità di disoccupazione e risoluzione consensuale. Una circolare Inps del 2006 ha chiarito che rientra nelle “notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda” di cui all’elenco precedente, il caso in cui la cessazione dell’attività lavorativa consegua a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. E soprattutto il caso in cui il lavoratore venga trasferito ad una diversa sede dell’azienda, quando quest’ultima si trovi ad una notevole distanza dalla residenza e/o dall’ultima sede presso la quale il dipendente prestava la propria attività.

Anche in quest’ultimo caso possono ricorrere i presupposti per riconoscere l’indennità di disoccupazione ordinaria, poiché la volontà del lavoratore può essere stata indotta dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento del dipendente ad altra sede della stessa azienda. In particolare va posta in considerazione la circostanza che la sede di destinazione disti più di 50 km dalla residenza del lavoratore e\o trovarsi in un luogo mediamente raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici. In questo caso il lavoratore ha diritto all’indennità di disoccupazione.

Relativamente alla presentazione delle domande, se il lavoratore dichiara che si è dimesso per giusta causa, dovrà corredare la domanda con una documentazione (dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà) da cui risulti almeno la sua volontà di “difendersi in giudizio” nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (allegazione di diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d’urgenza ex articolo 700 c.p.c., sentenze ecc. contro il datore di lavoro, nonché ogni altro documento idoneo), impegnandosi a comunicare l’esito della controversia giudiziale o extragiudiziale. Laddove l’esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, si dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell’indennità di disoccupazione.

Dimissioni lavoratrici madri durante il divieto di licenziamento. Un ulteriore caso di dimissioni, oltre a quelle per giusta causa, è quello delle lavoratrici madri durante il divieto di licenziamento. Si tratta di un caso tutelato dalle legge: Dalla data di gestazione, vale a dire 300 giorni prima della data presunta del parto, fino al compimento del primo anno di vita del bambino, esiste il divieto di licenziamento. Le lavoratrici madri che si dimettono durante questo periodo hanno diritto all’indennità di disoccupazione (ora Naspi).

Va precisato che la riforma Fornero, la legge n. 92 del 2012, ha introdotto la convalida delle dimissioni ed in questo specifico caso delle lavoratrici madri che si dimettono ha previsto che la convalida è estesa fino ai tre anni di vita del bambino. Ma il Ministero del Lavoro con un interpello ha chiarito che l’estensione della convalida delle dimissioni da un anno di vita del bambino a tre anni di vita, non comporta l’allungamento a tre anni di età del bambino del periodo entro il quale le dimissioni della lavoratrice danno diritto all’Aspi, ex indennità di disoccupazione. Per maggiori informazioni vediamo le dimissioni della lavoratrice madre e l’indennità Aspi.

I requisiti per l’indennità di disoccupazione Naspi. Quanto disposto dall’Inps in materia di dimissioni volontarie nonché di risoluzione consensuale o dimissioni della lavoratrice madre, non basta per ottenere l’indennità di disoccupazione. Piuttosto, rientrare nei casi di cui sopra, consente di evitare l’esclusione dal diritto, che opera nei confronti di coloro che dimettono volontariamente al di fuori dei casi di cui sopra. Il lavoratore o la lavoratrice devono possedere poi i requisiti previsti per l’indennità di disoccupazione, che ora è la Nuova assicurazione sociale per l’impiego Naspi.

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