1– Nel nostro ordinamento esistono una molteplicità di riti e due fondamentali modelli di atto introduttivo del processo, la citazione ed il ricorso. Ciò comporta l’eventualità che talora la parte proponga la domanda secondo un rito errato o mediante un atto la cui forma è diversa da quella prevista per il rito corretto. Le due tipologie d’errore non necessariamente coesistono.Si può infatti distinguere tra:
1) errore nella scelta del rito che non incide sulla forma dell’atto introduttivo o, comunque, non coinvolge la summa divisio tra citazione e ricorso (ad es. la causa viene introdotta con ricorso, impiegando le forme del rito sommario di cognizione anziché quelle del rito del lavoro);
2) errore nella scelta del rito che si ripercuote anche sul modello formale dell’atto introduttivo (ad es. è prescelto il rito del lavoro anziché quello ordinario e conseguentemente la domanda è proposta con ricorso anziché con citazione);
3)erroneo impiego della citazione o del ricorso che non discende dall’adozione di un rito errato.
Essendo nostra intenzione occuparci unicamente delle conseguenze dell’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo, trascureremo la prima ipotesi per occuparci delle restanti due.
Nel secondo caso appena delineato l’attore individua un complesso di norme che regolano il processo, ovvero un rito, ed agisce in giudizio osservandole, sennonché la causa avrebbe dovuto essere trattata secondo un rito differente. Si ha dunque una falsa applicazione di quelle norme, da cui scaturisce l’esigenza di un intervento del giudice mediante il quale il processo è ricondotto al tipo procedimentale corretto, ovvero si opera il mutamento del rito.
Nel terzo caso invece l’attore non propone la domanda secondo un rito diverso da quello imposto dalla legge, bensì interpreta erroneamente e di conseguenza viola le norme dettate per il rito (corretto) adottato, in particolare quelle concernenti la forma da impiegare per l’atto introduttivo.
La classificazione appena proposta soffre certamente di astrattezza in quanto, in concreto, la distinzione tra errori che coinvolgono anche il rito ed errori che concernono la sola forma dell’atto introduttivo non è affatto netta.Talvolta la parte non dichiara espressamente sulla base di quale rito sta proponendo la domanda: in questi casi la forma prescelta per l’atto introduttivo viene considerata indicativa del rito prescelto e, dunque, l’eventuale errore è ricondotto ad un errore di rito – che si ripercuote sulla forma dell’atto introduttivo – anziché ad un errore concernente la sola forma dell’atto.
Si immagini l’eventualità in cui l’attore proponga con citazione una domanda avente ad oggetto le provvigioni dovute per l’attività di agente di commercio, senza offrire indicazioni esplicite in ordine al rito prescelto. Si potrebbero ipoteticamente profilare due eventualità: l’attore ha ritenuto che la propria domanda vada trattata secondo il rito ordinario (convincimento in taluni casi corretto, secondo la giurisprudenza (1) oppure, per totale sconoscenza dell’art. 414 c.p.c.,ha ipotizzato che nel rito del lavoro la domanda si debba proporre con citazione. In una simile eventualità il giudice sarà naturalmente portato a ritenere che si sia verificata la prima eventualità e non la seconda,considerando il secondo errore improbabile in quanto troppo macroscopico.
Un errore nell’individuazione del rito, tuttavia, talvolta è difficilmente ipotizzabile.Si pensi alle impugnazioni delle delibere dell’assemblea condominiale proposte con ricorso anziché con citazione alla luce delle ambiguità che l’art. 1137 c.c., nel testo vigente sino al giugno 2013, presentava(2). La scelta dell’attore di proporre la domanda con ricorso discendeva, di norma, non dall’adozione di un rito speciale anziché di quello ordinario, bensì dall’adesione alla tesi – inizialmente sostenuta dalla Corte di cassazione ed in seguito respinta dalle sezioni unite(3) – secondo cui il ripetuto riferimento al “ricorso” contenuto all’art. 1137 c.c. denotava un’opzione del legislatore per questa tipologia di atto introduttivo,in deroga alle norme dettate per il rito ordinario. Vi sono infine ipotesi nelle quali, secondo numerosi interpreti,la possibilità di far discendere l’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo da un errore nell’individuazione delrito applicabile va esclusa in radice. La posizione si fonda, come vedremo, su talune norme dalle quali si può evincere che l’errore nella scelta del rito cui consegue la possibilità, per il giudice, di disporne il mutamento, può essere commesso solo introducendo il giudizio di primo grado. Secondo questa tesi è possibile configurare unicamente un errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo quando quest’ultimo ha la funzione di dare impulso ad una seconda fase del processo, meramente eventuale, o ad un grado di giudizio ulteriore. Rientrano nella prima categoria l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta con citazione anziché con ricorso, come si impone quando la contesa riguarda la materia del lavoro(4)o quella locatizia(5), e viceversa, come talvolta accade nelle opposizionial decreto ingiuntivo ottenuto dal difensore per il pagamento del compenso professionale(6). Sono invece riconducibili alla seconda ipotesi gli errori commessi nell’introdurre il giudizio di appello, ripetutamente emersi nella casistica giurisprudenziale, ad esempionei procedimenti di divorzio(7).
