PIGNORAMENTO IMMOBILIARE

Libro III c.p.c. (artt. 555/598 cpc).

Attraverso il pignoramento immobiliare il creditore richiede la vendita dei beni immobili del debitore, allo scopo di recuperare la somma dovuta. 

Il titolo esecutivo (sent., decreto ingiunt., ecc.) deve essere notificato al debitore insieme all’atto di precetto, con cui si intima il pagamento entro 10 giorni (art. 480 cpc).

Novità con la Riforma Cartabia.

Nomina contestuale di perito e custode e deposito della relazione informativa diventano atti della procedura espropriativa (art. 559 cpc), è prevista la redazione della perizia di stima e degli avvisi di vendita secondo modelli standardizzati. Inoltre, custode giudiziario e delegati alle vendite diventano un’unica figura professionale. Pertanto, la funzione della custodia giudiziale non è più limitata alla conservazione immobiliare, ma orientata alla futura vendita.

Una delle principali novità è la vendita diretta del bene (art. 568 bis cpc), facoltà per il debitore di chiedere al Giudice dell’esecuzione di disporre la vendita diretta dell’immobile pignorato con istanza da depositare non oltre 10 giorni prima dell’udienza di vendita, insieme all’offerta di acquisto e alla cauzione. L”udienza di vendita si svolge comunque, in modo che il Giudice possa determinare il prezzo base.

Il custode giudiziario attua l’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, seguendo le disposizioni del giudice dell’esecuzione senza le formalità previste dagli artt. 605 e ss, non dovrà notificare in via preventiva il precetto di rilascio e il successivo preavviso di sloggio, ma può procedere allo sgombero dei beni mobili, limitandosi a rispettare le direttive impartite dal giudice nell’ordine di liberazione.

L’immobile è posto sotto l’amministrazione di un custode giudiziario nominato dal Tribunale ed il debitore non può più disporre liberamente dell’immobile, anche se continua ad abitarci fino all’avvenuto passaggio di proprietà.

Pignorato l’immobile, si pubblica il bando di vendita, con lo scopo di informare i potenziali acquirenti della vendita dell’immobile, tramite asta giudiziaria.

Il debitore, come detto, può anche presentare un’istanza per la vendita diretta dell’immobile pignorato, senza dover passare per l’asta giudiziaria e, quindi, di ricavarne una cifra maggiore.

Per ogni asta di vendita che va deserta, il Giudice dell’Esecuzione può abbattere il prezzo base d’asta fino ad un quarto (cioè del 25%).

Spesso la casa rimane invenduta. In questo caso ritorna al proprietario-debitore, che quindi non riesce a estinguere i propri debiti grazie alla somma ricavata dalla vendita della casa.

Il giudice decide solo sul pignoramento, non si occupa di reperire o individuare i beni del debitore. È il creditore che deve effettuare tutte le indagini possibili al fine di individuare con esattezza se la controparte ha case, terreni agricoli, terreni edificabili, ecc.

I creditori possono comunque decidere di avviare un nuovo pignoramento immobiliare o procedere con altre forme di pignoramento.

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RICORSO EX ART. 281 DECIES C.P.C.

RICORSO EX ART. 281 DECIES C.P.C.

Per il Sig.         ……………………………………………… nato a ………………. Il ……………….. (C.F. ………………………..), residente in ……………………………………………………. (o domicilio digitale), rappresentato e difeso dall’avv…………………………………., ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, sito in ……………………….. , giusta procura ……..

Contro

–  Il Sig. ………………………… nato a …………..il ……………………(C.F. …………………………………………), residente in …………………. (o domicilio digitale)

OGGETTO: Ricorso per

in Fatto

(Esposizione chiara e specifica dei fatti)

in Diritto

(Esposizione chiara e specifica degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda)

****

Tutto ciò premesso, considerato e ritenuto, il Sig. ………………………, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato, chiede che

VOGLIA L’ON.LE TRIBUNALE

fissare, ai sensi dell’art. 281 undecies c.p.c. comma 2, con decreto l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione dei convenuti che deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza,

CON ESPRESSO AVVERTIMENTO CHE

–       la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c.;

–       la difesa tecnica è obbligatoria in tutti i giudizi davano al Tribunale, fatta eccezione per i casi previsti all’art. 86 o da leggi speciali;

–       la parte sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato;

–       in caso di mancata costituzione si procederà in loro legittima e dichiaranda contumacia per ivi sentire accogliere le seguenti

CONCLUSIONI

…………………………………………

In via Istruttoria

(Indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti)

Ai sensi e per gli effetti dell’art. 163 n. 3bis cpc dichiara che:

la presente domanda non è soggetta a condizioni di procedibilità (O, IN ALTERNATIVA “che la presente domanda è soggetta a condizioni di procedibilità e pertanto in data ……………. è stata esperita mediazione/negoziazione come da documentazione allegata”.

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ISTANZA AGENZIA ENTRATE ART. 492BIS C.P.C.

                                                      INTESTAZIONE AVV. ..
                                              AGENZIA DELLE ENTRATE DI ……………….
Via PEC: …………………………………….
Istanza per l’accesso alle banche dati
ex artt. 492 bis cpc e 155 quinques disp. att. cpc
Il sottoscritto avv. ………………., C.F…………… con studio in ……………, fax ………, email: ………, PEC ………………, difensore di …………., C.F. ……………, residente in
…………… via …… n…… giusta delega a margine/in calce a ……………………
Premesso
che con provvedimento di data …..…, qui allegato in originale informatico/copia
dichiarata conforme 1
(doc. 1), il Presidente del Tribunale, su istanza del creditore e
visto il credito risultante dal titolo e dall’atto di precetto, ha autorizzato l’accesso ai
dati contenuti nell’anagrafe tributaria, compreso l’archivio dei rapporti finanziari per
l’acquisizione di tutte le informazioni rilevanti per l’individuazione di cose e crediti da
sottoporre ad esecuzione forzata,
Tutto ciò premesso
CHIEDE
che l’Agenzia delle Entrate di Verona trasmetta al sottoscritto avvocato a mezzo PEC
all’indirizzo indicato in epigrafe tutte le informazioni contenute nell’anagrafe
tributaria compresi i rapporti finanziari relative a ………….. (indicare i dati del
debitore), C.F. ………………….., utili all’individuazione di cose o crediti da sottoporre
ad esecuzione forzata.
Luogo e data ….…….
Avv. ………………………….
Si allega: 1. Originale informatico/copia dichiarata conforme del provvedimento del
Presidente del Tribunale di data …..
1 La conformità della copia informatica all’originale può essere apposta sul medesimo documento informatico oppure
su documento informatico separato contenuto nella stessa mail PEC (anche, pertanto, nella presente istanza) a norma
dell’art. 16 undecies D.L. 179/2012 e delle Specifiche Tecniche del Processo Telematico ivi richiamate. Nel caso di
attestazione su foglio separato è richiesta l’indicazione del nome del file e di una sintetica descrizione del documento
che si sta attestando come conforme. L’attestazione di conformità va sottoscritta con firma digitale (art. 19 ter
Provvedimento DGSIA 16/4/2014 come modificato 28/12/2015).
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Ricerca telematica dei beni del debitore art. 492bis c.p.c.

L’articolo 492 bis c.p.c., come modificato dal D.L. 27 giugno 2015 numero 83, ha previsto la possibilità per il creditore procedente di richiedere la ricerca telematica dei beni del debitore, in vista della successiva esecuzione.

Qualora un creditore intenda proporre tale richiesta, dovra’ presentare istanza al Presidente del Tribunale, da depositare come atto di volontaria giurisdizione, con il codice identificativo 401003 “ Ricerca  con modalità telematiche dei beni da pignorare- Art. 492 bis c.p.c.”

Ad essa dovranno essere allegati titolo esecutivo e precetto nonché il contributo unificato pari ad euro 43,00; non si applica invece l’art. 30 del DPR 115/2002, perciò non è dovuta la marca da bollo per le iscrizioni a ruolo di euro 27,00.

Inoltre che dal 1 marzo 2017 il deposito in Tribunale dell’istanza ex art. 492 bis c.p.c. (così pure come il rilascio di seconda copia esecutiva ex art.  476 c.p.c.) potrà avvenire solo per via telematica con fascicolo, che verrà formato dalla cancelleria, solo in via digitale.

Una volta ottenuta l’autorizzazione del Presidente del Tribunale ex art. 492 bis c.p.c.,  sarà necessario presentare ulteriore istanza di accesso alla banca dati dell’Agenzia delle Entrate, tramite invio di PEC alla Direzione regionale dell’ Agenzia delle Entrate, allegando alla stessa l’autorizzazione ex art. 492 bis c.p.c. ricevuta dal Tribunale e la procura alle liti firmata digitalmente, unitamente ad attestazione di conformità delle copie informatiche digitali alle copie cartacee.

Successivamente l’Agenzia delle Entrate invierà una richiesta di pagamento di diritti di copia con riferimento ai documenti in suo possesso, da pagarsi tramite modello F24.

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Sull’introduzione del processo secondo un modello formale errato

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Conseguenze dell’errore nella scelta del rito e del modello formale di atto introduttivo. – 3. Conseguenze dell’errore nella scelta del solo modello formale di atto introduttivo. – 4. Ambito applicativo delle norme sul mutamento del rito e disparità di trattamento. – 5. Fondamento della conversione dell’atto processuale e sanatoria della nullità. Conclusioni.

 1– Nel nostro ordinamento esistono una molteplicità di riti e due fondamentali modelli di atto introduttivo del processo, la citazione ed il ricorso. Ciò comporta l’eventualità che talora la parte proponga la domanda secondo un rito errato o mediante un atto la cui forma è diversa da quella prevista per il rito corretto. Le due tipologie d’errore non necessariamente coesistono.Si può infatti distinguere tra:

1) errore nella scelta del rito che non incide sulla forma dell’atto introduttivo o, comunque, non coinvolge la summa divisio tra citazione e ricorso (ad es. la causa viene introdotta con ricorso, impiegando le forme del rito sommario di cognizione anziché quelle del rito del lavoro);

2) errore nella scelta del rito che si ripercuote anche sul modello formale dell’atto introduttivo (ad es. è prescelto il rito del lavoro anziché quello ordinario e conseguentemente la domanda è proposta con ricorso anziché con citazione);

3)erroneo impiego della citazione o del ricorso che non discende dall’adozione di un rito errato.

Essendo nostra intenzione occuparci unicamente delle conseguenze dell’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo, trascureremo la prima ipotesi per occuparci delle restanti due.

Nel secondo caso appena delineato l’attore individua un complesso di norme che regolano il processo, ovvero un rito, ed agisce in giudizio osservandole, sennonché la causa avrebbe dovuto essere trattata secondo un rito differente. Si ha dunque una falsa applicazione di quelle norme, da cui scaturisce l’esigenza di un intervento del giudice mediante il quale il processo è ricondotto al tipo procedimentale corretto, ovvero si opera il mutamento del rito.

Nel terzo caso invece l’attore non propone la domanda secondo un rito diverso da quello imposto dalla legge, bensì interpreta erroneamente e di conseguenza viola le norme dettate per il rito (corretto) adottato, in particolare quelle concernenti la forma da impiegare per l’atto introduttivo.

La classificazione appena proposta soffre certamente di astrattezza in quanto, in concreto, la distinzione tra errori che coinvolgono anche il rito ed errori che concernono la sola forma dell’atto introduttivo non è affatto netta.Talvolta la parte non dichiara espressamente sulla base di quale rito sta proponendo la domanda: in questi casi la forma prescelta per l’atto introduttivo viene considerata indicativa del rito prescelto e, dunque, l’eventuale errore è ricondotto ad un errore di rito – che si ripercuote sulla forma dell’atto introduttivo – anziché ad un errore concernente la sola forma dell’atto.

Si immagini l’eventualità in cui l’attore proponga con citazione una domanda avente ad oggetto le provvigioni dovute per l’attività di agente di commercio, senza offrire indicazioni esplicite in ordine al rito prescelto. Si potrebbero ipoteticamente profilare due eventualità: l’attore ha ritenuto che la propria domanda vada trattata secondo il rito ordinario (convincimento in taluni casi corretto, secondo la giurisprudenza (1) oppure, per totale sconoscenza dell’art. 414 c.p.c.,ha ipotizzato che nel rito del lavoro la domanda si debba proporre con citazione. In una simile eventualità il giudice sarà naturalmente portato a ritenere che si sia verificata la prima eventualità e non la seconda,considerando il secondo errore improbabile in quanto troppo macroscopico.

Un errore nell’individuazione del rito, tuttavia, talvolta è difficilmente ipotizzabile.Si pensi alle impugnazioni delle delibere dell’assemblea condominiale proposte con ricorso anziché con citazione alla luce delle ambiguità che l’art. 1137 c.c., nel testo vigente sino al giugno 2013, presentava(2). La scelta dell’attore di proporre la domanda con ricorso discendeva, di norma, non dall’adozione di un rito speciale anziché di quello ordinario, bensì dall’adesione alla tesi – inizialmente sostenuta dalla Corte di cassazione ed in seguito respinta dalle sezioni unite(3) – secondo cui il ripetuto riferimento al “ricorso” contenuto all’art. 1137 c.c. denotava un’opzione del legislatore per questa tipologia di atto introduttivo,in deroga alle norme dettate per il rito ordinario. Vi sono infine ipotesi nelle quali, secondo numerosi interpreti,la possibilità di far discendere l’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo da un errore nell’individuazione delrito applicabile va esclusa in radice. La posizione si fonda, come vedremo, su talune norme dalle quali si può evincere che l’errore nella scelta del rito cui consegue la possibilità, per il giudice, di disporne il mutamento, può essere commesso solo introducendo il giudizio di primo grado. Secondo questa tesi è possibile configurare unicamente un errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo quando quest’ultimo ha la funzione di dare impulso ad una seconda fase del processo, meramente eventuale, o ad un grado di giudizio ulteriore. Rientrano nella prima categoria l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta con citazione anziché con ricorso, come si impone quando la contesa riguarda la materia del lavoro(4)o quella locatizia(5), e viceversa, come talvolta accade nelle opposizionial decreto ingiuntivo ottenuto dal difensore per il pagamento del compenso professionale(6). Sono invece riconducibili alla seconda ipotesi gli errori commessi nell’introdurre il giudizio di appello, ripetutamente emersi nella casistica giurisprudenziale, ad esempionei procedimenti di divorzio(7).

Nel prosieguo della trattazione vedremo quali conseguenze derivino, secondo dottrina e giurisprudenza, dalla commissione di un errore che coinvolge anche la scelta del rito applicabile ovvero il solo modello formale di atto introduttivo, registrando come, secondo l’opinione prevalente, vi siano profonde differenze tra le une e le altre. Ci interrogheremo quindi sulla legittimità di una tale disparità e proporremo una diversa opzione interpretativa, che assicuri maggiore uniformità e contemperi in maniera più soddisfacente gli interessi delle parti.

2– In prima battuta è indispensabile comprendere quali conseguenze derivino da un errore nella scelta del rito applicabile che si ripercuota anche sulla forma dell’atto introduttivo. Le norme in tema di mutamento del rito di più risalente applicazione sono contenute negliartt. 426 e 427 c.p.c., che dettano le modalità per il passaggio dal rito ordinario a quello del lavoro e viceversa. Le due disposizioni escludono anzitutto implicitamente che il processo debba chiudersi senza decisione nel merito per il solo fatto di essere stato iniziato secondo un rito errato, ossia che l’esattezza del rito costituisca un presupposto processuale(8).Quest’ultima soluzione, peraltro, risulterebbe in forte contrasto con il principio di economia processuale.

