L’esdebitazione

L’esdebitazione consente la “cancellazione” dei debiti che residuano dal fallimento: presupposti e modalità per chiedere l’esdebitazione.

 

L’esdebitazione è una novità introdotta dal legislatore con la riforma del diritto fallimentare, avvenuta con il Decreto Legislativo del 9 gennaio 2006, n. 5, poi modificato dal successivo Decreto Legislativo del 12 settembre 2007, n. 1699.

Tale istituto è previsto dagli articoli 142 e seguenti della Legge Fallimentare.

L’esdebitazione è un beneficio concesso dal Tribunale all’imprenditore fallito, consistente nella dichiarazione di “inesigibilità” dei debiti non soddisfatti nella procedura concorsuale.

Questo vuol dire che per tali debiti il fallito non potrà subire, una volta ottenuta l’esdebitazione, azioni esecutive da parte dei creditori concorsuali.

L’obiettivo è quello di agevolare il fallito nella ripresa dell’attività economica, liberandolo dal peso dei debiti pregressi.

L’esdebitazione riguarda esclusivamente i seguenti soggetti:

  • gli imprenditori individuali
  • i soci illimitatamente responsabili delle società personali.

Per ottenere l’esdebitazione è necessario che il fallito:

  1. abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni;
  2. non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura;
  3. non abbia violato le disposizioni di cui all’articolo 48;
  4. non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta;
  5. non abbia distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito;
  6. non sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione. Se è in corso il procedimento penale per uno di tali reati, il tribunale sospende il procedimento fino all’esito di quello penale.

È necessario inoltre che siano stati pagati almeno parzialmente i debiti concorsuali.

Alcune tipologie di debito sono escluse dall’esdebitazione, e precisamente:

  • gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa;
  • i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.

Sono salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso.

Il decreto di accoglimento della domanda di esdebitazione produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo; in tale caso, l’esdebitazione opera per la sola eccedenza alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado.

Per ottenere l’esdebitazione, è necessario presentare domanda al Tribunale ove si svolge o si è svolta la procedura concorsuale.

Il Tribunale non può concedere l’esdebitazione d’ufficio, ossia di propria iniziativa senza la domanda dell’interessato.

Possono presentare l’istanza i seguenti soggetti:

  • il fallito;
  • gli eredi del fallito, in quanto l’esdebitazione riguarda diritti patrimoniali trasmissibili mortis causa.

La domanda può essere presentata alternativamente:

  1. nel corso della procedura fallimentare, prima che questa si chiuda. In tal caso il giudice potrà concedere l’esdebitazione con lo stesso decreto di chiusura del fallimento;
  2. successivamente alla chiusura del fallimento, tramite ricorso da depositare nella cancelleria fallimentare dello stesso Tribunale che ha pronunciato il decreto di chiusura.Attenzione: il ricorso deve essere presentato entro un anno dal decreto di chiusura.Si tratta di un termine perentorio. Questo vuol dire che la domanda presentata oltre un anno dopo la chiusura sarà dichiarata inammissibile. Il termine annuale è stabilito per un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.

    Depositato il ricorso, il Tribunale fisserà la data dell’udienza per sentire il curatore ed i creditori interessati, stabilendo il termine entro cui il ricorrente dovrà notificare il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza al curatore ed a tutti i creditori.

    Eventualmente, se il numero dei creditori è così elevato da rendere particolarmente onerose le notifiche, ci si potrà avvalere  della notificazione per pubblici proclami ex articolo 150 del Codice di Procedura Civile.

    La notifica a tutti i creditori è necessaria per garantire il diritto al contradditorio, dal momento che l’esdebitazione è idonea a produrre effetti anche nella loro sfera giuridica, rendendo inesigibili i crediti rimasti insoddisfatti.

    Tale principio è stato affermato dalla Corte Costituzionale, con sentenza del 30 maggio 2008 n. 181, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 143 della Legge fallimentare nella parte in cui esso, nel caso di procedimento di esdebitazione ad istanza del debitore nell’anno successivo al decreto di chiusura, non prevede la notificazione ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti del ricorso col quale il debitore chiede di essere ammesso al beneficio della esdebitazione, nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.

    Non prevedendo, infatti, uno strumento idoneo d’informazione dei creditori concorsuali in merito all’instaurazione di un procedimento, che in caso di accoglimento dell’istanza, produce effetti nella loro sfera giuridica, la legge viola il diritto alla difesa costituzionalmente garantito.

    Non è comunque necessaria la partecipazione effettiva dei creditori al procedimento, essendo sufficiente, per il rispetto del diritto di difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione, che essi siano avvisati del procedimento (attraverso appunto la notifica suddetta) e che abbiano la facoltà di intervento.

Al termine del procedimento, il Tribunale si pronuncia sulla domanda di esdebitazione con decreto, succintamente motivato, con il quale concede o nega l’esdebitazione.

Contro questo decreto gli interessati possono proporre reclamo davanti alla Corte di Appello ai sensi dell’articolo 26 della Legge fallimentare.

La legittimazione spetta:

  • al debitore;
  • ai creditori non integralmente soddisfatti (anche quelli esclusi dalla procedura consorsuale e quelli che non hanno fatto domanda di ammissione al passivo);
  • al pubblico ministero;
  • a qualunque interessato (inclusi il curatore, il comitato dei creditori, gli obbligati in via di regresso che per effetto dell’esdebitazione rimangono obbligati per intero, non potendo però agire verso l’ex fallito).

Il reclamo va proposto nel termine perentorio di dieci giorni.

Per il fallito, il curatore ed i creditori il termine decorra dalla comunicazione o notificazione del provvedimento; riguardo agli altri interessati dall’esecuzione delle formalità pubblicitarie disposte dal Giudice delegato o dal Tribunale, se quest’ultimo ha emesso il provvedimento (articolo 26, terzo comma).

Indipendentemente dalla notifica del decreto, il reclamo non può più proporsi decorso il termine perentorio di novanta giorni dal deposito del provvedimento in cancelleria.

Il procedimento per il reclamo è analogo a quello per la domanda di esdebitazione.

Si presenta sotto forma di ricorso, da depositare nella cancelleria della Corte di Appello territorialmente competente.