Nel prosieguo della trattazione vedremo quali conseguenze derivino, secondo dottrina e giurisprudenza, dalla commissione di un errore che coinvolge anche la scelta del rito applicabile ovvero il solo modello formale di atto introduttivo, registrando come, secondo l’opinione prevalente, vi siano profonde differenze tra le une e le altre. Ci interrogheremo quindi sulla legittimità di una tale disparità e proporremo una diversa opzione interpretativa, che assicuri maggiore uniformità e contemperi in maniera più soddisfacente gli interessi delle parti.
2– In prima battuta è indispensabile comprendere quali conseguenze derivino da un errore nella scelta del rito applicabile che si ripercuota anche sulla forma dell’atto introduttivo. Le norme in tema di mutamento del rito di più risalente applicazione sono contenute negliartt. 426 e 427 c.p.c., che dettano le modalità per il passaggio dal rito ordinario a quello del lavoro e viceversa. Le due disposizioni escludono anzitutto implicitamente che il processo debba chiudersi senza decisione nel merito per il solo fatto di essere stato iniziato secondo un rito errato, ossia che l’esattezza del rito costituisca un presupposto processuale(8).Quest’ultima soluzione, peraltro, risulterebbe in forte contrasto con il principio di economia processuale.
L’art. 426 c.p.c. afferma che, se una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti di cui all’art. 409, c.p.c., il giudice deve fissare un termine perentorio per integrare gli atti introduttivi mediante il deposito di una memoria e di eventuali documenti. In questo modo il regime delle preclusioni, più elastico nel rito ordinario, viene ad allinearsi con quello proprio del rito del lavoro(9).
La previsione consente di trarre un’importante conclusione: se un processo è iniziato per errore con il rito ordinario, vanno applicate le regole proprie di quest’ultimo sino a che il giudice non ne decide il mutamento.Non si verifica quindi alcuna forma di conversione degli atti compiuti nei corrispettivi atti propri del rito del lavoro, né si applicano, prima del mutamento, regole dettate per la fase introduttiva del processo del lavoro(10). Se così fosse, non vi sarebbe ragione di imporre la fissazione del termine appena menzionato in quanto le preclusioni, anche istruttorie, sarebbero maturate sin dal deposito degli atti introduttivi.
La giurisprudenza ha inoltre più volte affermato che, quand’anche il processo si sia svolto secondo un rito errato, l’impugnazione della sentenza deve avvenire con le forme previste per il rito seguito sino a quel momento(11); sarà in seguito il giudice dell’impugnazione, ove occorra, a disporne il mutamento (c.d regola dell’ultrattività del rito, peraltro fonte essa stessa dierrori nella scelta della forma dell’atto da impiegare per introdurre il giudizio di impugnazione).
L’art. 427 c.p.c., a proposito del passaggio dal rito del lavoro a quello ordinario, si limita invece a prevedere che il giudice disponga la regolarizzazione degli atti con le disposizioni tributarie, salvo il caso in cui, alla luce delle norme proprie del rito corretto, debba dichiararsi incompetente. Quanto alle preclusioni, esse,secondo l’opinione prevalente,vengono meno nella misura in cui non sarebbero ancora maturate qualora la causa si fosse svolta sin dall’origine secondo il rito ordinario(12). Questa soluzione tuttavia non discende dalla necessità di operare una qualche forma di conversione degli atti introduttivi nei loro omologhi ordinari o di applicare norme proprie del rito ordinario ad un processo svoltosi, sino a quel momento, secondo il rito del lavoro, bensì dalla necessità di evitare che le parti, in conseguenza dell’adozione del rito errato, incorrano in un pregiudizio alle loro facoltà difensive.