L’art. 426 c.p.c. afferma che, se una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti di cui all’art. 409, c.p.c., il giudice deve fissare un termine perentorio per integrare gli atti introduttivi mediante il deposito di una memoria e di eventuali documenti. In questo modo il regime delle preclusioni, più elastico nel rito ordinario, viene ad allinearsi con quello proprio del rito del lavoro(9).

La previsione consente di trarre un’importante conclusione: se un processo è iniziato per errore con il rito ordinario, vanno applicate le regole proprie di quest’ultimo sino a che il giudice non ne decide il mutamento.Non si verifica quindi  alcuna forma di conversione degli atti compiuti nei corrispettivi atti propri del rito del lavoro, né si applicano, prima del mutamento, regole dettate per la fase introduttiva del processo del lavoro(10). Se così fosse, non vi sarebbe ragione di imporre la fissazione del termine appena menzionato in quanto le preclusioni, anche istruttorie, sarebbero maturate sin dal deposito degli atti introduttivi.

La giurisprudenza ha inoltre più volte affermato che, quand’anche il processo si sia svolto secondo un rito errato, l’impugnazione della sentenza deve avvenire con le forme previste per il rito seguito sino a quel momento(11); sarà in seguito il giudice dell’impugnazione, ove occorra, a disporne il mutamento (c.d regola dell’ultrattività del rito, peraltro fonte essa stessa dierrori nella scelta della forma dell’atto da impiegare per introdurre il giudizio di impugnazione).

L’art. 427 c.p.c., a proposito del passaggio dal rito del lavoro a quello ordinario, si limita invece a prevedere che il giudice disponga la regolarizzazione degli atti con le disposizioni tributarie, salvo il caso in cui, alla luce delle norme proprie del rito corretto, debba dichiararsi incompetente. Quanto alle preclusioni, esse,secondo l’opinione prevalente,vengono meno nella misura in cui non sarebbero ancora maturate qualora la causa si fosse svolta sin dall’origine secondo il rito ordinario(12). Questa soluzione tuttavia non discende dalla necessità di operare una qualche forma di conversione degli atti introduttivi nei loro omologhi ordinari o di applicare norme proprie del rito ordinario ad un processo svoltosi, sino a quel momento, secondo il rito del lavoro, bensì dalla necessità di evitare che le parti, in conseguenza dell’adozione del rito errato, incorrano in un pregiudizio alle loro facoltà difensive.

L’errore commesso dall’attore nell’individuare il rito applicabile, con ripercussioni sul modello formale prescelto per l’atto introduttivo, è dunque corretto dal giudice senza che ciò comporti significativi pregiudizi per l’attore stesso, salvaguardando il diritto delle parti di difendersi e l’esigenza che il processo giunga ad una decisione sul merito. La disciplina contenuta negli artt. 426 e 427 c.p.c. è in seguito divenuta applicabile anche ad altre ipotesi nelle qualiva disposto il passaggio dal rito ordinario ad un rito speciale o tra riti speciali diversi(13). La l. 26.11.1990, n. 353 ha infatti aggiunto all’art. 40 c.p.c. due commi (3° e 4°) che individuano il rito applicabile alle cause connesse ed uno (il 5°) che rinvia ai due articoli appena citati per il caso in cui il giudice debba provvedere al mutamento di rito.

Una norma in tema di mutamento del rito è contemplata anche nel procedimento sommario di cognizione, introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69: l’art.702-ter, comma 3°, c.p.c. prevede che, qualora la causa non possa essere istruita sommariamente, il giudice fissi l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. ed “in tal caso si applicano le disposizioni del libro II”. Il processo dunque prosegue con le forme ordinarie senza necessità di convertire l’atto introduttivo – che nel procedimento sommario riveste le forme del ricorso – in citazione(14).  Da ultimo, all’art. 4 del d. lgs. 1.09.2011, n. 150,è stata dettata una disciplina uniforme del mutamento di rito, da adottare ogni qual volta una controversia assoggettata ad un rito “semplificato”, ossia regolato dal medesimo decreto, sia introdotta con un rito errato(15).La normapresenta alcune differenze di non poco momento rispetto a quanto previsto dalle disposizioni viste sinora: si prevedeanzitutto che il rilievo dell’erroneità del rito non possa avvenire oltre la prima udienza, segno di come, nella disciplina più recente, il legislatore ritenga i tre grandi modelli procedimentali, il rito ordinario, quello del lavoro e quello sommario (due dei quali introdotti con ricorso ed uno con citazione), sostanzialmente equivalenti.

L’art. 4, comma 5°, del d.lgs. n. 150 del 2011 mantiene inoltre fermi sia gli effetti processuali e sostanziali della domanda prodottisi secondo il rito seguito prima del mutamento, sia le preclusioni maturate in base ad esso. La seconda previsione è decisamente innovativa. La prima invece è sostanzialmente in linea con i risultati raggiunti nell’interpretazione degli artt. 426 e 427 c.p.c. di cui abbiamo dato conto poc’anzi, ma trova espressamente applicazione anche in taluni giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo (in particolare quelli in materia di compenso dovuto all’avvocato per le prestazioni giudiziali civili) nei quali, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, la possibilità di configurarel’errore commesso dall’attore come errore di rito, con conseguente applicazione delle normeche ne regolano il mutamento, è generalmente esclusa dalla giurisprudenza.

3– Vi sono ipotesi nelle quali la prevalente giurisprudenza e parte della dottrina(16) reputano impossibile ricondurre l’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo ad un più generale fraintendimento in ordine al rito applicabile e fare conseguentemente applicazione della disciplina esaminata nel precedente paragrafo. Ciò accade perlo più in due ambiti: allorquando l’atto introduce la seconda fase, meramente eventuale, di un procedimento (è il caso dell’opposizione a decreto ingiuntivo) oppure un giudizio di impugnazione. Per quanto concerne i giudizi di impugnazione, la posizione si fonda anzitutto sul dettato dell’art. 439 c.p.c. La norma afferma che il giudice d’appello deve provvedere ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c. qualora ritenga che il giudizio di primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto. Essa non menziona invece la possibilità di porre rimedio ad un errore di rito commesso nell’introdurre il giudizio d’appello. Se ne deduce l’inapplicabilità, a quest’ultimo caso,della disciplina del mutamento di rito. La conclusione appare espressione di una regola più ampia. Da una lettura sistematica delle norme in tema di mutamento del rito emerge infatti come la scelta del rito spetti all’attore solo all’inizio del processo; quando invece il procedimento è pendente ed è già determinato il complesso di norme processuali ad esso applicabili, la materia è sottratta alla disponibilità delle parti e solo il giudice dispone del potere di mutare rito.L’adozione di una forma erronea per un atto di parte si risolve dunque in una violazione delle norme dettate per il rito adottato e non può comportare il passaggio ad un rito diverso.

Quanto abbiamo appena affermato consente di comprendere perché si escluda la possibilità di applicare le norme sul mutamento di rito anche all’opposizione a decreto ingiuntivo. L’opposizione è proposta a lite pendente (art. 643 c.p.c.), una lite che, tuttavia, sotto il profilo del rito applicabile, presenta un’insidia: è caratterizzata da una prima fase “neutra”, quella monitoria, nella quale il ricorrente non opta espressamente per uno specifico rito da seguire nell’eventuale giudizio di opposizione.

In tutti i casi appena veduti viene dunque ravvisato unicamente un errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo,il cui trattamento è ben più severo di quello visto poc’anzi. Secondo la prevalente giurisprudenza (in particolare due recenti sentenze delle sezioni unite (17), qualora l’attore commetta un simile sbaglio, va operata la conversione dell’atto introduttivo nella forma corretta: la citazione deve divenire ricorso e viceversa. Secondo le decisioni appena citate, alla conversione consegue uno spostamento in avanti del momento in cui l’atto produce i propri effetti, impedendo il maturare di una decadenza. Si argomenta infatti che, se la domanda deve proporsi con ricorso, la pendenza della lite si ha al momento del deposito di quest’ultimo in cancelleria, pertanto la citazione erroneamente impiegata e soggetta a conversione in ricorso può produrre effetto solo al momento del suo deposito e non in quello, anteriore, della notificazione. Viceversa, il ricorso convertito in citazione si considera proposto solo al momento della sua notificazione unitamente al decreto di fissazione d’udienza. I pregiudizi che possono derivare all’attore dall’adozione della tesi appena esposta sono evidenti: chi, ad esempio, propone appello con citazione anziché con un ricorso e ne richiede la notificazione in prossimità della scadenza del termine per impugnare, potrebbe vedersi dichiarata l’impugnazione tardiva, perché l’atto è stato depositato a termine ormai spirato. Il rischio è ancor più grave quando è prescelto per errore il ricorso: il decreto di fissazione d’udienza può essere pronunciato anche molti giorni dopo il deposito, rendendo impossibile la notificazione tempestiva dell’atto convertito. Le conseguenze della conversione, per il resto, sono sostanzialmente irrisorie: la trasformazione della citazione in ricorso, ad esempio, dovrebbe comportare la caducazione della fissazione d’udienza in essa contenuta – poiché il ricorso non la prevede – ma, di regola, i giudici in questi casi non pronunciano alcun decreto di fissazione d’udienza, teso a mutare o confermare la data indicata dall’attore, tenendo invece valida quest’ultima(18). Solo in talune ipotesi la giurisprudenza pare prescindere dalle regole appena illustrate. In particolare si registrano significative differenze per quanto concerne il trattamento dell’errore commesso nella scelta del modello formale di atto da utilizzare per la riassunzione del processo interrotto o sospeso: si è infatti affermata in più occasioni l’equipollenza tra citazione e ricorso, escludendo la necessità di conversione e del conseguente spostamento in avanti del momento in cui l’atto produce i propri effetti, impedendo l’estinzione del processo(19).  La necessità di operare la conversione dell’atto introduttivo viene talvolta ravvisata anche quando l’errore commesso dall’attore è difficilmente riconducibile all’opzione per un diverso rito – essendo arduo comprendere quale altro rito l’attore abbia prescelto – anziché ad un semplice fraintendimento di singole norme dettate per il rito corretto: è il caso dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione proposta con citazione e non con ricorso(20).Conclusioni opposte sono state tuttavia tratte a più riprese perle impugnazioni delle delibere dell’assemblea condominiale proposte secondo un modello formale errato, a proposito delle quali si è sostenuta la piena equipollenza tra citazione e ricorso, con la conseguente possibilità di ritenere tempestiva tanto l’impugnazione proposta con citazione notificata entro trenta giorni quanto quella proposta con ricorso depositato nei medesimi termini(21). E’ lecito nutrire dubbi in ordine all’impossibilità di equiparare l’errore commesso nel proporre opposizione a decreto ingiuntivo o, comunque, nel dare impulso alla seconda fase del procedimento,a quelloconcernente l’introduzione di un giudizio di primo grado, mentre minori perplessità ci pare possano essere avanzate per le impugnazioni.Le conclusioni cui giunge la giurisprudenza, tuttavia, creanoun intuibile disagio all’interprete anche su un altro piano, più generale:errori nella sostanza molto simili tra loro, se non identici, ricevono un trattamento fortemente differenziato, molto più severo in caso di conversione dell’atto introduttivo di quanto non accada quando il giudice dispone il mutamento del rito.

4– La Corte di cassazione a sezioni unite, come anticipato, nel 2013 è intervenuta con due pronunce sulla materia di cui ci occupiamo, ribadendo l’orientamento più tradizionale e consolidato in merito alla necessità di operare la conversione dell’atto introduttivo ed alle conseguenze che ne derivano ed affermando la portata generale di questo insegnamento(22). Un orientamento difforme pareva invece potersi fare strada anche al di fuori del ristretto ambito delle impugnazioni delle delibere condominiali quando,come detto, nel 2011 le stesse sezioni unite, risolvendo il contrasto sorto in ordine all’interpretazione dell’art. 1137 c.c.,erano intervenute sulle conseguenze dell’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo, sia pure con un obiter dictum(23). Il primo caso portato all’attenzione della Corte nel 2013 riguardava un decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di prestazioni giudiziali rese dall’avvocato, opposto con ricorso anziché con citazione in quanto la difesa del cliente era stata tratta in inganno dal riferimento al rito camerale contenuto nella l. 13 giugno 1942, n. 794. La materia è stata in seguito riformata dal già citato d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150(24) ed infatti i giudici di legittimità hanno precisato che la soluzione adottata nella sentenza non può trovare applicazione ai giudizi introdotti dopo l’entrata in vigore del decreto. La ricostruzione della Corte tuttavia, a nostro avviso, presta il fianco ad una critica: il d.lgs. n. 150 del 2011 detta una disciplina unitaria del mutamento di rito, dichiarata espressamente applicabile sia ai giudizi di primo grado che si svolgono in un’unica fase, sia alle opposizioni a decreto ingiuntivo nelle materie oggetto del provvedimento. Il legislatore evidentemente ha ritenuto che tutti i giudizi di primo grado siano, sotto questo punto di vista, meritevoli di un identico trattamento. Le disposizioni sul mutamento di rito contenute nel codice di procedura civile, come abbiamo visto in precedenza, segnano una differenza tra il trattamento dell’errore in primo grado e in appello, ma tacciono in merito al trattamento dell’errore commesso nel passaggio da una fase all’altra del procedimento. Il silenzio normativo aveva già spinto un autore(25) a sostenere chegli artt. 426 e 427 c.p.c.dovessero trovare applicazione anche nei giudizi di primo grado strutturati in due fasi: una conclusione che, a nostro avviso, il d.lgs. n. 150 del 2011 avvalora, ma le sezioni unite non hanno fatto propria.  La disciplina contenuta nel d.lgs. n. 150 del 2011 fa tuttavia sorgere un interrogativo ulteriore: per quale ragione all’attore è riservata una tale disparità di trattamento non tra giudizio di primo grado e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che assolve anche a funzioni lato sensuimpugnatorie, ma tra opposizione e opposizione? I principi affermati nel 2013 dalle sezioni unite, infatti, hanno portata generale e, se non troveranno più concreta applicazione per le opposizioni a decreto ingiuntivo assoggettate ad un rito “semplificato”, potranno farlo per altre. La necessità di operare la conversione dell’atto introduttivo senza disporre il mutamento di rito, in altri termini, comporta un evidente pregiudizio alle possibilità di difesa dell’attore, ma viene oggi riconosciuta solo per alcuni procedimenti bifasici e non per altri, nonostante questi ultimi siano privi di peculiarità tali da giustificare una simile discrasia(26).Ci pare esemplare il raffronto tra l’opposizione a decreto ingiuntivo riguardante ilcompenso dovuto all’avvocato per prestazioni giudiziali – la sola ad essere soggetta al d.lgs. n. 150/2011 – e quellainerenteprestazioni stragiudiziali. Si pensi anche all’opposizione in materia agraria (27), cui è applicabile l’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011, ed a quella in materia di lavoro, ove invece l’operatività della norma è esclusa. Crediamo che questa disparità di trattamento non siain linea con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. La soluzione fatta propria dalle sezioni unite è invece maggiormente condivisibile per quanto concerne i giudizi di impugnazione, sotto svariati punti di vista. Anzitutto l’attore – o il giudice – nel corso del primo grado di giudizio ha compiuto una scelta esplicita in ordine al rito applicabile, dunque non è presente quanto meno(28) l’insidia rappresentata dalla “neutralità” della prima fase del procedimento, vista sopra a proposito delle opposizioni a decreto ingiuntivo. In secondo luogo, proprio l’esistenza di questa esplicita opzione preclude la possibilità di qualificare l’errore che concerne la forma dell’atto di impugnazionecome conseguenzadell’adozione di un rito errato.Come abbiamo ricordato nel precedente paragrafo, da un esame sistematico delle norme sul mutamento di rito emerge infatti che il potere di mutare il rito spetta unicamente al giudice.Ammettere la possibilità che un errore di rito sia compiuto in gradi successivi al primo (essenzialmente nel giudizio d’appello, giacché per il giudizio di cassazione il problema non si pone), significherebbe invece introdurre in capo alla parte una vera e propria facoltà di operare il mutamento di sua iniziativa, un’iniziativa per di più implicita, ossia che si dovrebbe desumere dall’adozione di un modello formale di atto introduttivo diverso da quello previsto per il rito seguito sino a quel momento. Infine non vi sono trattamenti differenziati dell’errore commesso nel giudizio di impugnazione, non esiste dunque quella disparità veduta poc’anzi a proposito delle diverse tipologie di opposizione a decreto ingiuntivo. Resta ora da comprendere se le conseguenze dell’errore che coinvolgeil solo modello formale di atto introduttivo debbano essere quelleindividuate dalla giurisprudenza o se non sia invece preferibile aderire asoluzioni interpretative differenti, argomento che affronteremo nel prossimo paragrafo.