Il reclamo deve contenere:

  1. l’indicazione del tribunale o della corte di appello competente, del giudice delegato e della procedura fallimentare;
  2. le generalità del ricorrente e l’elezione del domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito;
  3. l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa il reclamo, con le relative conclusioni;
  4. l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.

Il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore, e fissa con decreto l’udienza di comparizione entro quaranta giorni dal deposito del ricorso.

Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, al curatore ed ai controinteressati entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto.

La Corte si pronuncia sul reclamo, confermando o revocando il decreto.

La sua decisione è ricorribile per cassazione.

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I debiti sociali e la fuoriuscita di un socio dalla società

L’uscita di un di un socio da società di persone, causata da cessione di quota o da recesso, comporta, per quanto concerne la sua responsabilità personale in ordine alle obbligazioni sociali, due ordini di conseguenze.

In primo luogo, viene meno la responsabilità patrimoniale dell’ex socio nei confronti dei terzi in relazione a tutte le obbligazioni assunte dalla società posteriormente alla sua uscita dalla compagine sociale.

In secondo luogo l’ex socio, invece, continua a rispondere personalmente con tutto il proprio patrimonio per le obbligazioni contratte dalla società prima della sua uscita (art. 2290 c.c.).

È pertanto di fondamentale importanza individuare con certezza il momento a partire dal quale l’uscita del socio dalla società sarà opponibile alla società stessa ed ai suoi creditori, onde poter giustificare la propria estraneità alle obbligazioni sociali eventualmente inadempiute.

Secondo il dettato legislativo, infatti, non basta limitarsi a stipulare la cessione di quote e a modificare i patti sociali della società; occorre anche dare idonea pubblicità della fuoruscita dalla compagine sociale, in modo tale da consentire ai terzi creditori di conoscere l’esatta composizione della società.

A tal proposito la giurisprudenza della Suprema Corte ha avuto modo di precisare che “il socio di una società in nome collettivo che abbia ceduto la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della cessione. Poiché detta pubblicità costituisce fatto impeditivo di una responsabilità altrimenti normale, essa deve essere allegata e provata dal socio che opponga la cessione al fine di escludere la propria responsabilità per le obbligazioni sociali” (Cass. sent. n. 24490 del 30/10/2013).

In sostanza, posto che il terzo che entra in rapporti negoziali con una società di persone è consapevole di poter contare anche sulla responsabilità solidale di tutti i soci che la compongono (per le obbligazioni sociali), ne discende necessariamente che se a quel momento il recesso di un socio non è stato pubblicato sul registro delle imprese, esso non potrà essere opponibile al terzo senza che rilevi il momento successivo in cui questi intenti azione giudiziaria per l’inadempimento.
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Responsabilità del socio uscente o dei suoi eredi – Articolo 2290 Codice civile

Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili 1 verso i terzi per leobbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento 2 [2284, 2530].
Lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei [1396, 2267; in mancanza non è opponibilile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato 3 [2193].

La norma ribadisce il comune principio della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali, fino al momento dello scioglimento del rapporto sociale, nonchè tutela l’affidamento incolpevole dei terzi creditori sulla composizione soggettiva della compagine sociale.

Coerentemente con il principio di responsabilità patrimoniale personale del socio, quest’ultimo, benché uscente, o i suoi eredi, restano responsabili per le operazioni sociali fino al momento in cui opererà lo scioglimento.
In difformità rispetto alla disciplina relativa agli utili ed alle perdite per le operazioni ancora in corso al momento dello scioglimento di cui all’art. 2289, egli non è responsabile per le obbligazioni contratte dalla società dopo la sua uscita dalla compagine sociale.
Dello scioglimento del rapporto deve essere data adeguata pubblicità nel registro delle imprese, altrimenti il socio uscente non potrà opporre lo scioglimento.

Note

(1) Trovano applicazione gli artt. 2267 e 2268, in quanto si tratta di responsabilità di un socio (ancorché uscito).
(2) Il socio uscito non è, però, responsabile per le obbligazioni sociali sorte dopo il giorno dello scioglimento.
(3) La responsabilità del socio uscente non cessa nei confronti dei terzi che hanno ignorato senza colpa tale circostanza. In forza dei richiami contenuti negli artt. 2297 e 2317, la norma si applica anche alle società irregolari in nome collettivo e in accomandita semplice.

Massime relative all’art. 2290 Codice civile

Cass. n. 25123/2010

In tema di società in nome collettivo, nell’ipotesi di cessione di quota, il cedente che non abbia garantito gli acquirenti di quest’ultima dell’inesistenza dei debiti sociali risponde delle obbligazioni sorte anteriormente alla cessione esclusivamente nei confronti dei creditori sociali – trovando generale applicazione la disposizione di cui all’art. 2290 c.c. – ma non nei confronti della società o dei cessionari; ne consegue che nè la società, nè i predetti cessionari della quota, una volta adempiute le predette obbligazioni, hanno titolo per essere tenuti indenni, dall’ex socio cedente, di quanto corrisposto ai creditori.

Cass. n. 8649/2010

Il regime di cui agli artt. 2290 e 2300 c.c., in forza del quale il socio di una società in nome collettivo che ceda la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima, è di generale applicazione, non riscontrandosi alcuna disposizione di legge che ne circoscriva la portata al campo delle obbligazioni di origine negoziale con esclusione di quelle che trovano la loro fonte nella legge, quale, nella specie, l’obbligazione di versamento dei contributi previdenziali all’INPS. Ne consegue che deve ritenersi inopponibile all’istituto previdenziale la scrittura privata di cessione della quota sociale da parte di un socio, posto che la responsabilità solidale dei soci per debiti derivanti dall’attività sociale prescinde dai rapporti interni dei soci stessi, e lo scioglimento del rapporto sociale, valido tra le parti, è inefficace nei confronti dei terzi.

Cass. n. 19304/2006

La cessazione per qualsiasi causa dell’appartenenza alla compagine sociale del socio di società di persone, cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell’art. 2290 c.c., non è opponibile ai terzi, poiché essa non produce i suoi effetti al di fuori dell’ambito societario; conseguentemente, la cessazione non pubblicizzata non è idonea ad escludere l’estensione del fallimento del socio pronunciata ai sensi dell’art. 147 legge fall., né assume rilievo il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento è ancora in atto.