L’errore commesso dall’attore nell’individuare il rito applicabile, con ripercussioni sul modello formale prescelto per l’atto introduttivo, è dunque corretto dal giudice senza che ciò comporti significativi pregiudizi per l’attore stesso, salvaguardando il diritto delle parti di difendersi e l’esigenza che il processo giunga ad una decisione sul merito. La disciplina contenuta negli artt. 426 e 427 c.p.c. è in seguito divenuta applicabile anche ad altre ipotesi nelle qualiva disposto il passaggio dal rito ordinario ad un rito speciale o tra riti speciali diversi(13). La l. 26.11.1990, n. 353 ha infatti aggiunto all’art. 40 c.p.c. due commi (3° e 4°) che individuano il rito applicabile alle cause connesse ed uno (il 5°) che rinvia ai due articoli appena citati per il caso in cui il giudice debba provvedere al mutamento di rito.
Una norma in tema di mutamento del rito è contemplata anche nel procedimento sommario di cognizione, introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69: l’art.702-ter, comma 3°, c.p.c. prevede che, qualora la causa non possa essere istruita sommariamente, il giudice fissi l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. ed “in tal caso si applicano le disposizioni del libro II”. Il processo dunque prosegue con le forme ordinarie senza necessità di convertire l’atto introduttivo – che nel procedimento sommario riveste le forme del ricorso – in citazione(14). Da ultimo, all’art. 4 del d. lgs. 1.09.2011, n. 150,è stata dettata una disciplina uniforme del mutamento di rito, da adottare ogni qual volta una controversia assoggettata ad un rito “semplificato”, ossia regolato dal medesimo decreto, sia introdotta con un rito errato(15).La normapresenta alcune differenze di non poco momento rispetto a quanto previsto dalle disposizioni viste sinora: si prevedeanzitutto che il rilievo dell’erroneità del rito non possa avvenire oltre la prima udienza, segno di come, nella disciplina più recente, il legislatore ritenga i tre grandi modelli procedimentali, il rito ordinario, quello del lavoro e quello sommario (due dei quali introdotti con ricorso ed uno con citazione), sostanzialmente equivalenti.
L’art. 4, comma 5°, del d.lgs. n. 150 del 2011 mantiene inoltre fermi sia gli effetti processuali e sostanziali della domanda prodottisi secondo il rito seguito prima del mutamento, sia le preclusioni maturate in base ad esso. La seconda previsione è decisamente innovativa. La prima invece è sostanzialmente in linea con i risultati raggiunti nell’interpretazione degli artt. 426 e 427 c.p.c. di cui abbiamo dato conto poc’anzi, ma trova espressamente applicazione anche in taluni giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo (in particolare quelli in materia di compenso dovuto all’avvocato per le prestazioni giudiziali civili) nei quali, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, la possibilità di configurarel’errore commesso dall’attore come errore di rito, con conseguente applicazione delle normeche ne regolano il mutamento, è generalmente esclusa dalla giurisprudenza.
3– Vi sono ipotesi nelle quali la prevalente giurisprudenza e parte della dottrina(16) reputano impossibile ricondurre l’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo ad un più generale fraintendimento in ordine al rito applicabile e fare conseguentemente applicazione della disciplina esaminata nel precedente paragrafo. Ciò accade perlo più in due ambiti: allorquando l’atto introduce la seconda fase, meramente eventuale, di un procedimento (è il caso dell’opposizione a decreto ingiuntivo) oppure un giudizio di impugnazione. Per quanto concerne i giudizi di impugnazione, la posizione si fonda anzitutto sul dettato dell’art. 439 c.p.c. La norma afferma che il giudice d’appello deve provvedere ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c. qualora ritenga che il giudizio di primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto. Essa non menziona invece la possibilità di porre rimedio ad un errore di rito commesso nell’introdurre il giudizio d’appello. Se ne deduce l’inapplicabilità, a quest’ultimo caso,della disciplina del mutamento di rito. La conclusione appare espressione di una regola più ampia. Da una lettura sistematica delle norme in tema di mutamento del rito emerge infatti come la scelta del rito spetti all’attore solo all’inizio del processo; quando invece il procedimento è pendente ed è già determinato il complesso di norme processuali ad esso applicabili, la materia è sottratta alla disponibilità delle parti e solo il giudice dispone del potere di mutare rito.L’adozione di una forma erronea per un atto di parte si risolve dunque in una violazione delle norme dettate per il rito adottato e non può comportare il passaggio ad un rito diverso.