5– La conversione rappresenta un fenomeno ben noto nell’ambito sostanziale: si pensi all’art. 1424 c.c., a norma del quale il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso se ne soddisfa i requisiti di forma e sostanza, qualora risulti che le parti lo avrebbero voluto, se avessero conosciuto la nullità. Nel codice di rito, al contrario, la conversione non è espressamente disciplinata da alcuna norma. La dottrina ritiene nondimeno che essa possa operare anche per gli atti processuali, quale manifestazione dei principi di conservazione degli atti giuridici ovvero di economia processuale(29). Anche la giurisprudenza, come abbiamo visto, riconosce alla conversione diritto di cittadinanza in campo processuale. Il fondamento normativo e le conseguenze della conversione, tuttavia,destano perplessità. La giurisprudenza prevalente richiama l’art. 156, c. 3°, c.p.c., ovvero la sanatoria della nullità formale per raggiungimento dello scopo. In altri casi si menziona l’art. 159, c. 3°, c.p.c., secondo cui l’atto processuale, qualora non possa produrre un dato effetto perché è viziato, può tuttavia produrne altri, per i quali risulta idoneo(30). L’art. 156, comma 3°, c.p.c., afferma che, in caso di raggiungimento dello scopo, “la nullità non può essere dichiarata”. Da questa locuzione si ricava la natura retroattiva della sanatoria(31). Allorquando la citazione viene convertita in ricorso e si scrutina il momento del suo deposito anziché quello della notificazione– o viceversa, come si è vistonel paragrafo 3 – la nullità dell’atto è invece pronunciata e la sanatoria si considera operante in un momento successivo a quello in cui è stato compiuto l’atto invalido. Talvolta la giurisprudenza sostiene(32)che la nullità derivante dall’impiego di una forma errata per l’atto introduttivo si sana, oltre che per la tempestiva notifica del ricorso impropriamente utilizzato dall’attore,anche alla luce della scelta della controparte di costituirsi senza proporre alcuna eccezione; in questo modo viene tuttavia a crearsi una commistione tra ragioni oggettive e soggettive di sanatoria(33).Il richiamo alla condotta dell’avversario in uno degli àmbiti in cui più spesso la giurisprudenza ricorre all’istituto della conversione, i giudizi di impugnazione,non è inoltre calzante in quanto la tardività dell’impugnazione e la conseguente formazione del giudicato possono essere rilevate d’ufficio(34).Se davvero l’impugnazione proposta con citazione anziché con ricorso producesse effetto solo al momento del deposito dell’atto in cancelleria, il collocarsi di quest’ultimo incombente dopo lo spirare del termine imposto all’attore dovrebbe comportare una declaratoria di inammissibilità anche nel silenzio dell’altra parte. Identiche considerazioni valgono per l’opposizione a decreto ingiuntivo (35). Quanto poi all’art. 159 c.p.c., la conversione di cui ci occupiamo, per come è delineata dalla giurisprudenza, non comporta che un determinato atto, improduttivo di un effetto, ne realizzi tuttavia un altro o realizzi effetti quantitativamente ridotti; semplicemente essa differisce il momento in cui l’atto produce l’unico effetto che qui rileva, ossia la proposizione della domanda o dell’impugnazione. I profili critici appena evidenziati crediamo dimostrino come il ricorso alla figura della conversione dell’atto processuale e le conseguenze che da quest’ultima derivano secondo la prevalente giurisprudenza vadano complessivamente ripensate(36). Il punto di partenza di una diversa ricostruzione deve, a nostro avviso, necessariamente essere una riflessione sulle ragioniche inducono a collocare in un determinato momento gli effetti dell’atto introduttivo del giudizio.  Di regola gli effetti della domanda si producono con la notificazione della citazione o con il deposito del ricorso, come si evince dall’art. 39 c.p.c.(37). Vi sono tuttavia alcuni giudizi di impugnazione nei quali l’atto introduttivo riveste le forme del ricorso e nondimeno la sua tempestività deve essere valutata avendo riguardo alla notificazione, non al deposito: è il caso del regolamento di competenza, per il quale l’art. 47 molto chiaramente dispone: “il ricorso deve essere notificato alle parti che non vi hanno aderito entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza”. Anche il ricorso per cassazione – come si può ricavare dall’art. 369, comma 1°, c.p.c. – deve essere notificato e non depositato nei termini previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c. Lo stesso accade per il ricorso incidentale: il termine per la sua proposizione si considera rispettato con la notificazione e non con il successivo deposito dell’atto che lo contiene (artt. 370 e 371 c.p.c.). La ratio delle norme appena citate ci pare evidente: l’impugnazione si considera proposta nel momento in cui l’atto che la contiene esce dalla sfera di disponibilità della parte, venendo comunicato ad uno degli altri soggetti del processo, sia esso il giudice o la controparte.Quando ciò avviene, il suo contenuto si cristallizza echi ha compiuto l’atto non può più integrarlo o correggerlo alterando materialmente la citazione o il ricorso.La parte, inoltre, in questo modo offre una inconfutabile manifestazione della propria volontà di compiere gli atti processuali che, nel documento, dichiara di porre in essere(38). Riprendendo le affermazioni di Carnelutti(39), si può concludere che l’atto introduttivo produce i propri effetti nel momento in cui alla creazione del documento che lo contiene si aggiunge la sua emissione (nel nostro caso qualificata, in quanto prevede, di norma, l’intermediazione di un soggetto pubblico, il cancelliere o l’ufficiale giudiziario) e l’insieme di questi due elementi fa sorgere una dichiarazione. L’emissione qualificata del documento che contiene la domanda o l’impugnazione può tuttavia avvenire mediante l’impiego di due strumenti imprescindibili se complessivamente considerati, ma tra loro equipollenti, ossia la notificazione ed il deposito(40).Non ci pare invece possibile sostenere che, se l’atto ha forma di ricorso, ne è indispensabile il deposito mentre la sua notificazione non assolve allo scopo o viceversa.La riprova di quanto sosteniamo deriva appunto dalle norme citate poc’anzi, che talvolta impongono di notificare un ricorso prima di depositarlo ed in tal caso ne giudicano la tempestività avendo riguardo alla data di notificazione. Veniamo ora alle conseguenze dell’errore nella scelta del modello formale di atto introduttivo. Qualora la domanda sia proposta con ricorso anziché con citazione, certamente l’atto processuale è affetto danullità, perché strutturalmente diverso da quello previsto dalla legge(41)e privo di alcuni dei requisiti formali prescritti dall’art. 163 c.p.c. Esso contiene tuttavial’editioactionis e, in conseguenza del deposito,raggiunge gli scopi perseguiti dal modello legale, quanto meno nella misura necessaria al prodursi degli effetti sostanziali e processuali della domanda e ad evitare la consumazione della facoltà di impugnare la sentenza o dare altrimenti impulso al processo.Il raggiungimento dello scopo comporta la sanatoria (retroattiva)della nullità ai sensi dell’art. 156, comma 3°, c.p.c.Lo stesso vale, mutatis mutandis, al momento della notificazione,ove venga impiegata per errore la forma della citazione. A ben vedere, questa conclusione è in linea con il disposto dell’art. 156, c. 3°, c.p.c.: la sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo presuppone infatti che una nullità formale esista e che lo scopo sia raggiunto a dispetto di questa carenza, ovvero che l’atto non sia stato compiuto con le forme prescritte, ma abbia raggiunto lo scopo pur rivestendo forme differenti. Il ricorso depositato, come detto,non possiede tutti gli elementi che devono comporre l’atto di citazione, in particolare quelli che assolvono alla funzione divocatio in ius, maquesta carenza affligge anche il ricorso notificato unitamente al decreto di fissazione d’udienza, che non contiene l’avvertimento di cui all’art. 163, n. 7, c.p.c.(42). L’udienza, inoltre, potrebbe essere stata fissata in violazione dei termini minimi a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., giacché anche il giudice, tratto in inganno dall’impiego del ricorso, potrebbe aver considerato quelli, inferiori, enunciati all’art. 415 o all’art. 435 c.p.c. Le mancanze appena vedute, non attenendo all’editioactionis, possono tuttavia essere corrette nel corso del giudizio(43), così come accade per ogni altro atto di citazione nullo. Il giudice dunque ordinerà la rinnovazione dell’atto introduttivo (con le forme corrette e con conseguente sanatoria retroattiva) qualora il convenuto sia rimasto contumace equest’ultimo, costituendosi, potrà lamentare l’esiguità dei termini a difesa o l’assenza dell’avvertimento prescritto dalla legge, ottenendo la fissazione di una nuova udienza a norma dell’art. 164, comma 3°, c.p.c. Non ci pare invece meritevole di tutela un ipotetico interesse del convenuto ad apprendere il contenuto dell’atto introduttivo avversario prima che esso sia portato a conoscenza del giudice. Il legislatore garantisce infatti unicamente il diritto del convenuto a godere di un determinato lasso di tempo per difendersi, come si ricava, tra l’altro, dalla circostanza che l’attore, richiesta la notificazione della citazione, può iscrivere la causa a ruolo sulla base della c.d. velina, prima che l’atto giunga a conoscenza del convenuto(44), o dall’eventualità, assolutamente fisiologica nel processo litisconsortile, che il deposito della citazione avvenga prima del perfezionarsi della notificazione nei confronti di tutti i convenuti(45). Veniamo ora alle conseguenze dell’erroneo impiego dell’atto di citazione. Esso ha un contenuto più ampio di quello prescritto dal legislatore e non più ridotto, contrariamente a quanto si è visto a proposito della precedente ipotesi;in particolare la prima udienza è fissata dall’attore e non dal giudice. L’esigenza sottesa al modello procedimentale introdotto dal ricorso, di organizzazione dell’ufficio, può essere tuttavia facilmente soddisfatta riconoscendo, solo in questo caso, l’applicabilità dell’art. 159, comma 3°, c.p.c. Gli effetti dell’atto si producono al momento della sua notificazione, ma la fissazione dell’udienza ad opera dell’attore è caducata ed il giudice, se crede, ne fissa una nuova, disponendo che il decreto sia notificato al convenuto.Qualora invece il magistrato non provveda in tal senso, il regolare svolgimento dell’udienza nella data originariamente prevista ha certamente efficacia sanante. In questo modo risulta adeguatamente garantito ancheil celere svolgersi del procedimento. Le conclusioni cui siamo giunti crediamo consentano, in ultima analisi, di contemperare adeguatamente l’interesse dell’attore a che le proprie difese siano esaminate nel merito con le esigenze di organizzazione degli uffici giudiziari e con il diritto del convenuto di godere appieno dei termini a difesa previsti dalla legge, senzapatire pregiudizi in conseguenza dell’errore commesso dall’avversario.Errore quest’ultimo che, peraltro, è spessofrutto non di incuria, ma di oggettive incertezze interpretative, come dimostrano la casistica giurisprudenziale citata in precedenza ed i contrasti sorti a più riprese sul modello formale di atto introduttivo da impiegare in determinati procedimenti, tali da suscitare gliinterventidelle sezioni unite. La soluzione proposta ha infineil pregio di assicurare una piena uniformità di trattamento tra tutte le tipologie di errore di cui ci siamo occupati, siano esse riconducibili all’errore di rito con conseguente esigenza di un suo mutamento, oppure all’errore nell’individuazione del solo modello formale di atto mediante il quale introdurre il giudizio. In entrambi i casi infatti, vuoi facendo applicazione delle norme dettate per il mutamento del rito, vuoi ricorrendo alla sanatoria di cuiall’art. 156, comma 3°, c.p.c., gli effetti dell’atto introduttivo si producono nel momento in cui esso esce dalla sfera di disponibilità di chi lo pone in essere mediante una delle due forme di emissione qualificata contemplate dal legislatore, notificazione o deposito.