Cass. n. 2215/2006

In forza delle previsioni di cui agli artt. 2267, 2290 e 2300 c.c., il socio di una società in nome collettivo che abbia ceduto la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della cessione. L’indicata pubblicità costituisce, dunque, fatto impeditivo di una responsabilità altrimenti normale, sicché essa deve essere allegata e provata dal socio che opponga la cessione al fine di escludere la propria responsabilità per le obbligazioni sociali: con la conseguenza che rientra tra i poteri ufficiosi del giudice valutare, a fronte di una tale deduzione difensiva, se l’anzidetto onere sia stato o meno assolto.

Cass. n. 14962/2004

Il recesso del socio di società di persone, cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell’art. 2290, secondo comma, c.c., è inopponibile ai terzi, con ciò dovendosi intendere che non produce i suoi effetti al di fuori dell’ambito societario; conseguentemente, il recesso non pubblicizzato non è idoneo ad escludere l’estensione del fallimento pronunciata ai sensi dell’art. 147 legge fall., nè assume rilievo il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto riguarda i terzi, a quel momento è ancora in atto; l’apprezzamento compiuto dal giudice di merito circa la idoneità del mezzo usato per portare a conoscenza dei terzi il recesso di un socio dalla società di persone è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici.

Cass. n. 2639/2001

In base al disposto dell’art. 2290 c.c., il socio receduto, ancorché per la sua posizione sia illimitatamente responsabile delle obbligazioni sociali, non risponde delle obbligazioni assunte successivamente al suo recesso, a condizione che il recesso medesimo sia stato oggetto di idonea pubblicità o sia comunque opponibile ai creditori sociali che del recesso fossero informati (o non lo fossero per loro colpa); pertanto, con riferimento all’obbligo di versamento di contributi agli enti previdenziali, la responsabilità illimitata del socio receduto non viene meno ove il recesso non risulti da pubblicità adeguata, quale l’iscrizione nel registro delle imprese, non essendo sufficienti, ai fini della tutela dell’affidamento degli enti creditori, la cancellazione del socio dagli elenchi della Camera di commercio e l’avvenuta registrazione della scrittura privata di recesso dalla società (principio enunciato in fattispecie cui non era applicabile ratione temporis l’art. 2 legge 4 agosto 1978, n. 467, che ha previsto l’obbligo di comunicazione agli enti previdenziali delle variazioni relative all’attività dell’impresa).

Cass. n. 5479/1999

La cessione della quota di società di persone, pur non comportando necessariamente l’intento di provocare lo scioglimento della società medesima, contiene in sé la volontà di dismettere la partecipazione ceduta, con il complesso delle posizioni connesse e, dunque, di uscire dal novero dei soci. Sicché, la cessione della quota, ove non rimanga nel limitato ambito del rapporto inter partes, ma trovi il consenso unanime occorrente per la variazione della compagine sociale con il subingresso del cessionario al cedente, segna il perfezionarsi del recesso di quest’ultimo (per effetto del concorrere di detta volontà di uscire dall’ente societario e della sua comunicazione agli altri soci) e la sua soggezione alla responsabilità delineata dall’art. 2290 c.c. per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.

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DEPOSITO TELEMATICO DELLA COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA

Per depositare telematicamente la COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA la stessa deve essere redatta con il software tradizionalmente utilizzato dall’avvocato (Word, Open Office, ecc.) e trasformata in “PDF TESTO” senza scansione; salvare il file PDF in una cartella del computer. Questo è il file da allegare come “atto successivo” nella fase di creazione della busta.
La denominazione del file non dovrà contenere caratteri speciali (lettere accentate, apostrofo oppure altri simboli quali “!$£%&()?”).
Una volta ottenuto il file PDF l’avvocato dovrà sottoscriverlo tramite firma digitale; che potrà essere apposta anche avvalendosi della apposita opzione proposta dal software di realizzazione della “busta” digitale.
La comparsa di costituzione deve contenere, naturalmente, i nomi delle parti, il codice fiscale dell’avvocato ed il suo indirizzo di posta elettronica certificata nonché il codice fiscale o la partita
iva del cliente. Le imprese devono essere individuate tramite la relativa ragione sociale e le espressioni “Ditta” e/o “Società” devono essere premesse solo nell’ipotesi in cui siano comprese nella ragione sociale. Le abbreviazioni (ad esempio: spa, snc, ecc.) devono essere inserite senza puntini tra le singole lettere.
La PROCURA ALLE LITI può essere rilasciata a margine o in calce della comparsa di costituzione o con atto separato:
PROCURA A MARGINE O IN CALCE DELLA COMPARSA: l’avvocato dovrà stampare la prima pagina (procura a margine) o l’ultima pagina (procura in calce) della comparsa e, successivamente, la stessa dovrà essere sottoscritta dal cliente per il conferimento del mandato e sottoscritta con firma autografa dall’avvocato. La procura poi, dovrà essere trasformata in file “PDF immagine” tramite scanner e, successivamente il file PDF ottenuto dovrà essere firmato tramite firma digitale;
la firma digitale potrà essere apposta anche avvalendosi dell’apposita opzione proposta dal software di realizzazione della “busta” digitale.
La denominazione del file non dovrà contenere caratteri speciali (lettere accentate, apostrofo oppure altri simboli quali “!$£%&()?”).
PROCURA RILASCIATA CON ATTO SEPARATO: la stessa deve contenere tutti gli elementi affinchè si possa evincere per quale tipo di atto è conferita (ad esempio: comparsa di costituzione e risposta a favore di Caio contro Sempronio nel procedimento civile pendente dinanzi al Tribunale di XXXXXXXX iscritto al nr. ______); dopo averla stampata deve essere sottoscritta dal cliente per il conferimento del mandato e sottoscritta con firma autografa dall’avvocato.
La procura poi, dovrà essere trasformata in file “PDF immagine” tramite scanner e, successivamente il file PDF ottenuto dovrà essere firmato tramite firma digitale; la firma digitale potrà essere apposta anche avvalendosi dell’apposita opzione proposta dal software di
realizzazione della “busta” digitale.
I DOCUMENTI cartacei da allegare alla comparsa dovranno essere trasformati, mediante scanner, in file “PDF immagine” (suggerisco che ad ogni documento corrisponda un file PDF avente quale nome quello del documento); non è necessario sottoscrivere i documenti con firma digitale a meno che ciò non sia richiesto dalla tipologia del documento. I documenti vanno scansionati IN BIANCO E NERO e a BASSA RISOLUZIONE (100 dpi). Eventuali fotografie in formato digitale .jpeg o .bmp possono essere così allegate o trasformate in pdf aprendo il relativo file e “stampandole virtualmente” seguendo la procedura sopra descritta.
La denominazione del file non dovrà contenere caratteri speciali (lettere accentate, apostrofo oppure altri simboli quali “!$£%&()?”).
La DICHIARAZIONE DI VALORE:
in ottemperanza a quanto previsto dalla normativa sul contributo unificato, insieme agli altri documenti deve essere redatta e depositata la dichiarazione di valore.
Tale dichiarazione deve essere redatta con il software tradizionalmente utilizzato dall’avvocato (word, open office ecc.) e trasformato in “PDF TESTO” senza scansione utilizzando la stessa procedura indicata per la redazione della comparsa; una volta ottenuto il file PDF l’avvocato dovrà sottoscriverlo tramite firma digitale; la firma digitale potrà essere apposta anche avvalendosi dell’apposita opzione proposta dal software di realizzazione della “busta” telematica.
La denominazione del file non dovrà contenere caratteri speciali (lettere accentate, apostrofo oppure altri simboli quali “!$£%&()?”).
Dovrà, in ultimo, essere predisposto l’INDICE DEI DOCUMENTI allegati alla comparsa di costituzione e risposta; il detto indice deve essere redatto con il software tradizionalmente utilizzato dall’avvocato (word, open office ecc.) e trasformato in PDF senza scansione utilizzando la
stessa procedura indicata per la redazione della comparsa; una volta ottenuto il file PDF l’avvocato dovrà sottoscriverlo tramite firma digitale; la firma digitale potrà essere apposta anche avvalendosi dell’apposita opzione proposta dal software di realizzazione della “busta” telematica.
La denominazione del file non dovrà contenere caratteri speciali (lettere accentate, apostrofo oppure altri simboli quali “!$£%&()?”
Se il CLIENTE E’ ASSISTITO DA DUE AVVOCATI, l’avvocato che redige la comparsa dovrà inserire il nominativo del collega sia nel ricorso sia in sede di compilazione della “BUSTA” mediante il “REDATTORE DI ATTI PCT” e apporrà la sua firma digitale; il secondo avvocato dovrà firmare
digitalmente la comparsa prima di caricarla nel “REDATTORE DI ATTI PCT”. Così procedendo la cancelleria potrà consentire ai predetti avvocati sia la ricezione delle comunicazioni tramite PEC sia
la consultazione del fascicolo con “POLISWEB PCT”.
CONTRIBUTO UNIFICATO: ove il contenuto della comparsa di costituzione e risposta sia tale da comportare l’integrazione del
contributo unificato già versato da parte attrice, se il pagamento dell’integrazione viene effettuato con i metodi tradizionali il contributo unificato va acquisito tramite scanner e allegato al ricorso
dando come nome al file “CONTRIBUTO UNIFICATO”. Nel caso di pagamento tramite Lottomatica va scansionata la marca apposta sull’apposito modulo già in uso. Nel caso di pagamento tramite
F23 va scansionato il modulo relativo.
A tal proposito si segnala che la maggior parte degli Uffici Giudiziari prevede che, ove il pagamento del contributo unificato avvenga nei modi tradizionali, lo stesso debba essere versato unicamente tramite F23.
Negli Uffici Giudiziari abilitati è possibile effettuare il pagamento del contributo unificato telematicamente ottenendo in tempo reale la ricevuta telematica di pagamento (RT) stamparla o scaricarla sul proprio computer in formato elettronico, PDF o XML, in base alla modalità attivata dal Ministero della Giustizia presso l’Ufficio Giudiziario.
La RT (ricevuta telematica) in PDF deve essere inserita come allegato nella busta telematica relativa al deposito da effettuare mediante l’apposita funzione presente nel PDA.
La RT (ricevuta telematica) in formato XML dovrà essere inserita come allegato nella busta telematica relativa al deposito da effettuare mediante l’apposita funzione presente nel PDA.
Ultimata la BUSTA (contenente il ricorso e tutti gli allegati sopra citati e che, si ricorda, non dovrà superare i 30 MB) la stessa dovrà essere inviata mediante PDA tramite PEC all’Ufficio Giudiziario competente; successivamente all’avvocato verranno inviate, nella propria casella di posta elettronica certificata, quattro ricevute:
RICEVUTA DI ACCETTAZIONE
RICEVUTA DI CONSEGNA
RICEVUTA ESITI CONTROLLI AUTOMATICI
RICEVUTA DI DEFINITIVA ACQUISIZIONE, DA PARTE DEL CANCELLIERE, DELLA COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA E DEGLI ALLEGATI.

Si declina ogni responsabilità per errori e/o danni che possano verificarsi per aver fatto affidamento sulle informazioni contenute in questo vademecum.

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Il recesso del committente nell’appalto privato

Introduzione. L’art.1372 c.c., nel capo relativo agli “effetti del contratto”, si occupa di ricordare all’operatore del diritto, e invero a chiunque si avvicini alla sottoscrizione di un contratto, la regola per cui “il contratto ha forza di legge tra le parti”. Quale che sia la strada che si scelga di seguire nell’interpretazione della norma, è indubbio che tutte le ipotesi di recesso unilaterale sconvolgono questa regola e devono perciò essere interpretate con grande attenzione.
L’art.1671 c.c., in materia di appalto, integra difatti una vistosa regola al principio di immutabilità del contratto ammettendo che questo possa essere terminato dall’iniziativa unilaterale del committente, il quale – come si vedrà – può recedere anche se inadempiente e senza necessità di fornire giustificazione alcuna.

Le diverse fattispecie di recesso. Almeno tre sono le forme di recesso, astrattamente, a disposizione del committente di un contratto di appalto privato. In primo luogo ci si potrebbe riferire alle disposizioni generali sugli effetti del contratto: l’art.1373 c.c. prevede la possibilità che a una parte contraente sia attribuita la facoltà di recedere dal vincolo negoziale, decidendo dunque singolarmente della sopravvivenza del rapporto instaurato: nei contratti ad esecuzione istantanea ciò è consentito finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione; nei contratti ad esecuzione continuata o periodica anche ad esecuzione iniziata, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione.
Ipotesi differente, che trova fonte direttamente nella disciplina codicistica dell’appalto, è invece quella prevista dall’art.1660, co.2, c.c.: qualora, per l’esecuzione a regola d’arte dell’opera, sia necessario apportare al progetto le c.d. “variazioni necessarie” e queste siano di notevole entità, è espressamente previsto il diritto del committente di recedere dal contratto, previa corresponsione all’appaltatore di un “equo indennizzo”.
Di origine codicistica è poi anche la fattispecie del recesso legale di cui all’art.1671 c.c., su cui concentreremo l’analisi nei prossimi paragrafi.