Quanto abbiamo appena affermato consente di comprendere perché si escluda la possibilità di applicare le norme sul mutamento di rito anche all’opposizione a decreto ingiuntivo. L’opposizione è proposta a lite pendente (art. 643 c.p.c.), una lite che, tuttavia, sotto il profilo del rito applicabile, presenta un’insidia: è caratterizzata da una prima fase “neutra”, quella monitoria, nella quale il ricorrente non opta espressamente per uno specifico rito da seguire nell’eventuale giudizio di opposizione.
In tutti i casi appena veduti viene dunque ravvisato unicamente un errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo,il cui trattamento è ben più severo di quello visto poc’anzi. Secondo la prevalente giurisprudenza (in particolare due recenti sentenze delle sezioni unite (17), qualora l’attore commetta un simile sbaglio, va operata la conversione dell’atto introduttivo nella forma corretta: la citazione deve divenire ricorso e viceversa. Secondo le decisioni appena citate, alla conversione consegue uno spostamento in avanti del momento in cui l’atto produce i propri effetti, impedendo il maturare di una decadenza. Si argomenta infatti che, se la domanda deve proporsi con ricorso, la pendenza della lite si ha al momento del deposito di quest’ultimo in cancelleria, pertanto la citazione erroneamente impiegata e soggetta a conversione in ricorso può produrre effetto solo al momento del suo deposito e non in quello, anteriore, della notificazione. Viceversa, il ricorso convertito in citazione si considera proposto solo al momento della sua notificazione unitamente al decreto di fissazione d’udienza. I pregiudizi che possono derivare all’attore dall’adozione della tesi appena esposta sono evidenti: chi, ad esempio, propone appello con citazione anziché con un ricorso e ne richiede la notificazione in prossimità della scadenza del termine per impugnare, potrebbe vedersi dichiarata l’impugnazione tardiva, perché l’atto è stato depositato a termine ormai spirato. Il rischio è ancor più grave quando è prescelto per errore il ricorso: il decreto di fissazione d’udienza può essere pronunciato anche molti giorni dopo il deposito, rendendo impossibile la notificazione tempestiva dell’atto convertito. Le conseguenze della conversione, per il resto, sono sostanzialmente irrisorie: la trasformazione della citazione in ricorso, ad esempio, dovrebbe comportare la caducazione della fissazione d’udienza in essa contenuta – poiché il ricorso non la prevede – ma, di regola, i giudici in questi casi non pronunciano alcun decreto di fissazione d’udienza, teso a mutare o confermare la data indicata dall’attore, tenendo invece valida quest’ultima(18). Solo in talune ipotesi la giurisprudenza pare prescindere dalle regole appena illustrate. In particolare si registrano significative differenze per quanto concerne il trattamento dell’errore commesso nella scelta del modello formale di atto da utilizzare per la riassunzione del processo interrotto o sospeso: si è infatti affermata in più occasioni l’equipollenza tra citazione e ricorso, escludendo la necessità di conversione e del conseguente spostamento in avanti del momento in cui l’atto produce i propri effetti, impedendo l’estinzione del processo(19). La necessità di operare la conversione dell’atto introduttivo viene talvolta ravvisata anche quando l’errore commesso dall’attore è difficilmente riconducibile all’opzione per un diverso rito – essendo arduo comprendere quale altro rito l’attore abbia prescelto – anziché ad un semplice fraintendimento di singole norme dettate per il rito corretto: è il caso dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione proposta con citazione e non con ricorso(20).Conclusioni opposte sono state tuttavia tratte a più riprese perle impugnazioni delle delibere dell’assemblea condominiale proposte secondo un modello formale errato, a proposito delle quali si è sostenuta la piena equipollenza tra citazione e ricorso, con la conseguente possibilità di ritenere tempestiva tanto l’impugnazione proposta con citazione notificata entro trenta giorni quanto quella proposta con ricorso depositato nei medesimi termini(21). E’ lecito nutrire dubbi in ordine all’impossibilità di equiparare l’errore commesso nel proporre opposizione a decreto ingiuntivo o, comunque, nel dare impulso alla seconda fase del procedimento,a quelloconcernente l’introduzione di un giudizio di primo grado, mentre minori perplessità ci pare possano essere avanzate per le impugnazioni.Le conclusioni cui giunge la giurisprudenza, tuttavia, creanoun intuibile disagio all’interprete anche su un altro piano, più generale:errori nella sostanza molto simili tra loro, se non identici, ricevono un trattamento fortemente differenziato, molto più severo in caso di conversione dell’atto introduttivo di quanto non accada quando il giudice dispone il mutamento del rito.