[1]Cass., 19 dicembre 2000, n. 15922, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 2620; Cass., 1 dicembre 2000, n. 15341, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 2513; Trib. Padova, 17 febbraio 2010, in Foro pad., 2011, p. 452; Trib. Chieti, 18 settembre 2006, in PQM, 2007, 3, p. 65; Trib. Ivrea, 3 agosto 2005, in Foro it., 2006, I, c. 277.
[2]L’art. 1137 c.c., nel testo vigente prima della riforma operata dalla l. 11.12.2012, n. 220, affermavache, contro le deliberazioni dell’assemblea condominiale,era possibile “fare ricorso all’autorità giudiziaria”, che “il ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento” e che “il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono…”. Il ripetuto riferimento al ricorso faceva sorgere la questione se il termine fosse impiegato in senso atecnico o piuttosto denotasse una precisa scelta del legislatore in ordine alla forma dell’atto introduttivo.
[3] Sulla questione menzionata nel testo esisteva un contrasto di giurisprudenza, cui posero fine le sezioni unite con la sentenza Cass., 14 aprile 2011, n. 8491, in Foro it., 2011, I, c. 1380, con nota di Piombo; Corr. giur., 2011, p. 1269, con nota di Izzo; Giur. it., 2012, p. 298; Giust. civ., 2011, I, p. 1163.
[4]In dottrina vedi Fazzalari, Decreto ingiuntivo e nuovo rito del lavoro, in Giur. it., 1974, I, 2, p. 785; Valitutti, De Stefano, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 2008, pp. 343 ss.;Garbagnati, Il procedimento di ingiunzione, Milano, 2012, p. 337. In giurisprudenza:Cass., 15.01.2013, n. 797, ined.;Cass., 26.04.1993, n. 4867, in Mass. Giust. civ., 1993, p. 743; Cass., 15.10.1992, n. 11318, in Mass. Giust. civ.,1992, p. 1471; App. Milano, 1.03.2006, in Giur. merito, 2007, p. 689.
[5]In dottrina vediFrasca, Il rito dell’opposizione a decreto ingiuntivo in materia locativa prima e dopo la riforma del processo civile e le questioni controverse, in Foro it., 1998, I, cc. 3274 ss.; Minetola, Murra, La conversione dell’atto processuale nullo: un caso di giurisprudenza normativa, in Giust. civ., 2001, I,pp. 2051 ss.; Rossi, Sulle modalità di proposizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo in materia locatizia, in Studi in onore di Modestino Acone, Napoli, 2010, pp. 989 ss. In giurisprudenza: Cass., 2 aprile 2009, n. 8014, in Mass. Giust. civ.,2009, p. 568; Cass., 1 giugno 2000, n. 7263, in Foro it., 2001, I, c. 813 e,nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 21 ottobre 2013, n. 20984, ined.;Trib. Reggio Emilia, 19 aprile 2012, n. 762, in www.ilcaso.it;Trib. Bari, 7 marzo 2012, n. 842; Trib. Modena, 30 gennaio 2012, n. 239, in Giur. loc., 2012; Trib. Salerno, 19 novembre 2010, in Giur. merito, 2011, p. 1048; Trib. Genova, 22 gennaio 2009, n. 339, ined.;Trib. Como, 1 giugno 2007, ined.;Trib. Milano, 15 dicembre 1997, in Foro it., 1998, I, c. 3274 con nota di Frascacit. Non mancano tuttavia alcune pronunce di segno opposto, che ritengono tempestiva l’opposizione notificata e non anche depositata in termini, sebbene tale orientamento appaia decisamente minoritario:Trib. Cremona, 16 maggio 2005, in Arch. loc., 2005, p. 562; Trib. Napoli, 26.01.2005, in Giur. merito, 2006, p. 647. Vedi anche Cass., 30 dicembre 2011, n. 30193, in Mass. Giust. civ.,2011, p. 1914; Cass., 18 febbraio 2010, n. 3917, in Mass. Giust. civ.,2010, p. 3917; Cass., 16.11.2007, n. 23813, in Foro it., 2008, I, c. 113, secondo cui, qualora il decreto sia stato erroneamente richiesto e pronunciato dal giudice di pace, l’opposizione deve essere proposta con citazione, secondo il rito ordinario che va seguito davanti a tale ufficio e non con ricorso.
[6]Cass., 16 febbraio 1999, n. 1283, in Mass. Giust. civ.,1999, p. 352; Cass., 16 maggio 1981, n. 3225, in Mass. Giust. civ.,1981, p. 1126; Trib. Roma, 30 maggio 1994, in Gius, 1994, 14, p.131 ma vedi anche la risalente Cass., 9 maggio 1950, in Foro it., 1951, I, c. 114, con nota di Andrioli, che enunciava l’equipollenza della citazione e del ricorso per proporre l’opposizione a decreto ingiuntivo.
[7]Sull’errore nella forma dell’atto introduttivo dell’appello divorzile vedi Ronco, Spunti di riflessione sulla fase introduttiva dell’appello divorzile, in Giur. it., 1998, pp. 1552 ss.; Tommaseo, Sulla forma dell’appello nel divorzio: quale rimedio per l’errore scusabile?, in Corr. giur.,1992, pp.633 ss.; Cipriani, La decisione dell’appello nel processo di divorzio, in Foro it., 1991, I, cc. 1119 ss. In giurisprudenza, da ultimo: Cass.,13 ottobre 2011, n. 21161, in Guida dir., 2011, 47, p. 74; Cass., 11 novembre 2009, n. 23907, in Mass. Giust. civ.,2009, p. 1581; Cass., 2 ottobre 2007, n. 20704, in Dir. fam. epers., 2008, I,p. 1727; App. Bari, 5 gennaio 2012, n. 3, in www.giurisprudenzabarese.it. Vedi anche Cass., 29 dicembre 2011, n. 29867, in Mass. Giust. civ.,2011, p. 1901, e Cass., 19 aprile 1995, n. 4395, in Mass. Giust. civ.,1995, p. 861, secondo cui, qualora venga impugnata una decisione relativa a capi di domanda diversi ed autonomi rispetto a quello sul divorzio dei coniugi, non può verificarsi un effetto espansivo del rito speciale e pertanto la forma da impiegare per l’atto introduttivo è la citazione. Sull’appello in materia di separazione personale dei coniugi cfr. Cass., 7 marzo 2008, n. 6196, in Dir. fam.epers., 2008, I, p. 1181 e Fam. e dir., 2008, p. 511, con nota di Batà e Spirito.
[8]Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2013, p. 26; Balena, Le conseguenze dell’errore sul modello formale dell’atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, p. 658 ss.; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008,p. 223 ss. In giurisprudenza vedi la recente sentenza delle sezioni unite Cass., 23.09.2013, n. 21675, in Dir. e giust., 24.9.2013.
[9] Sul punto Luiso,op.loc. citt. Restano invece ferme le preclusioni già maturate secondo il rito ordinario: Cass.,7.11.1987, n. 8256, in Mass. Giust. civ.,1987, p. 2307;Cass., 4.1.1986, n. 6449, in Notiz. giur. lav., 1987, p. 348; Cass., 7.04.1981, n. 1978, in Mass. Giust. civ., 1981, p. 753, e, in dottrina, Tarzia, op. cit., p. 228; Montesano, Vaccarella,Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, p. 238
[10]In giurisprudenza Cass., 17 ottobre 1985, n. 5122, in Not. giur. lav., 1986, p. 540, ha affermato chela necessità per il convenuto che agisce in riconvenzionale di chiedere, a pena di decadenza ex art. art. 418 c.p.c.,la fissazione di una nuova udienza di discussione non sussiste nel caso in cui, iniziato il giudizio con il rito ordinario e proposta in esso la domanda riconvenzionale, sia disposto il mutamento del rito ai sensidell’art. 426 c.p.c. Del medesimo avviso anche Cass., 17 maggio 2005, n. 10335, secondo cui la richiesta di fissazione di nuova udienza è necessaria solo qualora la riconvenzionale sia proposta dopo il passaggio dal rito ordinario a quello del lavoro. In dottrina vedi Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, p. 95 e, con specifico riferimento al prodursi della litispendenza e degli effetti processuali e sostanziali della domanda, Tarzia, op. cit., p. 229.
[11]Cass., 19 gennaio 2012, n. 774, in Mass. Giust. civ.,2012, p. 114; Cass.,7 giugno 2011, n. 12290, in Arch. loc., 2012, p. 61; Cass., 27 maggio 2010, n. 12990, in Mass. Giust. civ.,2010, p. 825; Cass., 23 aprile 2010, n. 9694, in Mass. Giust. civ.,2010, p. 591;Cass., 18 agosto 2006, n. 18201, in Mass. Giust. civ.,2006, p. 1640; Cass. 14 gennaio 2005, n. 682, in Arch. loc., 2002005, p. 419; Cass., 16 luglio 2002, n. 10278, in Mass. Giust. civ., 2002, p. 1229; Cass., 20 ottobre 2000, n. 13918, in Mass. Giust. civ.,2000, p. 2502.
[12]Andrioli, I mutamenti di rito, in Proto Pisani, Pezzano, Barone, Andrioli, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1974, p. 146. Più di recente v. Luiso, Il processo cit., p. 97; Id., Diritto cit., IV, p. 26; Tarzia, op. cit., p. 232 s.; Montesano, Vaccarella, op. cit., p. 242.Attualmente le conseguenze dell’adeguamento del sistema delle preclusioni a quanto previsto per il rito ordinario sono, in concreto, piuttosto modeste, essendo venuta meno la distinzione tra prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione (artt. 180–183 c.p.c.) e la possibilità di concedere, in una successiva udienza (art. 184 c.p.c.), ulteriori termini per formulare istanze istruttorie. Secondo Tarzia, op. cit., p. 233,qualora il mutamento avvenga in prima udienza, il giudice potrebbe dunque concedere i termini di cui all’attuale art. 183, c. 6°, c.p.c.; del medesimo avviso Luiso, op. loc. ultt. citt., secondo cui, a partire dalla fase di ammissione dei mezzi di prova, non vi sono più differenze percepibili tra rito ordinario e del lavoro.
[13]Sul mutamento di rito di cui all’art. 40 c.p.c. e sulla necessità, in taluni casi, di adattare le regole contenute negli artt. 426 e 427 c.p.c. alle peculiarità dei riti speciali che vengono in considerazione v., per tutti, Mandrioli,Carratta,Diritto processuale civile, I, Torino, 2014, pp. 343 s.; Balena, op. cit., p. 662 s.; Consolo, Luiso, Sassani, La riforma del processo civile, I, Milano, 1991, p. 21.
[14]V. per tuttiLuiso, Dirittocit., IV, p. 135;Mandrioli,Carratta,op. cit., IV, pp. 388 s.;Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Torino, 2012, pp. 195 s.
[15]Farina, Art. 4, in Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di Martino e Panzarola, Torino, 2013,pp. 30 ss.; Marino, La disciplina del mutamento del rito, in Riordino e semplificazione dei procedimenti civili, a cura di Santangeli, Milano, 2012,pp. 80 ss.; Carratta, La “semplificazione” dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012, pp. 75 ss.; Izzo, Mutamento di rito, in Foro it., 2012, V, cc. 82 s.;Panzarola,Art. 4, in La semplificazione dei riti, a cura di Sassani e Tiscini, Roma, 2011, pp. 52 ss. Consolo, Prime considerazioni introduttive sul d. lgs. n. 150/2011 di riordino (e relativa “semplificazione”) dei riti settoriali, in Corr. giur., 2011, p. 1490;Giordano, Note a prima lettura sulle previsioni generali del d. lgs. n. 150 del 2011 in tema di semplificazione dei riti civili, in Giust. civ., 2011, II, p. 435.
[16] La tesi illustrata nel testo è fatta propria dalla quasi totalità delle sentenze citate sopra, alle note 4 – 7, con le eccezioni ivi indicate. In dottrina v.Salvaneschi, Riflessioni sulla conversione degli atti processuali di parte, in Riv. dir. proc., 1984, pp. 135 ss.; Minetola, Murra, Considerazioni su i processi da ricorso introdotti con citazione, in Giust. civ., 2001, I, pp. 1631 ss.
[17]Cass., 23 settembre 2013, n. 21675 cit., e Cass., 8 ottobre 2013, n. 22848, in Foro it., 2013, I, c. 3101 con nota di Barone.Sul punto v. anche la recentissima Cass., 10 febbraio 2014, n. 2907, sulla forma da impiegare per l’appello avverso la sentenza resa in un giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, che riprende le posizioni già enunciate nel 2013 dalle sezioni unite.
[18]Balena, op. cit., pp. 656 s.
[19]Cass., 6 febbraio 2013, n. 2830, in Guida dir., 2013, 19, p. 67; Cass., 1 ottobre 2009, n. 21071, in Mass. Giust. civ.,2009, p. 1396; Cass., 28 dicembre 2007, n. 27183, inGiust. civ.,2008, I, p. 888; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26977, in Giur. it., 2008, p. 2269 con nota di Frus; Cass., 8 febbraio 1989, n. 778, in Mass. Giust. civ.,1989, p. 210; Cass., 7 febbraio 1979, n. 828, in Fall., 1979, p. 761; Cass., 9 novembre 1977, n. 4816, in Mass. Giust. civ.,1977, p. 1924. Le pronunce appena citate affermano che la riassunzione deve avvenire, a seconda dei casi, con ricorso o comparsa, ma assolve allo scopo anche un atto di citazione a comparire a udienza fissa notificato nei termini di cui agli artt. 297 o 305 c.p.c. Sostiene invece che al mancato deposito della citazione notificata nel termine per la riassunzione consegue l’estinzione del processo Cass., 7 maggio 2007, n. 10291, in Dir. e giust.online. Sul punto v. anche Renzi, Equivalenza delle forme per l’atto di riassunzione del processo ex art. 50 c.p.c. e principio di effettività della tutela giurisdizionale, in Giur. it., 2013, 899 ss.
[20] L’impossibilità di applicare le disposizioni sul mutamento di rito è stata affermata, per l’opposizione ad ordinanza ingiunzione proposta a norma della l. 24 novembre 1981, n. 689 (anteriormente quindi alle modifiche apportate dal d. lgs. 150 del 2011),daCass., 29 febbraio 2008, n. 5468, in Mass. Giust. civ.,2008, p. 328; Cass., 2 agosto 2000, n. 10127, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 1688; Cass., 15 dicembre 1999, n. 14113, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, p. 751.Di contrario avviso erastata però la pronuncia delle sezioni unite Cass., 7 marzo 1985, n. 1876, in Mass. Giust. civ.,1985, p. 581, secondo cui è sufficiente che l’opposizione sia notificata entro il termine previsto per il deposito dell’atto introduttivo, sotto forma di ricorso, in cancelleria.
[21]Nel senso indicato nel testo v., sia pure obiter, Cass., 14 aprile 2011, n. 8491 cit. In precedenza la tesi era stata fatta propria daCass., 28 maggio 2008, n. 14007, in Giust. civ.,2010, I, p. 2295; Cass., 11 aprile 2006, n. 8440, in Foro it., 2006, I, c. 2326; Cass., 30 luglio 2004, n. 14560, in Foro it., 2004, I, c. 3004; Cass., 16 febbraio 1988, n. 1662, in Mass. Giust. civ., 1988, p. 400. In seguito v. Cass., 26 luglio 2013, n. 18117, in Foro it., 2013, I, c. 2785 che, in questa materia, ha ritenuto equipollenti citazione e ricorso perfino per l’introduzione del giudizio d’appello.
[22]Cass., 23 settembre 2013, n. 21675cit. e Cass., 8 ottobre 2013, n. 22848 cit.
[23]Cass., 14 aprile 2011, n. 8491 cit.
[24]V. sopra, paragrafo 2.
[25]Balena,op. cit.,p. 664.
[26] Sul punto vedi anche Balena, op. cit., pp. 652 s. il quale, prima dell’emanazione del d.lgs. n. 150 del 2011, sottolineava l’esistenza di analoghe disparità tra il trattamento dell’errore nella scelta della forma dell’atto introduttivo del processo e la disciplina del difetto di giurisdizione e conseguente translatioiudicii contenuta nell’art. 59 della l. 18 giugno 2009, n. 69 e nell’art. 11 del codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104).
[27] Trib. Modena, 22 maggio 2010, in www.giurisprudenzamodenese.it
[28] L’assenza di una prima fase “neutra” non elide in ogni caso la possibilità che sorgano significative incertezze in ordine alla forma da impiegare per l’atto introduttivo del giudizio d’appello: esemplari al riguardo sono i casi affrontati dalla giurisprudenza in tema di appello nei procedimenti di divorzio su cui ci siamo soffermati retro, alla nota 7.
[29]Furno,Nullità e rinnovazione degli atti processuali, in Studi in onore di Redenti, Milano, 1951, pp. 427 s.; Denti, voce “Nullità degli atti processuali civili”, in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 481; Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, p. 547; Salvaneschi, op. cit., pp. 121 ss.; Oriani, voce “Nullità degli atti processuali (dir. proc. civ.)”, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, pp. 14 s.;Auletta, Nullità e inesistenza degli atti processuali civili, Padova, 1999, pp. 186 s.;Marelli, La conservazione degli atti invalidi nel processo civile, Padova, 2000, pp. 102 ss.; Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, pp. 525 ss.
[3] Richiama ad esempio tanto l’art. 156, comma 3° quanto l’art. 159, comma 3°, c.p.c.Cass., 7 marzo 2008, n. 6196 cit.Menziona il solo art. 159 c.p.c. Cass., 6 giugno 1988, n. 3828, in Mass. Giust. civ., 1988, p. 916.Si fondano invece sul disposto del solo art. 156 c.p.c. Cass.,8 ottobre 2013, n. 22848 cit.; Cass., 23 settembre 2013, n. 21675 cit.; Cass., 11 novembre 2009, n. 23907 cit.; Cass., 18 agosto 2006, n. 18201 cit.
[31]Martinetto, Della nullità degli atti, in Comm. c.p.c., a cura di Allorio, I, Torino, 1973, p. 1594; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 2006, pp. 215 s. In giurisprudenza la retroattività della sanatoria di cui all’art. 156, comma 3°, c.p.c., è affermata (principalmente in caso di vizi della notificazione) da svariate pronunce, ad es. Cass., 30 agosto 2011, n. 17804, in Mass. Giust. civ.,2011, p. 1189; Cass., 21 marzo 2011, n. 6470, in Mass. Giust. civ.,2011, p. 436; Cass., 25 settembre 2009, n. 20666, in Guida dir., 2010, 9, p. 72; Cass., 11 agosto 2004, n. 15530, inGiust. civ.,2005, I, p. 1015.
[32] Cfr. Cass., 23 settembre 2013, n. 21675 cit. e Cass., 16 febbraio 1999, n. 1283 cit.
[33] La sanatoria della nullità fondata sul raggiungimento dello scopo dell’atto ha un fondamento oggettivo, dunque opera anche quando l’altra parte si costituisce in giudizio facendo valere la nullità stessa: Martinetto, op. loc. citt.; Poli, op. cit., pp. 415 ss. V. anche la giurisprudenza citata retro, alla nota 31, in tema di sanatoria della notificazione nulla.
[34]Cass., 22 giugno 2007, n. 14591, in Dir. egiust.online; Cass., 5 aprile 2005, 6983, in Mass. Giust. civ.,2005, p. 612; Cass., 11 aprile 2000, n. 4601, in Mass. Giust. civ., 2000, p. 781. Specificamente sull’appello divorzile: Cass., 11 novembre 2009, n. 23907 cit.
[35] La tardività dell’opposizione a decreto ingiuntivo conseguente all’errore commesso nell’individuare la forma dell’atto introduttivo va, secondo numerose pronunce, rilevata d’ufficio: v. ad es.Cass., 6 giugno 2006, n. 13252, inForoit., 2006, I,c. 3082 (in materia di ordinanza ingiunzione di cui all’art. 186-ter c.p.c.); Cass., 26 marzo 1991, n. 3258, in Mass. Giust. civ., 1991, p. 428;Trib. Reggio Emilia, 19 aprile2012, n. 762 cit.; App. Milano, 1 marzo 2006, in Giur. merito, 2007, p. 689.
[36]Considerazioni sostanzialmente analoghe si rinvengono in  Balena, op. cit., pp. 654 ss. e Poli, op. cit.,pp. 535 s.
[37]Per tutti v. Colesanti, voce “Litispendenza (dir. proc. civ.)”, in Noviss. dig. it., IX, Torino, 1963, p. 977; Cerino Canova, Dell’introduzione della causa, in Comm. c.p.c., a cura di Allorio, II, Torino, 1980,pp. 278 ss.;Consolo, voce “Domanda giudiziale (dir. proc. civ.)”, in Dig., disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, pp. 87 ss. e le considerazioni di Punzi, Notificazione degli atti nel processo civile, Milano, 1959, p. 46.
[38]Posizioni analoghe a quelle espresse del testo sono fatte proprie daRonco, op. cit., p. 1554; Marelli, La conservazione degli atti invalidi nel processo civile, Padova, 2000, pp. 112 ss.; Rossi, op. cit., pp. 1005 ss.; Poli, op. cit., p.539 ss. e Id., Le Sezioni Unite sul regime del ricorso proposto erroneamente al posto della citazione e viceversa, in Riv. dir. proc., 2014, p. 1205 e ss.Cenni anche in Cipriani, Vecchie e nuove vittime del formalismo processuale, in Foro it., 1994, I, cc. 725 s.
[39]Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, II, Padova, 1938, pp. 100 s. V. però anche le considerazioni di Punzi, Delle comunicazioni e notificazioni, in Comm. c.p.c., a cura di Allorio, I, Torino, 1973,pp. 1452 ss.
[40]Sulla possibilità che la citazione possa produrre effetti, seppure non notificata, quando, “per una anomalia, sia seguita dal giudizio”,  v. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, p. 511 e,sulle conseguenze dell’equipollenza tra citazione e ricorso,Id., op. cit., pp. 544 s.Argomenti a favore dell’equipollenza di notificazione e deposito si ricavano anche dall’art. 170, u.c., c.p.c., che consente di comunicare “le comparse e le memorie consentite dal giudice” indifferentemente con il deposito in cancelleria o la notificazione, oltre che mediante il loro scambio documentato. Sulla natura necessaria dello strumento notificazione si vedano invece le contrarie considerazioni di Punzi, Delle comunicazioni cit., pp. 1457 ss.
[41]Salvaneschi, op. cit., pp. 140 ss.
[42]Recentemente le sezioni unite hanno escluso la necessità di riportare, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello, l’avvertimento di cui all’art. 163, n. 7, c.p.c. (Cass., 18 aprile 2013, n. 9407, in Guida dir., 2013, 22, p. 44).
[43] Sulla sanatoria dell’atto di impugnazione affetto da vizi che attengono la vocatio in iusvedi per tutti Consolo, L’impugnazione delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, pp. 175 ss. e, in giurisprudenza, Cass., 28 maggio 2010, n. 13128, in Mass. Giust. civ.,2010, p. 832; Cass., 16 ottobre 2009, n. 22024, in Foro it., 2010, I, c. 3496, con nota di Balena e Cass., 1 luglio 2008, n. 17951, in Mass. Giust. civ.,2008, p. 1065.
[44] Corte cost., 2 aprile 2004, n. 107, in Foro it., 2004, I, cc. 1321 ss. con nota di Caponi, Sul perfezionamento della notificazione e l’iscrizione della causa a ruolo.
[45]Cass., 17 dicembre 2010, n. 25640, in Guida dir., 2011, 5, p. 97; Cass., 25 gennaio 2010, n. 1310, in Mass. Giust. civ.,2010, p. 292; Cass., 24 agosto 2007, n. 17958, inGiust. civ., 2008, I, p. 1959.