Il recesso legale ex art.1671 c.c. Nel corpo della disciplina del contratto di appalto, l’art.1671 c.c. prevede la facoltà per il committente di recedere dall’accordo anche se l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio è stata iniziata dall’altro contraente, gravando però questa scelta con l’obbligo di indennizzare l’appaltatore “delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”. Ci si trova al cospetto di un contratto (l’appalto) non di durata, bensì “ad esecuzione semplicemente prolungata”: ciò rende la figura del recesso in parola autonoma e incompatibile con quella, menzionata, di recesso nei contratti ad esecuzione continuata e periodica ex art.1373.
La particolarità del recesso del committente ai sensi dell’art.1671 c.c., che produce effetti ex nunc, ma influisce su di un contratto ad esecuzione prolungata che, di per sé, dovrebbe consentire solo cause retroattive di scioglimento, si spiega però facilmente qualora ne si osservi il meccanismo di funzionamento.
Il diritto di recesso del committente, ascrivibile alla categoria dei diritti soggettivi potestativi, può essere esercitato dal committente, in qualunque momento dopo la conclusione del contratto e per “qualsiasi ragione che lo induca a porre fine al rapporto”. Mentre il compimento dell’opera risponde esclusivamente all’interesse del committente, d’altro canto non è configurabile un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera, avendo egli diritto solo all’indennizzo previsto da detta norma (Trib. Roma, sez.X, 23 marzo 2010).
In questo modo, “la legge, pur ammettendo che una delle parti abbia diritto a sottrarsi unilateralmente al vincolo contrattuale, vuole che all’esercizio di tale diritto corrisponda una riparazione pecuniaria a favore dell’altra parte. L’obbligo di questa riparazione vale a temperare l’esercizio del diritto di recesso”.  Il recesso è, in quanto tale, esercitabile “ad nutum”, in qualsiasi momento di esecuzione del contratto di appalto e, rappresentando l’esercizio di un diritto potestativo, è riservato alla sola e libera determinazione del committente-recedente, sottratto al controllo di terzi e dell’appaltatore, senza che assumano alcun rilievo i motivi che lo hanno determinato (Cass. civ., sez. II, 29 luglio 2003, n. 11642).
Secondo l’opinione prevalente, la previsione codicistica di un diritto di recesso si fonderebbe sullo speciale rilevo che, nell’appalto, svolge l’intuitus personae. La previsione del recesso di cui all’art.1671 c.c. avrebbe precisamente lo scopo di ripristinare l’equilibrio tra le parti contraenti qualora circostanze sopravvenute abbiano determinato il venir meno dell’equilibrio iniziale, in termini di fiducia nei confronti dell’appaltatore o di utilità stessa dell’opera e del servizio: il recesso può, ad esempio, essere giustificato anche dalla sfiducia nutrita dal committente verso l’appaltatore in ragione di pregressi fatti d’inadempimento ovvero per qualsiasi ulteriori ragione (come mutamenti sopraggiunti nelle condizioni economiche del committente; un mutato giudizio sull’utilità dell’opera; una sfiducia sopravvenuta nella capacità dell’appaltatore, etc.).
Anche qualora la ragione del recesso sia da rinvenire in precedenti inadempimenti, il contratto si scioglie senza necessità d’indagini sull’importanza e gravità degli stessi, rilevanti soltanto quando il committente pretenda anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso (Cass. civ., 22 aprile 2008, n. 10400).
La giurisprudenza (Cass. civ., 13 luglio 1983, n. 4783)  ritiene che il recesso unilaterale del committente di cui all’art.1671 c.c. sia applicabile anche agli appalti avente ad oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi, non ritenendo che colgano nel segno le osservazioni critiche della (pur autorevole) dottrina che, sulla base della vicinanza della struttura dell’appalto di servizi al contratto di somministrazione, riterrebbe maggiormente congruo applicare l’art.1569 c.c., ai sensi del quale “se la durata della somministrazione non è stabilita, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, dando preavviso nel termine pattuito o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, in un termine congruo avuto riguardo alla natura della somministrazione”.

 L’esercizio del diritto di recesso. La disciplina codicistica nulla dispone in merito alle modalità pratiche di esercizio del diritto di recesso. Occorre, allora, far ricorso ai canoni generali.
È così di tutta evidenza che il recesso, configurandosi come un negozio unilaterale recettizio a forma libera che si perfeziona con la semplice notizia datane all’appaltatore, produce effetto, ex art.1334 c.c., dal momento in cui perviene a conoscenza dell’appaltatore stesso.
A tal fine, se è ipotizzabile una comunicazione meramente verbale, è però opportuno che la comunicazione avvenga in forma scritta e contenga la non equivoca manifestazione della volontà del committente di esercitare il diritto di recesso.
La dichiarazione di recesso non deve essere preceduta da un preavviso giacchè le conseguenze pregiudizievoli per l’appaltatore sono compensate dall’indennizzo dovuto ex 1671 c.c.  Il pagamento da parte del committente dell’indennizzo previsto a favore dell’appaltatore non costituisce, dunque, una condizione di efficacia del recesso, il quale opera ex nunc dal momento della ricezione della manifestazione della volontà di esercitare il diritto di recesso.
Si noti, al riguardo, che la regola di cui all’art.1373, c.3, c.c. in tema di recesso convenzionale si atteggia nel senso esattamente opposto, statuendo che “quando sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto quando la prestazione è eseguita”.
A norma dell’art.1671 c.c., invece, la corresponsione dell’indennizzo rappresenta un effetto del recesso, ed in relazione ad essa – a detta della dottrina e della giurisprudenza maggioritaria – non spetta neppure all’appaltatore un diritto di ritenzione dell’opera eseguita: per tale ragione, venuto meno lo ius detentionis dell’appaltatore, il diritto potestativo del committente ad ottenere la restituzione del cantiere può addirittura essere tutelata in via di urgenza facendosi ricorso al sequestro giudiziale del bene o ad un provvedimento atipico ai sensi dell’art.700 c.p.c. (Trib. di Pescara, 11 gennaio 2008).