4– La Corte di cassazione a sezioni unite, come anticipato, nel 2013 è intervenuta con due pronunce sulla materia di cui ci occupiamo, ribadendo l’orientamento più tradizionale e consolidato in merito alla necessità di operare la conversione dell’atto introduttivo ed alle conseguenze che ne derivano ed affermando la portata generale di questo insegnamento(22). Un orientamento difforme pareva invece potersi fare strada anche al di fuori del ristretto ambito delle impugnazioni delle delibere condominiali quando,come detto, nel 2011 le stesse sezioni unite, risolvendo il contrasto sorto in ordine all’interpretazione dell’art. 1137 c.c.,erano intervenute sulle conseguenze dell’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo, sia pure con un obiter dictum(23). Il primo caso portato all’attenzione della Corte nel 2013 riguardava un decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di prestazioni giudiziali rese dall’avvocato, opposto con ricorso anziché con citazione in quanto la difesa del cliente era stata tratta in inganno dal riferimento al rito camerale contenuto nella l. 13 giugno 1942, n. 794. La materia è stata in seguito riformata dal già citato d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150(24) ed infatti i giudici di legittimità hanno precisato che la soluzione adottata nella sentenza non può trovare applicazione ai giudizi introdotti dopo l’entrata in vigore del decreto. La ricostruzione della Corte tuttavia, a nostro avviso, presta il fianco ad una critica: il d.lgs. n. 150 del 2011 detta una disciplina unitaria del mutamento di rito, dichiarata espressamente applicabile sia ai giudizi di primo grado che si svolgono in un’unica fase, sia alle opposizioni a decreto ingiuntivo nelle materie oggetto del provvedimento. Il legislatore evidentemente ha ritenuto che tutti i giudizi di primo grado siano, sotto questo punto di vista, meritevoli di un identico trattamento. Le disposizioni sul mutamento di rito contenute nel codice di procedura civile, come abbiamo visto in precedenza, segnano una differenza tra il trattamento dell’errore in primo grado e in appello, ma tacciono in merito al trattamento dell’errore commesso nel passaggio da una fase all’altra del procedimento. Il silenzio normativo aveva già spinto un autore(25) a sostenere chegli artt. 426 e 427 c.p.c.dovessero trovare applicazione anche nei giudizi di primo grado strutturati in due fasi: una conclusione che, a nostro avviso, il d.lgs. n. 150 del 2011 avvalora, ma le sezioni unite non hanno fatto propria. La disciplina contenuta nel d.lgs. n. 150 del 2011 fa tuttavia sorgere un interrogativo ulteriore: per quale ragione all’attore è riservata una tale disparità di trattamento non tra giudizio di primo grado e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che assolve anche a funzioni lato sensuimpugnatorie, ma tra opposizione e opposizione? I principi affermati nel 2013 dalle sezioni unite, infatti, hanno portata generale e, se non troveranno più concreta applicazione per le opposizioni a decreto ingiuntivo assoggettate ad un rito “semplificato”, potranno farlo per altre. La necessità di operare la conversione dell’atto introduttivo senza disporre il mutamento di rito, in altri termini, comporta un evidente pregiudizio alle possibilità di difesa dell’attore, ma viene oggi riconosciuta solo per alcuni procedimenti bifasici e non per altri, nonostante questi ultimi siano privi di peculiarità tali da giustificare una simile discrasia(26).Ci pare esemplare il raffronto tra l’opposizione a decreto ingiuntivo riguardante ilcompenso dovuto all’avvocato per prestazioni giudiziali – la sola ad essere soggetta al d.lgs. n. 150/2011 – e quellainerenteprestazioni stragiudiziali. Si pensi anche all’opposizione in materia agraria (27), cui è applicabile l’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011, ed a quella in materia di lavoro, ove invece l’operatività della norma è esclusa. Crediamo che questa disparità di trattamento non siain linea con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. La soluzione fatta propria dalle sezioni unite è invece maggiormente condivisibile per quanto concerne i giudizi di impugnazione, sotto svariati punti di vista. Anzitutto l’attore – o il giudice – nel corso del primo grado di giudizio ha compiuto una scelta esplicita in ordine al rito applicabile, dunque non è presente quanto meno(28) l’insidia rappresentata dalla “neutralità” della prima fase del procedimento, vista sopra a proposito delle opposizioni a decreto