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L’errore sul modello formale dell’atto introduttivo

L’errore nella scelta del rito e i rimedi per attenuarne le conseguenze pregiudizievoli per le parti hanno da sempre suscitato la massima attenzione del legislatore processuale. Dall’analisi del codice di rito e delle riforme ad esso apportate negli anni, è chiara la tendenza ad affievolire gli effetti della patologia de qua, disciplinando le ipotesi di mutamento dal rito “errato” a quello legalmente prescritto, onde evitare che l’errore dell’attore nell’instaurazione della controversia potesse risolversi in un vizio invalidante l’intero procedimento, ossia che il processo si chiudesse con mera pronuncia in rito. Non a caso la correttezza del rito non ha mai costituito un presupposto processuale[1]. Il leitmotiv è far ottenere alle parti la tutela giurisdizionale del diritto (sostanziale) controverso in tempi ragionevoli, vale a dire garantire l’effettività della stessa tutela.

L’accento si pone sulla ratio del diverso atteggiamento del legislatore nel disciplinare le conseguenze dell’adozione di un rito erroneo nei procedimenti a cognizione piena e in quelli a cognizione sommaria, fermo che, in ogni caso, il predetto errore non determina alcuna nullità bensì la sola conversione nel procedimento virtuoso. A parità di esito processuale – la salvezza delle attività compiute prima dell’ordinanza di mutamento – e coerentemente con il principio di economia, il distinguo si fonda sulla diversa funzione cui assolvono le due tipologie procedimentali.

Errore nella scelta del rito del lavoroNella fattispecie, il rito del lavoro è scandito da una rigida sequenza procedimentale in forza della natura delle vicende sostanziali che regolamenta; la peculiarità del vincolo contrattuale disciplinato dal rito de quo implica necessariamente l’esigenza che determinati interessi siano tutelati alla stregua di un iter processuale legislativamente predeterminato.

Nell’ipotesi in cui la parte, per errore (anche incolpevole) sulle regole del processo, incardini un giudizio con un atto che è a tutti gli effetti una citazione, quando la legge avrebbe imposto l’adozione del ricorso (o viceversa), si pone la problematica oggetto d’esame. Il rimedio predisposto dal legislatore è il mutamento del rito; fermo che, le attività processuali, pur integrate, non valgono a ricondurre il processo ad una fase anteriore rispetto a quella già posta in essere. Infatti, dopo la trasformazione del rito, anche qualora il procedimento seguisse nuove regole processuali, gli atti precedentemente compiuti saranno valutati, dal punto di vista formale, in base alle norme del rito erroneamente selezionato. Detta conversione non può tollerare alcuna condizione o limitazione, per la semplice ragione che il legislatore, pur avendo espressamente disciplinato il citato errore, nulla ha previsto in tal senso. Allo stato, le conseguenze dell’adeguamento del sistema delle preclusioni a quanto previsto per il rito ordinario sono, in concreto, piuttosto modeste, essendo venuta meno la distinzione tra prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione (artt. 180 – 183 c.p.c.) e la possibilità di concedere, in una successiva udienza (art. 184), ulteriori termini per formulare istanze istruttorie. Conseguentemente, vengono meno anche i profili più critici del mutamento di rito legati ai pregiudizi connessi all’esercizio di attività processuali altrimenti precluse.

Unica nota problematica si registra in punto di efficacia delle prove acquisite durante lo svolgimento del processo nelle forme del rito del lavoro, avvenuta la conversione ai sensi dell’art. 427 c.p.c.; e ciò in quanto le prove acquisite durante il rito speciale avranno l’efficacia consentita dalle norme ordinarie[2].

Errore nella scelta del rito sommarioVolgendo lo sguardo alla ratio ispiratrice dell’introduzione del rito sommario di cognizione, ciò che rileva è la volontà del legislatore di uscire dai rigidi confini previsti per il procedimento ordinario di cognizione, consentendo l’adattamento, caso per caso, delle forme del giudizio alla complessità della lite[3]. L’effettiva applicazione del procedimento de quo, alla luce della pressoché generalizzata assenza di limitazioni quoad petita, presenta, dunque, la caratteristica innovativa per il nostro ordinamento di non essere predeterminabile a priori: la scelta del rito sommario da parte del ricorrente sarà, di norma, operata senza alcuna effettiva certezza in merito all’evoluzione futura del procedimento e, poiché tale evoluzione dipende da una valutazione non sindacabile e ad esclusivo appannaggio dell’autorità giudicante, è del tutto imprevedibile il destino di un ricorso proposto ex art. 702 bis c.p.c.[4]

La scelta del rito (sommario piuttosto che ordinario) consiste, pertanto, in un’anticipazione ipotetica degli sviluppi processuali da adattare alla semplicità della materia del contendere, a prescindere dal convincimento del giudice sui fatti dedotti dalle parti. Dunque, secondo l’id quod plerumque accidit, tale decisione è ex ante solo pronosticabile, posto che l’idoneità della causa ad essere sottoposta ad una trattazione sommaria deve essere verificata ex post, all’esito della costituzione del convenuto e della prima udienza[5]. Il rito sommario, quindi, non possiede carattere residuale rispetto all’ordinario giudizio a cognizione piena, bensì costituisce un modello di procedimento semplificato, a cognizione sommaria, che l’attore può discrezionalmente impiegare come alternativa nelle cause sottoposte alla decisione del tribunale in composizione monocratica. Per converso, la prosecuzione nelle forme del rito sommario è soggetta ad un ampio potere discrezionale del giudice, al quale è rimessa la decisione di effettuare il mutamento nel rito a cognizione piena.

Pertanto, gli unici interrogativi ruotano attorno alla valutazione di procedibilità della lite secondo il rito sommario che presuppone una prognosi di case management sugli atti di istruzione da compiere; ferma una sorta di passerelle dal rito ordinario al rito sommario consentita ai sensi dell’art. 183 bis c.p.c.

Mutamento del rito: ratio, effetti e criticitàIn altri termini, l’ipotesi di mutamento da/in rito del lavoro a cognizione piena è prevista al fine di evitare di incorrere in un errore processuale in senso stretto, mentre nel caso di procedimento sommario di cognizione onde incorrere in un iter processuale inidoneo alla complessità della situazione sottoposta all’attenzione del giudice. Emerge, con tutta evidenza, che lo scopo cui si tende è la “flessibilizzazione” del rito ordinario per quelle controversie per le quali tale sovrastruttura risulti sovrabbondante[6]. Nonostante gli sforzi del legislatore nel regolamentare la materia e la copiosa attività giurisprudenziale, non sembra che, allo stato dell’arte, il nostro sistema processuale possa vantare una soluzione univoca e soddisfacente. Il più recente intervento normativo sul punto, il d.lgs. n. 150 del 2011, pur avendo di mira la semplificazione e riduzione dei riti civili, si è risolto, in sostanza, in una duplicazione dei riti e, quindi, in una proliferazione ulteriore di riti speciali[7]. E ciò in quanto al programmatico intervento di razionalizzazione delle regole processuali ha fatto da contraltare un modus procedendi contorto e farraginoso che si è dimostrato esclusivamente idoneo a ridurre il numero dei modelli ai quali ciascun rito deve riferirsi.

Non si intravede ancora il capo del bandolo della matassa: la materia processuale continua ad essere regolata in maniera disomogenea e frammentaria. E, tralasciando i numerosi dubbi di eccesso di delega – anche sul piano del rispetto delle garanzie costituzionali -, l’operazione compiuta dal legislatore delegato risulta più che di semplificazione, di riadattamento. Pertanto, la riconduzione ad uno dei modelli di destinazione nei limiti di compatibilità finisce, di fatto, per obbligare l’interprete ad un’immeritata attività di decoupage [8]. La disciplina applicabile al caso di specie, infatti, non è frutto di una lineare attività ermeneutica, ma di una lettura, per così dire, “in multitasking” delle disposizioni del c.p.c e del d.lgs. 150/ 2011. È evidente che l’auspicato risultato di semplificazione ha lasciato il posto ad una faticosa attività ricostruttiva dell’interprete. Volendo azzardare quella che sarebbe potuta essere la chiave per una effettiva e vincente semplificazione della giurisdizione civile speciale, non si può non avere di mira la soluzione che predilige l’adozione di un rito unico. Ma essendo obbligato il confronto con il reale (e non con l’auspicabile), è opportuno soffermarsi sull’esistente.  Accanto alle suesposte criticità, si deve dar atto che il risultato della citata (e propagandata) semplificazione, è il sostanziale depotenziamento del peso specifico della diversità tra i riti, almeno in quanto ciascuno di essi garantisce, in ogni caso, il giusto processo. In questo senso, si potrebbe parlare di relativa fungibilità tra i riti. A conforto di ciò basti pensare che, onde evitare oscillazioni in merito al regime delle preclusioni, restano ferme quelle maturate prima del mutamento. Se si fosse seguita una strada alternativa, a prevalere sulla certezza degli effetti della litispendenza (ma ancora più sulla tutela dell’affidamento delle parti), sarebbe stata l’esigenza di perpetuare le differenze di disciplina. Il chiaro sotteso a questa normativa capovolge quello per cui le regole del gioco processuale non sono intercambiabili, bensì devono essere quelle previste ad hoc dal legislatore per ciascuna fattispecie. Approdo questo che appare sostenibile, senza correre il rischio che l’attore possa abusarne, atteso che, appunto, ogni rito garantisce con sufficienza costituzionale ogni parte. La costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo ha accentuato la crescente rilevanza che la tutela processuale differenziata ha dato al criterio della proporzionalità nell’uso della risorsa giudiziaria e, di conseguenza, al diverso valore ponderale istruttorio della lite coinvolta, prima che alle peculiarità della situazione soggettiva contesa.  La controprova di ciò si ha alla luce della diffusione sempre più insistente di riti deformalizzati e la pressoché generalizzata applicabilità del procedimento sommario di cognizione grazie alla assenza di limitazioni quanto all’oggetto[9]. Dall’adozione di una simile prospettiva, deriva l’abbandono di schemi fissi e predeterminati al fine di configurare una tutela giurisdizionale tale da garantire un trattamento individualizzato, proprio per neutralizzare il tempo della durata (pur fisiologica) del processo civile.