Responsabilità contrattuale da atto lecito: la natura dello indennizzo.  La ratio giustificatrice dell’art.1671 c.c. si identifica, come detto, nella necessità di tutelare l’interesse del committente, permettendogli di evitare la prosecuzione per il futuro dell’esecuzione dell’opera o della prestazione del servizio, mediante il meccanismo della corresponsione dell’indennità all’appaltatore.
Si tratta di un’evidente ipotesi di responsabilità contrattuale da atto lecito: la norma difatti addossa alla parte committente – che esercita un diritto espressamente riconosciutogli – una responsabilità civilistica, con l’imposizione di corrispondere all’appaltatore un’indennità che, nel ricomprendere gli elementi integrativi del risarcimento del danno ex art.1223 c.c., si traduce tanto nel danno emergente (rimborso delle spese sostenute e dei lavori eseguiti), quanto nel lucro cessante (mancato guadagno).
La ragione che sorregge la previsione di un’indennità posta a carico del committente è quella di rimettere in equilibrio la situazione contrattuale: l’appaltatore deve poter distaccarsi dal contratto rimasto (parzialmente) ineseguito per l’iniziativa unilaterale del committente, senza però dover subire sproporzionate conseguenze economiche negative.
Se, dunque, sotto il profilo del danno, è possibile ravvisare una coincidenza tra l’obbligazione indennitaria a carico del committente conseguente all’esercizio del recesso e l’obbligazione risarcitoria che conseguirebbe a eventuali sue inadempienze, è assolutamente da evitare qualsiasi commistione a livello di fattispecie, dovendosi distinguere tra responsabilità extracontrattuale e responsabilità da atto lecito.
Il risarcimento del danno consiste nell’‘integrale’ riparazione della lesione subita in conseguenza di un’attività antigiuridica: secondo i principi generali dettati in materia dall’art.2043 c.c., l’obbligo risarcitorio consegue al compimento di un fatto antigiuridico lesivo di un interesse giuridicamente rilevante. L’indennizzo, invece, è la somma di denaro dovuta a titolo di ristoro patrimoniale per riparare (almeno parzialmente) la diminuzione economica subita da un soggetto in conseguenza di un atto ‘lecito’: il suo fondamento è da ravvisarsi nell’esigenza di far gravare su chi compie una qualsiasi attività lecita le conseguenze economiche patite dai terzi a causa di essa, esclusa dunque qualunque antigiuridicità del fatto.
Nell’indagare la natura propria dell’indennizzo dovuto all’appaltatore, la giurisprudenza distingue ancora una volta l’ipotesi del recesso convenzionale di cui all’art.1373 c.c., da quella del recesso legale di cui all’art.1671 c.c.   Se, nel primo caso, la prestazione di una somma a titolo di corrispettivo per l’esercizio da parte del contraente della facoltà di recesso prima che il contratto abbia avuto un principio di esecuzione – che, ex art.1373 c.c., trova fonte in un patto espresso – integra un debito di valuta; nell’ipotesi, posteriore alla conclusione del contratto di appalto – e quindi anche ad esecuzione già iniziata – del recesso unilaterale per legge di cui all’art.1671 c.c., l’obbligazione è di valore.
In tale secondo caso, nella quantificazione dell’indennità, troveranno applicazione i principi applicabili in tema di risarcimento del danno da inadempimento: in particolare, la possibilità di una liquidazione equitativa dell’indennizzo nonché la necessità di tener conto, anche d’ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione e degli interessi moratori al tasso legale vigente nel periodo considerato (Trib. di Roma, 9 settembre 2009, conf. Cass. civ., 8 gennaio 2003, n. 77).
 La quantificazione dell’indennizzo. Si è appena visto che l’indennità, nel ricomprendere gli elementi integrativi dell’art.1223 c.c., si traduce tanto nel danno emergente (rimborso delle spese sostenute e dei lavori eseguiti), quanto nel lucro cessante (mancato guadagno).
Talvolta, considerando tale indennizzo in maniera unitaria, la giurisprudenza si dimostra riduttiva, non consentendo di distinguere tra le varie componenti (spese sostenute, lavori eseguiti, mancato guadagno).
Occorre allora esaminare nello specifico i vari elementi che lo vanno a comporre. In primo luogo andranno rimborsati i lavori eseguiti dall’appaltatore sino al momento del recesso.  Con l’espressione “spese sostenute”, il legislatore si riferisce invece a tutte quelle spese che non sono state ancora tradotte nell’opera oggetto del contratto, ma che sono già state affrontate dall’appaltatore: per citare solo un esempio, le spese dell’appaltatore per (il già avvenuto) acquisto e trasporto di materiali. Per ciò che concerne le spese generali, non imputabili a singole determinate parti dell’opera, esse andranno rimborsate solo in proporzione alla parte di opera rimasta ineseguita.
Il “mancato guadagno” è infine costituito da ciò che l’appaltatore avrebbe ricavato dall’esecuzione del contratto nel tempo stabilito, inteso nel senso dell’utile, al netto delle spese, che l’appaltatore avrebbe realizzato. Secondo la più recente giurisprudenza di merito (Trib. Roma, sez. VIII, 9 settembre 2009; Trib. Milano, 15 settembre 2008; Trib. Monza, sez. IV, 7 luglio 2008) l’appaltatore che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, a norma dell’art.1671 c.c., ha solo l’onere di dimostrare quale sarebbe stato il guadagno conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate (differenza tra prezzo di appalto e costo delle stesse), restando salva per il committente la facoltà di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (Trib. Roma, sez.VIII, 9 settembre 2009. In senso conforme, già Cass. civ., 9 maggio 1966, n.1189).
Si tratta di dati, però, talvolta di difficile percezione e, soprattutto, prova.
Utili indicazioni a riguardo potrebbero allora trarsi dalla disciplina dettata in materia di appalti pubblici laddove il lucro cessante viene definito sulla base dell’utile economico derivante dall’esecuzione dell’appalto calcolato, generalmente, nella misura del 10% del valore complessivo dell’appalto medesimo.
Il criterio del 10% del valore dell’appalto è stato di recente ripreso dapprima con la c.d. Legge Merloni-ter (Legge 18 novembre 1998, n.415), in tema di project financing e, successivamente, dal D.lgs. 12 aprile 2006, n.163 (‘Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive comunitarie 2004/17/CE e 2004/18/CE’) il quale, all’art.134, ha previsto che, in caso di recesso, la pubblica amministrazione debba corrispondere al committente “il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite. Il decimo dell’importo delle opere non eseguite è calcolato sulla differenza tra l’importo dei quattro quinti del prezzo posto a base di gara, depurato del ribasso d’asta, e l’ammontare netto dei lavori eseguiti”. Da notarsi che la predefinita liquidazione al 10% viene computata sul valore dell’opera abbattuto di un 20% che corrisponde al cd.quinto d’obbligo, vale a dire il limite entro cui la stazione appaltante può determinare una variazione anche in ribasso dei lavori appaltati.
La giurisprudenza amministrativa ha inteso difatti attribuire al menzionato parametro legislativo la natura di criterio generale di quantificazione del margine di profitto dell’appaltatore nei contratti con la Pubblica Amministrazione ( T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 26 marzo 2008, n.2591 e Cons. St., sez. IV, 28 aprile 2006, n.2408).