ingiuntivo. In secondo luogo, proprio l’esistenza di questa esplicita opzione preclude la possibilità di qualificare l’errore che concerne la forma dell’atto di impugnazionecome conseguenzadell’adozione di un rito errato.Come abbiamo ricordato nel precedente paragrafo, da un esame sistematico delle norme sul mutamento di rito emerge infatti che il potere di mutare il rito spetta unicamente al giudice.Ammettere la possibilità che un errore di rito sia compiuto in gradi successivi al primo (essenzialmente nel giudizio d’appello, giacché per il giudizio di cassazione il problema non si pone), significherebbe invece introdurre in capo alla parte una vera e propria facoltà di operare il mutamento di sua iniziativa, un’iniziativa per di più implicita, ossia che si dovrebbe desumere dall’adozione di un modello formale di atto introduttivo diverso da quello previsto per il rito seguito sino a quel momento. Infine non vi sono trattamenti differenziati dell’errore commesso nel giudizio di impugnazione, non esiste dunque quella disparità veduta poc’anzi a proposito delle diverse tipologie di opposizione a decreto ingiuntivo. Resta ora da comprendere se le conseguenze dell’errore che coinvolgeil solo modello formale di atto introduttivo debbano essere quelleindividuate dalla giurisprudenza o se non sia invece preferibile aderire asoluzioni interpretative differenti, argomento che affronteremo nel prossimo paragrafo.
5– La conversione rappresenta un fenomeno ben noto nell’ambito sostanziale: si pensi all’art. 1424 c.c., a norma del quale il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso se ne soddisfa i requisiti di forma e sostanza, qualora risulti che le parti lo avrebbero voluto, se avessero conosciuto la nullità. Nel codice di rito, al contrario, la conversione non è espressamente disciplinata da alcuna norma. La dottrina ritiene nondimeno che essa possa operare anche per gli atti processuali, quale manifestazione dei principi di conservazione degli atti giuridici ovvero di economia processuale(29). Anche la giurisprudenza, come abbiamo visto, riconosce alla conversione diritto di cittadinanza in campo processuale. Il fondamento normativo e le conseguenze della conversione, tuttavia,destano perplessità. La giurisprudenza prevalente richiama l’art. 156, c. 3°, c.p.c., ovvero la sanatoria della nullità formale per raggiungimento dello scopo. In altri casi si menziona l’art. 159, c. 3°, c.p.c., secondo cui l’atto processuale, qualora non possa produrre un dato effetto perché è viziato, può tuttavia produrne altri, per i quali risulta idoneo(30). L’art. 156, comma 3°, c.p.c., afferma che, in caso di raggiungimento dello scopo, “la nullità non può essere dichiarata”. Da questa locuzione si ricava la natura retroattiva della sanatoria(31). Allorquando la citazione viene convertita in ricorso e si scrutina il momento del suo deposito anziché quello della notificazione– o viceversa, come si è vistonel paragrafo 3 – la nullità dell’atto è invece pronunciata e la sanatoria si considera operante in un momento successivo a quello in cui è stato compiuto l’atto invalido. Talvolta la giurisprudenza sostiene(32)che la nullità derivante dall’impiego di una forma errata per l’atto introduttivo si sana, oltre che per la tempestiva notifica del ricorso impropriamente utilizzato dall’attore,anche alla luce della scelta della controparte di costituirsi senza proporre alcuna eccezione; in questo modo viene tuttavia a crearsi una commistione tra ragioni oggettive e soggettive di sanatoria(33).Il richiamo alla condotta dell’avversario in uno degli àmbiti in cui più spesso la giurisprudenza ricorre all’istituto della conversione, i giudizi di impugnazione,non è inoltre calzante in quanto la tardività dell’impugnazione e la conseguente formazione del giudicato possono essere rilevate d’ufficio(34).Se davvero l’impugnazione proposta con citazione anziché con ricorso producesse effetto solo al momento del deposito dell’atto in cancelleria, il collocarsi di quest’ultimo incombente dopo lo spirare del termine imposto all’attore dovrebbe comportare una declaratoria di inammissibilità anche nel silenzio dell’altra parte. Identiche considerazioni valgono per l’opposizione a decreto ingiuntivo (35). Quanto poi all’art. 159 c.p.c., la conversione di cui ci occupiamo, per come è delineata dalla giurisprudenza, non comporta che un determinato atto, improduttivo di un effetto, ne realizzi tuttavia un altro o realizzi effetti quantitativamente ridotti; semplicemente essa differisce il momento