In questa ottica, la differente declinazione delle regole processuali perde rilievo, purché siano rispettati, sostanzialmente, i valori essenziali della dimensione avversariale tipica del processo, cioè, in sintesi, quelli del contraddittorio[10]. La prospettiva che si presenta è quella per cui il differenziale dato dal rito diviene “debole”: non si ha tanto diritto ad un rito, quanto alla integrità della difesa. Da qui ne discende anche l’esclusione di ogni retroattività, pur propriamente dichiarativa, degli effetti del mutamento del rito. Tale soluzione, che evoca l’unitarietà dei valori processuali piuttosto che una rigida identità del rito, non può che dirsi imposta alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, vale a dire della protezione funzionale e non formale dei diritti.

Tale è la filosofia sottesa anche al principio dell’ultrattività del rito in appello posto che, a prescindere dall’eventuale inesattezza del rito adottato con l’instaurazione del giudizio, le parti soccombenti dovranno seguire in secondo grado la disciplina del rito individuato dall’attore in relazione alla domanda[11]. Sarà, poi, il giudice dell’impugnazione, se ritenuto opportuno, a disporne il mutamento. Pertanto, nel caso prospettato, lo stato di fatto merita pari dignità dello stato di diritto, se non altro in forza della legittima, perché incolpevole, aspettativa del terzo davanti ad una situazione ragionevolmente attendibile, pur non conforme alla realtà, e non altrimenti accertabile. Diversamente opinando, il “diritto di difesa in ogni grado del processo” risulterebbe dimidiato, in quanto ostacolato nel suo concreto esercizio dall’incertezza delle modalità di impugnazione, il che si tradurrebbe in una denegata giustizia per il soccombente e, quindi, verrebbe disatteso il fine (anche costituzionale) di assicurare la massima garanzia di tutela giurisdizionale. Pertanto, il principio di affidamento declinato nella sua dimensione processualcivilistica e applicato alla natura del rimedio impugnatorio si accompagna inevitabilmente alla regola dell’ultrattività del rito. Si rileva una piena applicazione del principio di strumentalità delle forme nella sua massima estensione e dei suoi corollari, esaltando la prospettiva del procedimento complessivamente considerato rispetto alla dimensione (riduttiva) del singolo atto processuale. E ciò in quanto, come dimostrato, le violazioni della legge processuale perdono rilevanza, almeno nel senso che non precludono la decisione di merito, se, indipendentemente dal mancato rispetto delle forme legalmente prescritte, il procedimento ha, in concreto, soddisfatto gli interessi protetti dalle norme violate[12].  Ancora una volta emerge l’attenzione rivolta dal legislatore alla tutela della parte estranea alla scelta del rito, posto che calibra la propria attività difensiva sulla base delle forme per come effettivamente le sono state presentate, e non per quelle che sarebbero dovute essere. L’assoluta preminenza del raggiungimento dell’obiettivo finisce per ricomprendere perfino il rilievo giuridico dell’esigenza di tassatività, escludendo la necessaria esistenza di fattispecie inderogabilmente vincolanti; sacrificio questo che il sistema, con tutta evidenza, guarda come valore subordinato rispetto all’esigenza di conservazione degli effetti del potere processuale esercitato insieme con la garanzia ad una difesa integra e consapevole.


[1] In questo senso, cfr. Luiso F. P., Diritto processuale civile, IV, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 19 ss; Proto Pisani A., Lezioni, 1987, p. 350, che osserva perentoriamente che “il rito non è requisito di validità della domanda giudiziale”. A contrario, l’opinione favorevole alla chiusura in rito del processo instaurato erroneamente con le forme del c.d. rito Fornero è sostenuta da De Angelis L., Il processo dei licenziamenti tra principi generali e nuovo diritto: l’obbligatorietà e l’errore del rito ed il cumulo delle domande, in Foro it., 2013, parte V, pp. 101 ss., il quale nell’escludere l’applicabilità per analogia degli artt. 426 e 427 c.p.c., nonché dell’art 4 d. lgs. n. 150/ 2011 ricorda, tra gli argomenti a sostegno della sua tesi, l’autorevole insegnamento di Tarzia G., Manuale del processo del lavoro, Giuffré, Milano, 2008, pp. 223 ss., che annoverava la correttezza del rito tra i presupposti processuali, all’epoca in cui mancavano norme ad hoc per il suo mutamento sicché “si sarebbe imposta all’interprete in mancanza di contrarie disposizioni normative” la soluzione dell’inammissibilità della domanda.
[2] Tarzia G., Manuale del processo del lavoro, Giuffré, Milano, 2008, pp. 233 ss.; Luiso F. P., Diritto processuale civile, IV, Giuffrè, Milano, 2015, p. 99, secondo cui, a partire dalla fase di ammissione dei mezzi di prova, non vi sono più differenze percepibili tra rito ordinario e del lavoro.
[3] Biviati P., Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, II, pp. 191 ss; Capponi B., Note sul procedimento sommario di cognizione (artt. 702 bis e ss. c.p.c.), in www.judicium.it; Olivieri G., Il procedimento sommario di cognizione, in Olivieri G., Rascio N. (a cura di), Le norme sul processo civile nella legge sullo sviluppo economico e la semplificazione e la competitività, Jovene, Napoli, 2009, pp. 84 ss; Olivieri G., Il procedimento sommario di cognizione (primissime brevi note), in Foro it., 2009, V, pp. 223 ss; Consolo C., La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corr. Giur., 2009, VII, pp. 877 ss. Un breve cenno a favore si rinviene anche in Capponi B., Il procedimento sommario di cognizione tra norme e istruzioni per l’uso, in www.judicium.it e in Acierno M., Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni applicative, in www.academia.edu, nel solco del Trib. Napoli, 25 maggio 2010, in Foro it., 2011, I, p. 814.
[4] Secondo Arieta G., Il rito semplificato di cognizione, in www.judicium.it., p. 8, anche se il giudice non è chiamato ad effettuare una prognosi sulla fondatezza o infondatezza della domanda, deve concludersi che, nella valutazione complessiva e di sintesi che giustifica la prosecuzione nelle forme semplificate, possa ritenersi compresa anche quella sulla sua eventuale manifesta fondatezza o manifesta infondatezza.
[5] Tuttavia, non sembrano sussistere dubbi relativamente al fatto che tale provvedimento possa essere adottato anche dopo la prima udienza. Infatti, le variabili endoprocessuali che possono contribuire a “complicare” l’istruttoria di una causa sono molteplici; tra le varie ipotesi, possono essere considerate, in via esemplificativa, la presentazione di una domanda riconvenzionale, la chiamata di terzo da parte del convenuto, l’intervento volontario di terzo nel processo (attività compatibile con il modello procedimentale in esame, Giordano R., Procedimento sommario i cognizione, in Il Processo civile competitivo (a cura di Didone A.), Giappichelli, Torino 2010, pp. 713 ss.; Bove M., Il procedimento sommario di cognizione, in Giusto proc. civ., 2010, pp. 431 ss; p. 3; Macagno G. P., Il processo sommario di cognizione: brevi note, in Giur. mer., 2009, pp. 3047.), la chiamata di terzo (cfr. Acierno M., Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni applicative, in Corr. giur., 2010, pp. 508 ss.), (anche d’ufficio, Trib. Verona, (ord.) 5 febbraio 2010, in Giur. mer., 2010, p. 2166, con nota di Biviati P.), ovvero la preposizione di nuove domande, eccezioni e richieste istruttorie da parte dell’attore rese necessarie dalle difese del convenuto, nuove richieste istruttorie del convenuto rispetto alle nuove domande, eccezioni o istanze del ricorrente. Pertanto, pur essendo residuale e ridotta a casi limite, non può escludersi l’ammissibilità sul piano teorico che si muti il rito sommario in ordinario in una fase processuale successiva a quella istruttoria espletata.
[6] Sul meccanismo concernente il mutamento del rito, cfr. Consolo C., Un d.l. in bianco e nerofumo sull’equivoco della “degiurisdizionalizzazione”, in Corr. giur., 2014, pp. 1173 ss; Briguglio A., Nuovi ritocchi in vista per il processo civile: mini-riforma ad iniziativa governativa, con promessa di fare (si confida su altri e più utili versanti) sul serio, in www.giustiziacivile.com; Gradi M., Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”, in www.judicium.it, pp. 22 ss.
[7] Carratta A., in Mandrioli C., Caratta A., Come cambia il processo civile, Giappichelli, Torino, 2009, p. 208; Balena G., La delega per la riduzione e semplificazione dei riti, in Foro it., 2009, V, p. 351.
[8] Bove M., Non viene meno la frammentazione dei riti ma solo quella dei testi di legge da consultare, in Guida dir., 2011, pp. 8 ss.
[9] Caporusso S., Il “modello processuale” del rito ordinario di cognizione, in Foro it., 2012, V, pp. 208 ss.; Asprella C., Il modello ordinario, in Santangeli F. (a cura di) Riordino e semplificazione dei procedimenti civili, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 931 ss.; Saletti A., La semplificazione dei riti civili, in Riv. dir. proc. civ., 2012, p. 730.
[10] Proto Pisani A., Riflessioni critiche sulla cosiddetta tutela giurisdizionale differenziata, in it, 2014, pp. 537 ss.; Proto Pisani A., Dai riti speciali alla differenziazione del rito ordinario, in Foro it., 2006, V, cit., p. 85.
[11] In dottrina, per un discorso ad ampio raggio, v. Balena G., Le conseguenze dell’errore sul modello formale dell’atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle Sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, pp. 647 ss. e, più di recente, Lupano M., Sull’introduzione del processo secondo un modello formale errato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, pp. 121 ss. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 1148, in il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 12015; Cass., sez. un., 8 ottobre 2013, n. 22848, in Foro it., 2013, I, 3101; Cass., sez. un., aprile 2011, n. 15897, in Foro it., 2011, I, 1380. La corte di Cassazione ha qualificato il principio di ultrattività del rito come “specificazione del più generale principio per cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza”, cfr. Cass. 19 gennaio 2012, n. 774, in Mass. Giust. civ., 2012, p. 114
[12] Mandrioli C., Carratta A., Corso di diritto processuale civile, I, Giappichelli, Torino, 2016, p. 502; Giovanardi C.A., Sullo scopo dell’atto processuale in relazione alla disciplina della nullità, in Riv. dir. civ., 1987, II, 281 ss.; Nullità degli atti processuali, in Diritto on line, dir. proc. civ., Treccani.
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La comparsa di risposta

  1. – Definizione

 Il nostro processo civile, benché tendenzialmente improntato al sistema dell’oralità, affida ampiamente alla scrittura la difesa delle parti.

La comparsa di costituzione e risposta si definisce, tradizionalmente, come l’atto difensivo scritto – simmetricamente contrapposto alla citazione e ad essa corrispondente – con il quale il convenuto illustra, per la prima volta, la sua posizione di fronte alla pretesa avanzata nei suoi confronti dall’attore. In buona sostanza l’atto con il quale il convenuto veicola la propria difesa.

La comparsa, tuttavia, non è solo di risposta ma anche di costituzione perché ex art. 166 c.p.c. il convenuto deve costituirsi in giudizio a mezzo procuratore – o personalmente nei casi consentiti dalla legge – almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione – o 10 gg. prima nel caso di abbreviazione dei termini – depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di risposta con la copia della citazione notificata, la procura e  i documenti che offre in comunicazione.

Il deposito della comparsa di risposta, pertanto, è essenziale per la costituzione del convenuto in quanto requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo. Il deposito in cancelleria, addirittura, è stato definito da autorevole dottrina come “lo strumento attraverso il quale l’atto processuale può dirsi perfezionato”.

Come l’atto di citazione, la comparsa di costituzione e risposta è doppiamente recettizia – nel senso che è destinata ad essere sottoposta al giudice previa comunicazione alle altre parti – e costituisce l’atto fondamentale della difesa del convenuto (si ricordi che l’art. 97 disp attuaz c.p.c. vieta l’utilizzo delle private informazioni).

  1. – Forma

I requisiti essenziali di forma – o contenuto formale – per la regolarità dell’atto sono quelli prescritti, in via generale, per tutti gli atti di parte dall’art. 125 disp. attuaz c.p.c. : la comparsa deve, perciò, anzitutto, contenere l’indicazione, oltre che dell’Ufficio giudiziario e delle parti, delle ragioni (o difese come specificamente richiede l’art. 167 c.p.c.) e delle conclusioni; inoltre, deve recare la sottoscrizione del difensore (o della parte, se sta in giudizio personalmente): tuttavia il vizio della mancanza di sottoscrizione può essere sanato dal raggiungimento dello scopo se non sorgono contestazioni sulla ritualità della costituzione (cass. 12.11.1998 n. 11.410).

La comparsa di costituzione deve essere, poi,  corredata dalla procura alle liti – la quale può risultare in calce all’atto stesso (senza che debba essere trascritta sulla copia destinata alla controparte) oppure anche in calce alla copia dell’atto di citazione notificato – e deve essere depositata in numero di copie necessario per le altre parti (art. 156 II° comma e 170 II° comma c.p.c.), con la conseguenza che il mancato deposito di tali copie comporta l’irricevibilità della costituzione ex art. 73 disp. attuaz. c.p.c.

  1. – Contenuto

 Particolarmente importante, è il contenuto dell’atto in esame poiché sotto questo profilo la comparsa concorre, insieme all’atto introduttivo del giudizio – ossia la citazione -,  all’individuazione del thema decidendum. Per questo motivo la riforma del 1990 ha inciso profondamente sul ruolo della comparsa di risposta chiedendo al convenuto di:

  1. A) proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda;
  2. B) indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi;
  3. C) indicare i documenti che offre in comunicazione
  4. D) proporre le eccezioni
  5. E) formulare le conclusioni.

Art. 167 I° comma c.p.c.

  1. A) Le mere difese

Il primo comma dell’art. 167 c.p.c. allorquando recita che il convenuto deve  proporre tutte le sue difese indica le cd. mere difese consistenti nella semplice contestazione (ossia negazione dell’esistenza) dei fatti costitutivi della pretesa attrice (difese in fatto) o della stessa pretesa o delle disposizioni di legge (nel senso che questa manchi o preveda effetti diversi da quelli invocati in diritto – difese in diritto); in ciò le mere difese si differenziano dalle eccezioni che, viceversa, comportano la deduzione di fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto fatto valere dall’attore.

A.1) La non contestazione

Ma sempre il primo comma dell’art. 167 c.p.c. prevede che il convenuto “deve prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda”: tale disposizione, introdotta con la novella del 1990 ha carattere più pedagogico e/o esortativo che giuridico (assomiglia alle cd. leges minus quam perfectae del diritto romano ossia quelle leggi che non prevedevano alcuna sanzione in caso di violazione) in quanto l’inosservanza di quel disposto non è sanzionata né esime il giudice dalla verifica dell’assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’attore. La dottrina non manca, però, di rilevare come l’uso del verbo “deve” per il compimento delle attività difensive comporta che l’onere non sia del tutto sfornito di sanzione: da cogliere non nella perdita del relativo potere ma unicamente sul piano del contegno sleale e scorretto (art. 88 c.p.c) ossia degli argomenti di prova desumibili da tale contegno ai sensi dell’art. 116 c.p.c., sia per la condanna alle spese, indipendentemente dalla soccombenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c..