Il summenzionato parametro previsto ex lege, probabilmente, può costituire un criterio di massima da seguire anche in ambito di appalti tra privati per la determinazione del lucro cessante da riconoscere all’impresa appaltatrice a seguito di recesso della committente, qualora il giudice ritenga di liquidare equitativamente il danno, non dimostrabile altrimenti con precisione in giudizio.

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Processo davanti Commissione Tributaria Provinciale

OGGETTO DELLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA
Tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati compresi quelli:

– Regionali, Provinciali e Comunali;
– Contributo per il Servizio Sanitario Nazionale;
– Sovrimposte;
– Addizionali;
– Sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari;
– Gli interessi ed ogni altro accessorio;
ATTI IMPUGNABILI
Il ricorso può essere proposto avverso:
– Avviso di accertamento;
– Avviso di liquidazione;
– Provvedimento che irroga le sanzioni;
– Ruolo e la cartella di pagamento;
– Avviso di mora;

Il ricorso deve indicare, a pena di inammissibilità:
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA adita:
cioè l’organo giurisdizionale cui si chiede la valutazione della controversia e la decisione;
IL RICORRENTE e suo legale rappresentante:
con le relative specificazioni (la mancanza del codice fiscale comporterà l’irrogazione della relativa sanzione amministrativa, ma non l’inammissibilità);
IL RESISTENTE:
Ufficio finanziario, Ente territoriale locale (Comune, Provincia e Regione), Agente della riscossione;
L’ ATTO IMPUGNATO
(avviso di accertamento, di rettifica, di liquidazione, di irrogazione delle sanzioni amministrative ecc.);
L’ OGGETTO della DOMANDA:
Annullamento totale o parziale delle pretese impositive contenute nell’atto impugnato e/o dichiarazione di nullità dello stesso;
I MOTIVI
per cui si ritiene di aver diritto all’accoglimento della domanda;
e deve recare la:
LA SOTTOSCRIZIONE
del difensore munito di procura (firmata dal ricorrente e autenticata dal difensore stesso) in calce o a margine del ricorso;
(come eccezione)
LA SOTTOSCRIZIONE
dello stesso ricorrente: solo per le controversie di valore inferiore a € 2.582,28, o se il ricorrente è abilitato alla difesa tecnica.
N.B: La SOTTOSCRIZIONE va apposta su tutti gli esemplari (originale e copie) del ricorso.