in cui l’atto produce l’unico effetto che qui rileva, ossia la proposizione della domanda o dell’impugnazione. I profili critici appena evidenziati crediamo dimostrino come il ricorso alla figura della conversione dell’atto processuale e le conseguenze che da quest’ultima derivano secondo la prevalente giurisprudenza vadano complessivamente ripensate(36). Il punto di partenza di una diversa ricostruzione deve, a nostro avviso, necessariamente essere una riflessione sulle ragioniche inducono a collocare in un determinato momento gli effetti dell’atto introduttivo del giudizio. Di regola gli effetti della domanda si producono con la notificazione della citazione o con il deposito del ricorso, come si evince dall’art. 39 c.p.c.(37). Vi sono tuttavia alcuni giudizi di impugnazione nei quali l’atto introduttivo riveste le forme del ricorso e nondimeno la sua tempestività deve essere valutata avendo riguardo alla notificazione, non al deposito: è il caso del regolamento di competenza, per il quale l’art. 47 molto chiaramente dispone: “il ricorso deve essere notificato alle parti che non vi hanno aderito entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza”. Anche il ricorso per cassazione – come si può ricavare dall’art. 369, comma 1°, c.p.c. – deve essere notificato e non depositato nei termini previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c. Lo stesso accade per il ricorso incidentale: il termine per la sua proposizione si considera rispettato con la notificazione e non con il successivo deposito dell’atto che lo contiene (artt. 370 e 371 c.p.c.). La ratio delle norme appena citate ci pare evidente: l’impugnazione si considera proposta nel momento in cui l’atto che la contiene esce dalla sfera di disponibilità della parte, venendo comunicato ad uno degli altri soggetti del processo, sia esso il giudice o la controparte.Quando ciò avviene, il suo contenuto si cristallizza echi ha compiuto l’atto non può più integrarlo o correggerlo alterando materialmente la citazione o il ricorso.La parte, inoltre, in questo modo offre una inconfutabile manifestazione della propria volontà di compiere gli atti processuali che, nel documento, dichiara di porre in essere(38). Riprendendo le affermazioni di Carnelutti(39), si può concludere che l’atto introduttivo produce i propri effetti nel momento in cui alla creazione del documento che lo contiene si aggiunge la sua emissione (nel nostro caso qualificata, in quanto prevede, di norma, l’intermediazione di un soggetto pubblico, il cancelliere o l’ufficiale giudiziario) e l’insieme di questi due elementi fa sorgere una dichiarazione. L’emissione qualificata del documento che contiene la domanda o l’impugnazione può tuttavia avvenire mediante l’impiego di due strumenti imprescindibili se complessivamente considerati, ma tra loro equipollenti, ossia la notificazione ed il deposito(40).Non ci pare invece possibile sostenere che, se l’atto ha forma di ricorso, ne è indispensabile il deposito mentre la sua notificazione non assolve allo scopo o viceversa.La riprova di quanto sosteniamo deriva appunto dalle norme citate poc’anzi, che talvolta impongono di notificare un ricorso prima di depositarlo ed in tal caso ne giudicano la tempestività avendo riguardo alla data di notificazione. Veniamo ora alle conseguenze dell’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo. Qualora la domanda sia proposta con ricorso anziché con citazione, certamente l’atto processuale è affetto danullità, perché strutturalmente diverso da quello previsto dalla legge(41)e privo di alcuni dei requisiti formali prescritti dall’art. 163 c.p.c. Esso contiene tuttavial’editioactionis e, in conseguenza del deposito,raggiunge gli scopi perseguiti dal modello legale, quanto meno nella misura necessaria al prodursi degli effetti sostanziali e processuali della domanda e ad evitare la consumazione della facoltà di impugnare la sentenza o dare altrimenti impulso al processo.Il raggiungimento dello scopo comporta la sanatoria (retroattiva)della nullità ai sensi dell’art. 156, comma 3°, c.p.c.Lo stesso vale, mutatis mutandis, al momento della notificazione,ove venga impiegata per errore la forma della citazione. A ben vedere, questa conclusione è in linea con il disposto dell’art. 156, c. 3°, c.p.c.: la sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo presuppone infatti che una nullità formale esista e che lo scopo sia raggiunto a dispetto di questa carenza, ovvero che l’atto non sia stato compiuto con le forme prescritte, ma abbia raggiunto lo scopo pur rivestendo forme differenti. Il ricorso depositato, come detto,non possiede tutti gli elementi che devono comporre l’atto di citazione, in particolare quelli che assolvono alla funzione divocatio in ius, maquesta carenza affligge anche il ricorso notificato unitamente al decreto di fissazione d’udienza, che non contiene l’avvertimento di cui all’art. 163, n. 7, c.p.c.