Non va, peraltro, ignorato che la contestazione tardiva potrà giustificare una tardiva ammissione delle prove offerte dall’attore sulle circostanze tardivamente contestate dal convenuto (art. 184 bis c.p.c.).

Esempio: un mediatore agisce in giudizio per ottenere il pagamento della provvigione dichiarando di essere iscritto all’albo dei mediatori – condizione necessaria pere ottenere tale pagamento – indicando tutti gli estremi (albo e numero di iscrizione): controparte solo all’esito dell’udienza di ammissione delle prove allorquando i termini decadenziale di cui all’art. 184 c.p.c., sono scaduti contesta l’iscrizione all’albo dei mediatori da parte dell’attore chiedendo fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni per la pronunzia di sentenza di rigetto della domanda.

La contestazione, tra l’altro, può avvenire anche in maniera generica dal momento che nell’art. 167 c.cp., a differenza di quanto previsto nel diritto del lavoro dall’art. 416 c.p.c.,  non si impone al convenuto di contestare i fatti in maniera precisa.

Si ricordi, però, che la non contestazione, in ogni caso, produce da subito effetti in quanto ha rilievo come presupposto dell’ordinanza di cui all’art. 186 bis c.p.c. (ordinanza per il pagamento delle somme non contestate): non contestazione da intendersi come mera assenza di difesa anche se la non contestazione deve provenire dalla parte costituita a nulla rilevando la contumacia.

Certo la questione della non contestazione è molto ampia e coinvolge il problema della disponibilità del diritto sostanziale come autentico potere processuale di determinare il campo di intervento del giudice; la non contestazione non è atto negoziale né prova legale – sicché non vincola il giudice nel ritenere veri i fatti non contestati – ma è esercizio di autoresponsabilità nel determinare il quid disputatum ed il thema probandum: con la conseguenza della possibilità per il giudice di ritenere veri i fatti non contestati e la preclusione alla contestazione tardiva.

Esempio: non contestazione della qualità di erede in causa ove tale status legittimi attivamente la parte:  la costante e consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha statuito che “Con particolare riferimento all’onere di provare la qualità di erede, gravante sul soggetto che in tale veste agisca in giudizio, si è in più occasioni affermato che tale onere viene meno ove la controparte abbia sollevato in proposito contestazioni solo nella comparsa conclusionale di primo grado, dopo aver accettato il contraddittorio senza alcuna eccezione al riguardo, così da rendere non controversa detta qualità”  (cfr. cass. sez. lav. 1.9.2003 n. 12.740 ove nella parte motiva così si scrive “Con particolare riferimento all’onere di provare la qualità di erede, gravante sul soggetto che in tale veste agisca in giudizio, si è in più occasioni affermato che tale onere viene meno ove la contro parte abbia sollevato in proposito contestazioni solo nella comparsa conclusionale di primo grado, dopo aver accettato il contraddittorio senza alcuna eccezione al riguardo, così da rendere non controversa detta qualità (Cass. n. 7758 del 1997; Cass. n. 5576 del 1997; Cass. n. 5640 del 1990; Cass.. n. 2356 del 1985; Cass. n. 2295 del 1980);

Peraltro va tenuto presente che:

  1. a) se la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto rende inutile provare il fatto stesso perché lo rende incontroverso (nel processo civile, infatti, le parti concorrono a delineare la materia controversa), la mancata contestazione dei fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria opera unicamente sulla formulazione del convincimento del giudice (cass. s.u. 17.6.2004 n. 11.353);
  2. b) la mancata contestazione deve riguardare la titolarità del diritto sostanziale mentre laddove la mancata contestazione riguarda questioni processuali allora è di ordine pubblico ed il rispetto del medesimo non può essere lasciato nella disponibilità delle parti (cfr. 23.12.2004 n. 23960 in tema di qualità di erede legittimato ad impugnare ma contra Cass. 29.9.1999 n. 10790, ma anche Cass. 20.8.1997 n. 7758 ove espressamente in motivazione si assume che “verificatasi la successione a titolo universale nella titolarità del diritto controverso, l’onere del soggetto, che si costituisce in giudizio come successore, di fornire la prova di tale sua qualità sorge unicamente in presenza di una specifica e tempestiva contestazione ad opera della controparte, la quale, accettando il contraddittorio senza alcuna eccezione al riguardo, rende non controversa detta qualità (Cass. 5640-90 e 2356-85); cass. 1997 n. 5576; 1990 n. 5640; 1985 n.2356; 1980 n. 2295).
  3. c) la mancata contestazione da parte del convenuto in comparsa di risposta può avere le conseguenze sopra delineate in quanto – e solo se – i dati fattuali interessanti sotto diversi profili la domanda attrice siano tutti esplicitati in modo esaustivo in atto di citazione.

** Diverse dalla non contestazione sono le ammissioni di fatti sfavorevoli alla stessa parte: se la comparsa è sottoscritta dalla parte tali ammissioni costituiscono prova in quanto confessioni se, invece, la comparsa è sottoscritta dal solo difensore allora bisogna tenere presente che per giurisprudenza costante del supremo collegio “le dichiarazioni del difensore, pur non avendo efficacia confessoria, costituiscono elementi indiziari idonei a sorreggere il convincimento del giudice, sia perché, riguardo alla prospettazione della realtà fenomenica, esse devono farsi risalire alla parte da cui proviene la narrazione dei fatti anteriori al processo, sia perché le medesime vengono fatte e sostenute da un soggetto professionalmente qualificato e ben edotto delle conseguenze giuridiche derivanti da quanto si afferma” (cfr. tra le tante cass. 12.12.1986 n. 7411).

  1. B) Le deduzioni probatorie

La mancata previsione di decadenze in tema di deduzioni probatorie (contrariamente a quanto previsto dall’art. 416 c.p.c.) si spiega facilmente con la circostanza che nel sistema a due fasi delineato dalla novella per il processo civile ordinario, le relative preclusioni scattano soltanto in un momento successivo alla prima udienza di trattazione una volta cioè che, chiusa la fase di allegazione dei fatti, si è definito e fissato il thema probandum.

Una tesi, peraltro ormai superata, sosteneva , invece, che laddove non fosse stato indicato alcun mezzo probatorio il convenuto non poteva avvalersi della richiesta di cui all’art. 184 c.p.c. in quanto la stessa facoltizza il convenuto ad indicare “nuovi” mezzi di prova presupponendo la pregressa richiesta di mezzi di prova: l’argomentazione, tuttavia, di natura meramente letterale contrastava con la struttura del processo di cognizione così come introdotto dalla novella del 1990 che distingue la fase della trattazione dalla fase cd. istruttoria (v. ormai per l’ammissibilità della richiesta di mezzi probatori cass. 25.11.2002 n.  16.571)

  1. C) La produzione documentale

Parimenti anche per la produzione di documenti non vi é alcuna preclusione se non quella prevista dall’art. 184 c.p.c.

  1. D) Le eccezioni

Tutte le eccezioni, anche  quelle processuali e di merito non rilevabili di ufficio (ossia le eccezioni in senso stretto) non sono da proporre a pena di decadenza nella comparsa di costituzione e risposta. Con la novella del 1995 l. n. 354, infatti, la suddetta barriera è stata differita con la prevista assegnazione di un nuovo termine non inferiore a 20 gg. prima dell’udienza di trattazione ex art. 180 II° comma c.p.c.

Giova, ora, però, aprire una breve parentesi sulle eccezioni trattandosi di attività defensionale tipica del convenuto.

Orbene, le eccezioni di merito non rilevabili di ufficio sono le allegazioni di tutti quei fatti impeditivi, modificativi o estintivi che in mancanza di un’esplicita manifestazione di volontà della parte non potrebbero essere posti dal giudice, quantunque provati, a fondamento della decisione. In molti casi è la stessa legge che riserva l’eccezione alla disponibilità della parte – es. eccezione di compensazione art. 1242 c.c., o eccezione di prescrizione art. 2938 c.c.; in altri casi, pur in mancanza di una previsione espressa (es. fattispecie artt. 1442 c.c. eccez. di annullabilità del contratto,  1449 in tema di rescissione, 1460 c.c. exceptio inadimpleti contractus, 1494 in tema di vizi, 1944 c.c., 1947 c.c. riguardo al beneficio dell’escussione a favore del fideiussore, 2268 c.c. relativamente al beneficio dell’escussione a favore del socio di snc). Il carattere di eccezione in senso proprio è segnalato dal loro consistere nell’allegazione di fatti che se riguardati a parte actoris attribuiscono un diritto potestativo o un’azione costitutiva: sono cioè quelle eccezioni corrispondenti a controdiritti del convenuto rivolti all’impugnazione del diritto dell’attore che potrebbero essere fatti valere separatamente, in via di azione autonoma, come es. la deduzione di annullabilità del contratto. In quest’ultimo caso la natura di eccezione in senso stretto si ricava dalla circostanza che la legittimazione a far valere in via d’azione il fatto estintivo, impeditivo o modificativo del rapporto sostanziale è esplicitamente riservata alla parte.

Per quanto riguarda le eccezioni processuali di norma è lo stesso codice di rito che disciplinando le singole ipotesi ne determina il regime di proponibilità, stabilendo il più delle volte nel caso di eccezione riservata, la necessità che questa sia contenuta a pena di decadenza nella comparsa di risposta o comunque nella prima difesa.

Tali eccezioni possono essere non rilevabili di ufficio (es. art. 38 II° comma c.c. eccez. incompetenza territoriale semplice; oppure art. 164 III° comma c.p..c per l’inosservanza dei termini minimi a comparire o per al mancanza dell’avvertimento di cui la comma VII°, l’art. 215 comma I° n. 2 per il disconoscimento della scrittura privata  o l’art. 307 c.p.c.) oppure rilevabili di ufficio (es. difetto di giurisdizione e incompetenza art. 38 II° comma c.c..)

Con riferimento ai vizi della citazione va rilevato che la costituzione del convenuto sana tali vizi e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali dal momento della prima notificazione (art. 164 III° comma c.p.c.).

  1. E) Le conclusioni

Per quanto non previste a pena di decadenza le conclusioni rappresentano pur sempre un elemento essenziale di contenuto-forma della comparsa di risposta per cui una totale loro assenza comporterebbe l’inammissibilità dell’atto stesso. La mancanza di preclusioni al riguardo rende, comunque, possibile il loro completamento nel corso dell’udienza di trattazione.

Art. 167 II° comma c.p.c.

 – Le attività da svolgersi a pena di decadenza

** 4.a – La domanda riconvenzionale

La domanda riconvenzionale è la domanda che il convenuto propone contro l’attore chiedendo un provvedimento sfavorevole all’attore che va oltre il rigetto della domanda principale. Con la domanda riconvenzionale il convenuto amplia il rapporto processuale instaurato dall’attore pur esercitando un’azione autonoma da esaminare e decidere anche se la domanda principale sia dichiarata inammissibile purchè, ovviamente la domanda riconvenzionale non venga proposta in via subordinata al solo caso di accoglimento delle domande attoree.

La riconvenzionale va distinta dall’eccezione riconvenzionale che si verifica  allorquando il convenuto introduce un’azione di accertamento  costitutiva al solo fine di paralizzare nei suoi elementi di fatto e di diritto la domanda proposta dall’attore. All’eccezione riconvenzionale, infatti, si applica la disciplina propria delle eccezioni in senso stretto.

Esempio: qualora la deduzione di un controcredito abbia il solo scopo di paralizzare la pretesa avversaria la compensazione assume il carattere di eccezione riconvenzionale, mentre se essa miri ad ottenere una pronunzia di condanna nei confronti della controparte allora la compensazione assume il carattere di domanda riconvenzionale.

L’art. 167 II° comma c.p.c. prevede che il convenuto deve proporre la domanda riconvenzionale – o anche più domande riconvenzionali – con la comparsa di costituzione e risposta. Ma attenzione, la domanda riconvenzionale deve essere proposta nella comparsa di costituzione e di risposta depositata nei venti giorni precedenti l’udienza di prima comparizione e non nella comparsa di costituzione e risposta depositata, per esempio, all’udienza: ciò a pena di decadenza.

Nel caso di differimento della udienza di prima comparizione ex art. 168 bis V° comma c.p.c. i venti giorni a ritroso si calcolano a partire dalla nuova data di udienza indicata dal giudice, mentre nel caso di rinvio della data della udienza di prima comparizione ex art. 168 bis IV° c.p.c. si calcolano a partire dalla data di udienza indicata dall’attore.

** Quid iuris nel caso dei giudizi di separazione e divorzio: qui, infatti, vi è la cd. fase presidenziale che si svolge avanti al Presidente del Tribunale e la successiva fase avanti al Giudice istruttore. Orbene nel caso in cui la parte resistente non richieda in sede di costituzione avanti al Presidente del Tribunale un assegno di mantenimento ha la possibilità di avanzare domanda riconvenzionale di assegno nei 20 gg. precedenti la prima udienza avanti al giudice istruttore? La risposta è affermativa anche se non va ignorato che la questione è di scarso interesse ben potendo ogni parte di tali giudizi, in qualsiasi stato del processo, a fronte di un mutamento della situazione patrimoniale, avanzare domande di natura economica, di modifica dei precedenti provvedimenti o di assegnazione ex novo di somma di danaro mensile.

La decadenza riguarda anche domande di accertamento incidentale (art. 34 c.p.c.) oltre che eventuali domande che il convenuto intendesse proporre nei confronti di altro convenuto nel quale caso secondo dottrina autorevole non occorre avvalersi del meccanismo che la legge prevede per la chiamata di terzo dal momento che il convenuto destinatario della nuova domanda è già parte: sarà perciò sufficiente il deposito nei termini della comparsa di risposta contenente la domanda salva la successiva notificazione della comparsa stessa nel caso di contumacia del convenuto destinatario della nuova domanda. Nella pratica giurisprudenziale, però, viene considerata e trattata come chiamata di terzo.

La decadenza dal potere di proporre la domanda riconvenzionale è rilevabile anche d’ufficio non potendosi estendere alla tardività della riconvenzionale la sanatoria per accettazione del contraddittorio che la giurisprudenza ante novella era solita ammettere con rimessione in termini da parte del convenuto. Tra l’altro recentemente la corte di cassazione ha ribadito che la rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.p.c. può essere invocata solo per la attività della fase istruttoria e non come principio generale del processo (cfr. anche Corte cost. 19.11.2004 n. 350 sulla rimessione in termini per decadenza verificatasi al di fuori del processo che ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità dell’art. 644 c.p.c. laddove non prevede la rinnovazione dei termini per colui che ha notificato tardivamente il decreto ingiuntivo per causa a lui non imputabile, proprio in base al principio suddetto).

Il sotterfugio utilizzato nella pratica in caso di decadenza è quello per il convenuto di iniziare una nuova causa per chiedere poi la riunione della nuova causa alla vecchia.

Infine è discusso se il convenuto possa presentare domanda riconvenzionale successivamente ai termini previsti qualora l’interesse sorga dalle repliche dell’attore alla prima udienza: personalmente propendo per la risposta negativa stante il rigore del termine decadenziale.