Il ricorso deve inoltre indicare (ancorché non a pena di inammissibilità):
IL CODICE FISCALE:
• del ricorrente, la cui omissione è punita con l’aumento del 50% del Contributo unificato dovuto;
• del difensore, la cui omissione è punita con la sanzione pecuniaria da € 103,00 a € 2.065,00;
NUMERO di FAX del difensore,
la cui omissione è punita con l’aumento del 50% del Contributo unificato dovuto ;
L’ INDIRIZZO di Posta elettronica certificata (P.E.C.)
• per i ricorrenti obbligati alla sua attivazione (società di capitali, ecc.), la cui omissione non comporta però alcuna conseguenza negativa per i trasgressori;
•del difensore, la cui omissione è punita con l’aumento del 50% del Contributo unificato dovuto;
LA DICHIARAZIONE di VALORE della controversia
(determinato in base ai criteri indicati nell’art. 12 del D.Lgs. 546/1992), la cui omissione comporta l’applicazione del Contributo unificato nella misura massima di € 1.500 (art. 13, comma 6, D.P.R. 115/2002).
MODALITÀ di PROPOSIZIONE del RICORSO  Non va più redatto in carta da bollo, essendo i ricorsi notificati a partire dal 7 Luglio 2011 assoggettati al Contributo unificato;
– Va intestato alla Commissione Tributaria Provinciale territorialmente competente;
– Viene trasmesso alla controparte resistente (Ufficio finanziario, Ente locale, Agente della riscossione):  con spedizione (alla controparte) dell’originale a mezzo posta in plico senza busta raccomandato A.R;
– o con consegna diretta dell’originale all’Ufficio finanziario o all’Ente locale, che rilascia ricevuta su un documento separato intestato al consegnatario (o sulla copia del ricorso in carta semplice). (N.B.: non è ammessa la consegna diretta del ricorso all’Agente della riscossione);
– mediante notifica della copia (conforme all’originale) del ricorso a mezzo di Ufficiale Giudiziario, che rilascia «relata di notifica» sull’originale; il quale viene restituito al difensore del ricorrente (o, nei casi di ricorso diretto del ricorrente, a quest’ultimo).
TERMINI per la PROPOSIZIONE del RICORSO
– Il ricorso deve essere spedito o consegnato o notificato entro 60 giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato (termine perentorio).
– Nel caso che esso riguardi la restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie,interessi o altri accessori non dovuti:
Presupposto del ricorso è la previa istanza di restituzione inoltrata, all’Ufficio competente nei termini di decadenza (per i versamenti diretti entro 48 mesi);
Il ricorso va proposto entro 60 giorni dal rifiuto dell’Ufficio o decorsi 90 giorni (cioè dopo la formazione del cd. silenzio-rifiuto) ed entro il termine di prescrizione decennale.
RICHIESTA DI RIMBORSO
TERMINI per la COSTITUZIONE in GIUDIZIO del RICORRENTE • Il ricorrente si costituisce in giudizio depositando (o, con qualche rischio, anche spedendo), entro 30 giorni dalla proposizione del ricorso, a pena di inammissibilità, presso la Segreteria della Commissione Tributaria adita:
la copia del ricorso, se la proposizione è avvenuta a mezzo posta o mediante consegna diretta; con la precisazione che tale copia (destinata alla Commissione) deve essere dichiarata conforme con quella spedita o consegnata alla controparte. La dichiarazione di conformità della copia depositata va apposta in calce alla copia del ricorso e sottoscritta dal difensore incaricato (o dal ricorrente, se si è difeso personalmente).
l’originale del ricorso, se la notificazione della copia è avvenuta a mezzo di Ufficiale giudiziario.
DEPOSITO DEL FASCICOLO
• Il cui frontespizio riporta la Commissione adita, i dati del ricorrente, del difensore incaricato, della controparte, l’oggetto della controversia e l’indice del contenuto.
1. eventuali documenti (citati nel ricorso o comunque ritenuti utili)
3. la copia della ricevuta del ricorso rilasciato dall’Ufficio destinatario (nel caso di consegna diretta) o dall’Ufficio postale (nel caso di spedizione a mezzo Racc. A.R.),
2. L’originale o la fotocopia dell’atto impugnato
4. la prova dell’avvenuto pagamento del Contributo unificato
• Il difensore del ricorrente (o, nei casi di difesa diretta, lo stesso ricorrente) deve depositare o spedire in Segreteria, insieme con il ricorso, il proprio fascicolo, comprendente:
DEPOSITO DEL FASCICOLO
5. Nel caso in cui ci si sia avvalsi dell’Ufficiale giudiziario,
la «relata» che attesta l’avvenuta notificazione del ricorso,
6. inoltre il deposito della nota di iscrizione a ruolo (art. 22, comma 1, D.Lgs. 546/1992), in sostituzione della cd. «nota di deposito» la cui presentazione era stata prevista e disciplinata nella Circolare Dipartimento Politiche Fiscali n. 7297 dell’1.2.2006
DEPOSITO DOCUMENTI, MEMORIE ILLUSTRATIVE, ISTANZA PUBBLICA UDIENZA e BREVI REPLICHE
• Le parti possono depositare presso la Segreteria della Commissione Tributaria in originale e in tante copie quante sono le altre parti:
•documenti fino a 20 «giorni liberi» prima della data di trattazione della controversia in pubblica udienza;
•memorie illustrative fino a 10 «giorni liberi» prima della data di trattazione in pubblica udienza;
• brevi repliche fino a 5 «giorni liberi» prima della trattazione in Camera di consiglio.
L’ISTANZA DI PUBBLICA UDIENZA
• va depositata entro 10 «giorni liberi» prima della data per la trattazione; nello stesso termine va notificata alle altre parti costituite (Ufficio finanziario, Comune, Agente della riscossione, ecc.).
• DOCUMENTI NON CONOSCIUTI:
presentati dalla controparte o per ordine della Commissione: è l’unico caso in cui è ammessa l’integrazione dei motivi esposti nel ricorso introduttivo; tale facoltà va esercitata entro 60 giorni da quando la parte ha avuto notizia del deposito di nuovi documenti, prima che sia stata fissata la trattazione o l’udienza (se già fissata si può chiedere il rinvio). • UDIENZA – AVVISO di TRATTAZIONE:
la Segreteria della Commissione deve dare comunicazione – alle parti in giudizio della data di trattazione della controversia; tale comunicazione deve essere fatta almeno 30 giorni liberi prima della data dell’udienza.
LE REGOLE per il COMPUTO dei TERMINI PROCESSUALI
Per il computo dei termini valgono le regole contenute nell’art. 155 c.p.c. integrate da quelle previste nell’art. 2963 c.c.:
COMPUTO DEI TERMINI
nel conteggio dei termini a giorni, si esclude il giorno iniziale (dies a quo) e si comprende il giorno finale (dies ad quem).
Ma se il termine viene a scadere in un giorno festivo o di sabato:
1. In caso di presentazione del ricorso o di costituzione in giudizio del ricorrente la scadenza del termine è prorogata al primo giorno successivo non festivo;
2. In caso di presentazione di documenti e memorie illustrative, dato che il computo del termine va fatto «a ritroso»,
la scadenza del termine è anticipata al primo giorno precedente non festivo.
GIORNI LIBERI:
• Per il computo dei «giorni liberi», a differenza dei termini normali, non va considerato né il giorno iniziale (dies a quo), né il giorno finale (dies ad quem).
ES: Se la data di trattazione è fissata per lunedì 25 marzo 2013, il termine di scadenza per il deposito delle memorie sarà giovedì 14 marzo 2013, mentre per il deposito dei documenti il termine scade lunedì 4 marzo 2013.
• Se però il termine (iniziale o) finale cade in un giorno festivo (sabato, domenica o festività riconosciute) allora si deve conteggiare un giorno (o due) in più. ES: Se la data di trattazione è giovedì 28 marzo 2013, il termine per il deposito della memoria scade venerdì 15 marzo 2013 (dato che il 17 marzo è una Domenica e non rileva neanche il giorno precedente, cioè il 16 che è un sabato).
PERIODO FERIALE:
• Tutti i termini processuali subiscono una sospensione dall’1 al 31 Agosto di ogni anno. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine del detto periodo.
Ne deriva che tale periodo di ogni anno viene escluso dal computo dei giorni utili.
DEPOSITO di DOCUMENTI e MEMORIE ILLUSTRATIVE:
– Anche in questo caso, pur dovendo effettuare il computo a ritroso dei giorni liberi, occorre tener presente sia il periodo che il giorno festivo (cui viene equiparato il sabato).
UDIENZA – AVVISO di TRATTAZIONE:  fra la ricezione della comunicazione e l’udienza di trattazione devono intercorrere almeno 30 giorni «liberi» (tenendo conto anche della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale);
ACCERTAMENTO con ADESIONE
– anche in questo caso vale il periodo di sospensione feriale.
I 90 giorni decorrono dal giorno in cui è stata depositata l’istanza presso l’ufficio e possono sommarsi con i giorni di sospensione dovuti al periodo feriale .

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