(42). L’udienza, inoltre, potrebbe essere stata fissata in violazione dei termini minimi a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., giacché anche il giudice, tratto in inganno dall’impiego del ricorso, potrebbe aver considerato quelli, inferiori, enunciati all’art. 415 o all’art. 435 c.p.c. Le mancanze appena vedute, non attenendo all’editioactionis, possono tuttavia essere corrette nel corso del giudizio(43), così come accade per ogni altro atto di citazione nullo. Il giudice dunque ordinerà la rinnovazione dell’atto introduttivo (con le forme corrette e con conseguente sanatoria retroattiva) qualora il convenuto sia rimasto contumace equest’ultimo, costituendosi, potrà lamentare l’esiguità dei termini a difesa o l’assenza dell’avvertimento prescritto dalla legge, ottenendo la fissazione di una nuova udienza a norma dell’art. 164, comma 3°, c.p.c. Non ci pare invece meritevole di tutela un ipotetico interesse del convenuto ad apprendere il contenuto dell’atto introduttivo avversario prima che esso sia portato a conoscenza del giudice. Il legislatore garantisce infatti unicamente il diritto del convenuto a godere di un determinato lasso di tempo per difendersi, come si ricava, tra l’altro, dalla circostanza che l’attore, richiesta la notificazione della citazione, può iscrivere la causa a ruolo sulla base della c.d. velina, prima che l’atto giunga a conoscenza del convenuto(44), o dall’eventualità, assolutamente fisiologica nel processo litisconsortile, che il deposito della citazione avvenga prima del perfezionarsi della notificazione nei confronti di tutti i convenuti(45). Veniamo ora alle conseguenze dell’erroneo impiego dell’atto di citazione. Esso ha un contenuto più ampio di quello prescritto dal legislatore e non più ridotto, contrariamente a quanto si è visto a proposito della precedente ipotesi;in particolare la prima udienza è fissata dall’attore e non dal giudice. L’esigenza sottesa al modello procedimentale introdotto dal ricorso, di organizzazione dell’ufficio, può essere tuttavia facilmente soddisfatta riconoscendo, solo in questo caso, l’applicabilità dell’art. 159, comma 3°, c.p.c. Gli effetti dell’atto si producono al momento della sua notificazione, ma la fissazione dell’udienza ad opera dell’attore è caducata ed il giudice, se crede, ne fissa una nuova, disponendo che il decreto sia notificato al convenuto.Qualora invece il magistrato non provveda in tal senso, il regolare svolgimento dell’udienza nella data originariamente prevista ha certamente efficacia sanante. In questo modo risulta adeguatamente garantito ancheil celere svolgersi del procedimento. Le conclusioni cui siamo giunti crediamo consentano, in ultima analisi, di contemperare adeguatamente l’interesse dell’attore a che le proprie difese siano esaminate nel merito con le esigenze di organizzazione degli uffici giudiziari e con il diritto del convenuto di godere appieno dei termini a difesa previsti dalla legge, senzapatire pregiudizi in conseguenza dell’errore commesso dall’avversario.Errore quest’ultimo che, peraltro, è spessofrutto non di incuria, ma di oggettive incertezze interpretative, come dimostrano la casistica giurisprudenziale citata in precedenza ed i contrasti sorti a più riprese sul modello formale di atto introduttivo da impiegare in determinati procedimenti, tali da suscitare gliinterventidelle sezioni unite. La soluzione proposta ha infineil pregio di assicurare una piena uniformità di trattamento tra tutte le tipologie di errore di cui ci siamo occupati, siano esse riconducibili all’errore di rito con conseguente esigenza di un suo mutamento, oppure all’errore nell’individuazione del solo modello formale di atto mediante il quale introdurre il giudizio. In entrambi i casi infatti, vuoi facendo applicazione delle norme dettate per il mutamento del rito, vuoi ricorrendo alla sanatoria di cuiall’art. 156, comma 3°, c.p.c., gli effetti dell’atto introduttivo si producono nel momento in cui esso esce dalla sfera di disponibilità di chi lo pone in essere mediante una delle due forme di emissione qualificata contemplate dal legislatore, notificazione o deposito.