Limiti alla domanda in riconvenzione

 A proposito di domanda riconvenzionale va tenuto presente che non ogni cumulo di azioni contrapposte è ammissibile ma solo quello in cui la controdomanda proposta dal convenuto nei confronti dell’attore nello stesso giudizio da quest’ultimo instaurato presenti un particolare vincolo di connessione con la domanda principale. Il vincolo, tale da differenziare la riconvenzionale stessa dal cumulo soggettivo, è costituito dal fatto  che la causa riconvenzionale si svolge tra le stesse parti della causa principale in posizione invertita ed il convenuto, appunto, non si limita a resistere ma propone una domanda autonoma che deve essere fondata, però, sul medesimo titolo dedotto in giudizio dall’attore o dipendente da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione; solo in presenza di tali presupposti ex art. 36 c.p.c. è possibile l’influenza modificatrice della competenza, In altri termini la riconvenzionale deve dipendere da fatti che siano collegati con i fatti costitutivi della domanda principale o con i fatti estintivi, modificativi o impeditivi introdotti in causa in forma di eccezione.

Per titolo dedotto in giudizio dall’attore si intende non solo la causa petendi ma anche, in genere, ogni rapporto giuridico ritenuto esistente o inesistente rispetto all’azione ed in genere ogni situazione cui faccia riferimento la domanda. La giurisprudenza ritiene sufficiente ai fini della sussistenza di dipendenza l’unicità del rapporto o della situazione giuridica da cui traggono origine le contrapposte pretese: in buona sostanza rileva il fatto originario costitutivo del rapporto.

Esempio: domanda principale svolta dal conduttore per riduzione del canone locativo alla misura legale e domanda riconvenzionale di condanna al pagamento dei canoni proposta dal locatore.

Invece per domanda dipendente dal titolo che già appartiene alla causa quale mezzo di eccezione occorre che la domanda riconvenzionale sia fondata sul titolo della stessa eccezione sollevata e che questo titolo sia per di più autonomo rispetto a quello della domanda originaria altrimenti di ricadrebbe nella prima ipotesi.

Esempi:  eccezione di compensazione – condanna al pagamento della differenza; eccezione transazione – richiesta di adempimento; giudizio di divisione –  eccezione di appartenenza di un bene alla massa da dividere e richiesta di divisione di tale bene.

Da notarsi che la proposizione di una azione di accertamento non esclude l’esercizio di una domanda riconvenzionale di natura diversa : es. azione di condanna.

Secondo una giurisprudenza maggioritaria, però, la domanda riconvenzionale può essere proposta anche oltre i casi di connessione indicati dall’art. 36 c.p.c. purchè sussista un vincolo di collegamento con la domanda principale che renda opportuno il simultaneus processus e che non implichi uno spostamento di competenza.

 Casi di inammissibilità e/o improcedibilità della domanda riconvenzionale

Inammissibile è la domanda che non può essere proposta mentre improcedibile è la domanda che, proposta correttamente, non può più essere proseguita per il sopraggiungere di una situazione che ne impedisce la prosecuzione.

Spiegato quanto sopra, va ricordato che vi sono casi nei quali la domanda riconvenzionale non può essere proposta:

  1. a) quando il giudice della causa principale non è funzionalmente competente.

Esempio: il curatore fallimentare cita in giudizio un soggetto chiedendone la condanna al pagamento di una somma e costui non si limita ad eccepire in compensazione un proprio credito ma intende proporre domanda riconvenzionale di condanna del fallimento al pagamento. In tal caso la domanda riconvenzionale è improponibile in quanto spetta al giudice fallimentare che dovrà procedere all’ammissione o no al passivo di tale credito secondo la proceduta fallimentare;

  1. b) quando non sussistono le condizioni processuali

Esempi: in sede di giudizio di separazione personale dei coniugi non è possibile che il resistente avanzi domanda riconvenzionale di divisione dei beni in comunione in quanto la comunione si scioglie solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (art. 191 c.c); in tema di responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli e natanti per i quali vi è l’obbligo di assicurazione a norma della l. 990/1969, l’art. 22 subordina la proponibilità della azione risarcitoria alla richiesta di danno all’assicuratore nonché il decorso di 60 gg. da tale richiesta: ora tale norma trova applicazione (tenendo conto la ratio della stessa che è volta a favorire il soddisfacimento stragiudiziale delle istanze di risarcimento) anche con riguardo alla domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto ( cass. s.u. 11.11.1991 n. 1206); in tema di contratti agrari l’art. 46 l. 203/82 assoggetta le controversie agrarie al tentativo di conciliazione ivi comprese le domande riconvenzionali; nel giudizio di opposizione allo stato passivo non è ammissibile la domanda riconvenzionale (cass. 1.8.1996 n. 6963 (qui sono ritenute preminenti le esigenze di celerità).

Infine dal combinato disposto degli artt. 703 e 704 c.p.c. si evince che non è ammissibile un’azione riconvenzionale petitoria in un giudizio possessorio.

Nel caso in cui si sia omesso o sia assolutamente incerto il titolo o l’oggetto della domanda riconvenzionale l’art. 167 II° comma c.p.c.  statuisce che il giudice rilevi la nullità anche d’ufficio e fissi al convenuto un termine perentorio per integrare la domanda. La sanatoria ha efficacia ex tunc sicché restano salvi i diritti acquisti anteriormente e le decadenze che si siano verificate.

– Il problema della domanda riconvenzionale nella comparsa di costituzione e risposta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Nel giudizio di  opposizione al decreto ingiuntivo – che inizia con un atto di citazione in opposizione – l’opponente, seppur formalmente attore in opposizione, è considerato sostanzialmente convenuto mentre l’opposto, seppur formalmente convenuto, in sostanza è considerato attore avendo iniziato la causa con il deposito del ricorso per decreto ingiuntivo (in punto da ultimo cfr. cass. sez. lav. 4.8.2004 n. 14.962).

Ciò comporta che in tale giudizio  la cd. comparsa di risposta dell’opposto, di fatto, è una memoria di parte attrice in replica alle deduzioni svolte da parte opponente-convenuta.

 

Il problema, allora, è quello di verificare se ed in che termini parte opposta può svolgere domande riconvenzionali o chiamare in causa un terzo.

Orbene con riferimento al problema della domanda riconvenzionale va precisato che la domanda principale del giudizio di opposizione è la domanda introdotta con il ricorso per decreto ingiuntivo rispetto alla quale il creditore-ricorrente assume gli oneri, assertori e probatori, dell’attore, mentre il debitore opposto è gravato dell’onere di difesa, peculiare del convenuto sicché il creditore-opposto, non può valersi del potere di formulare domanda riconvenzionale  se non nei limiti della reconventio reconventionis, ex art. 183 comma 4 c.p.c., vale a dire qualora essa trovi fondamento nei fatti nuovi allegati dall’opponente con la proposizione di eccezione o di domanda riconvenzionale (in tal senso cass. sez. I 8.7.2004 n. 12.545).

Esempio: l’opponente si limita a contestare il debito senza avanzare domande riconvenzionali o eccezioni tali da giustificare la reconventio reconventionis e parte opposta, per contro, avanza domanda  riconvenzionale di condanna dell’opponente al risarcimento degli ulteriori danni da svalutazione monetaria e agli interessi anatocistici; tali domande devono ritenersi inammissibili in quanto domande nuove.

(con riguardo alla domanda da svalutazione monetaria: in tal senso cfr. cass. 17.3.1994 n. 2538 ove si precisa che “La domanda di risarcimento del danno ulteriore diverso da quello, già fatto valere, derivante dalla svalutazione monetaria, introducendo un nuovo tema di indagine, fondato su presupposti di fatto radicalmente diversi da quelli prospettati inizialmente, costituisce domanda nuova in considerazione della diversità del petitum e della causa petendi rispetto alla pretesa originaria”;

– con riguardo all’anatocismo cfr. cass. 7999/2003 che ha definito la domanda degli interessi sugli interessi come domanda nuova, autonoma e distinta rispetto a quella rivolta al riconoscimento degli interessi principali cfr. cass. 7999/2003).

Per inciso giova rilevare che nella comparsa di costituzione e risposta l’opposto può presentare anche istanza di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto  ex art. 648 c.p.c. ed il giudice istruttore se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione può concedere la provvisoria esecuzione.

** 4.b – La chiamata di terzo

art. 167 II° comma c.p.c.

Se il convenuto intende chiamare un terzo in causa deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi dell’art. 269 c.p.c.

Per la comprensione della disposizione è essenziale la sua integrazione con l’art. 269 II° comma c.p.c.. Dal combinato disposto di queste due norme emerge che il termine ultimo per la chiamata in causa di un terzo da parte del convenuto è costituito da un complesso di attività e cioè:

  1. a) dalla dichiarazione contenuta nella comparsa di risposta di voler chiamare un terzo;
  2. b) dalla contestuale richiesta al giudice di spostamento della prima udienza: per taluno tale domanda va effettuata nella forma del ricorso depositato nella cancelleria del giudice istruttore, ma nella pratica viene presentata in sede di conclusioni preliminari della comparsa di risposta;
  3. c) dal decreto del giudice istruttore di fissazione della data della nuova prima udienza – questa fissazione della nuova udienza si distingue dal differimento di ufficio dell’udienza previsto dall’art. 168 bis co. V° c.p.c. in quanto quest’ultimo avviene appunto d’ufficio -;
  4. d) dalla notificazione della citazione al terzo su istanza del convenuto nonché della comunicazione alle parti costituite del decreto con cui è fissata la data della nuova prima udienza.

Si noti bene che la chiamata di terzo non presuppone alcuna valutazione di comunanza di cause sicché il giudice deve fissare nuova prima udienza in modo che il convenuto riesca a notificare al terzo chiamato la citazione nel rispetto dei termini di cui all’art. 163 bis c.p.c..  Nel caso in cui ciò non sia stato possibile per fatto non imputabile al convenuto quest’ultimo può chiedere di essere rimesso in termini con fissazione di nuova prima udienza.

La procedura sopra indicata si applica sia quando il convenuto propone una vera e propria domanda nei confronti del terzo, facendo valere un proprio diritto nei confronti di questi, sia quando si limita ad una litisdenunciatio chiamando in causa il terzo al solo scopo di potergli opporre la sentenza che verrà pronunziata sull’originario oggetto del processo.

Inoltre va chiarito che la chiamata di terzo può essere effettuata dal difensore, tuttavia ove la citazione comporti la proposizione di una domanda nuova nei confronti del terzo – come accade nella chiamata in garanzia – è necessaria in tal senso una procura speciale se la volontà della parte non emerge chiaramente dalla procura originariamente conferita. (cass. 1983/942 e cass. 1981/5736). Ovviamente se il terzo che, pur essendo stato chiamato in causa da un difensore sfornito della procura a proporre istanze eccedenti l’ambito originario della lite, si costituisca in giudizio e, invece di eccepire la nullità dell’atto di chiamata, accetti il contraddittorio sul merito, non può più dedurre tale nullità (nè la stessa può essere rilevata d’ufficio dal giudice) nell’ulteriore corso del procedimento. (cfr. Cassazione civile, sez. II, 5 ottobre 2001, n. 12293).

– Il problema della chiamata di terzo nella comparsa di costituzione e risposta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Come sopra già illustrato nel giudizio di  opposizione a decreto ingiuntivo  l’opponente è il convenuto sostanziale e l’opposto è l’attore sostanziale sicché la chiamata di un terzo da parte dell’opposto non imporrà al giudice il differimento della prima udienza di comparizione senza alcuna possibilità di valutazione ma imporrà l’applicazione del disposto dell’art. 269 IV° comma c.p.c. che recita: “Ove a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta sia sorto  l’interesse dell’attore a chiamare in causa un terzo l’attore deve, a pena di decadenza, chiedere l’autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza. Il Giudice istruttore, se concede l’autorizzazione fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nei termini dell’art. 163 bis c.p.c.”.

Ne consegue, pertanto, che:

  1. I) l’opposto non può limitarsi a dichiarare di volere chiamare in causa un terzo ma deve essere autorizzato a ciò dal giudice;
  2. II) la valutazione del giudice deve riguardare la sussistenza o no della comunanza di causa (esempio: nel caso di contestazione da parte dell’opponente della titolarità attiva o passiva del rapporto dedotto in giudizio ovvero di domanda che, se proposta in via principale avrebbe consentito la chiamata in garanzia del terzo).

Quanto all’opponente, invece, la corte di cassazione ha statuito che essendo costui di fatto un convenuto deve pur sempre chiedere il differimento dell’udienza  laddove volesse chiamare nel giudizio un terzo. (Cfr. cass. civ. sez. I  27 giugno 2000 n. 8718: “In tema di procedimento per ingiunzione, per effetto dell’opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore, l’opponente quella di convenuto, ciò che esplica i suoi effetti non solo nell’ambito dell’onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine processuale rispettivamente previsti per ciascuna delle due parti. Ne consegue che il disposto dell’art. 269 c.p.c., che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa, non si concilia con il procedimento instaurato tramite l’opposizione al decreto, dovendo in ogni caso l’opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento, non potendo le parti originariamente essere altri che il soggetto istante per l’ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta, così che l’opponente (cui è altresì preclusa, nella qualità di convenuto sostanziale, la facoltà di chiedere lo spostamento dell’udienza, nonché quella di notificare l’opposizione a soggetto diverso dal creditore procedente in ingiunzione) deve necessariamente chiedere al giudice, con lo stesso atto di opposizione, l’autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritiene comune la causa sulla base dell’esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo).

La soluzione divisata dal supremo collegio, però, appare alquanto formalistica dal momento che non si comprende per quale motivo l’opponente che vuol chiamare un terzo in giudizio non può chiamarlo direttamente all’udienza dal medesimo fissata – tanto più che il giudice non ha alcun potere di sindacare la motivazione della chiamata – ma deve chiedere al giudice lo spostamento di tale udienza.

 Ulteriori attività da svolgere necessariamente con la comparsa di costituzione e risposta al fine di evitare la decadenza

°° art. 215 c.p.c. (Riconoscimento tacito della scrittura privata)

L’art. 215 c.p.c. recita che “la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta se la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione”.

Cosicché se con l’atto di citazione l’attore produce documentazione il convenuto deve disconoscere tale documentazione a pena di decadenza con la comparsa di costituzione e risposta.

La tardività del disconoscimento, del resto, non è rilevabile di ufficio ma deve essere eccepita dalla parte interessata.

L’eccezione di tardività del disconoscimento resta, però, preclusa ove  la parte interessata chieda la verificazione della scrittura privata trattandosi di istanza incompatibile con la volontà di far valere la tardività del disconoscimento.

°°  La problematica dell’art. 38 I° comma c.p.c. (incompetenza per territorio)

Come noto, l’incompetenza per materia, per valore e quella per territorio nei casi previsti dall’art. 28 (competenza opposizione esecuzione, procedimenti cautelari, procedimenti possessori, foro erariale, art. 12 d.lg. 50/1992 foro del domicilio del consumatore ) sono rilevabili, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza.

L’incompetenza per territorio fuori dai casi previsti dall’art. 28 c.p.c, invece, è eccepita a pena di decadenza nella comparsa di risposta. L’eccezione si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.

Dal tenore letterale della norma sopra citata sembrerebbe che tale eccezione deve essere proposta a pena di decadenza con la comparsa di costituzione e risposta.

Sennonché  se si va a leggere l’art. 180 II° comma c.p.c., così come modificato dalla L. 535/1995 – che  ha differenziato la prima udienza di comparizione da quella di trattazione emerge che il convenuto ha un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima della udienza di trattazione per proporre “eccezione processuali e di merito che non sono rilevabili di ufficio” tra le quali rientra quella in oggetto.

Le due norme citate entrano, pertanto, in contrasto.

Una parte della dottrina nel tentativo di coordinarle ha ritenuto che l’eccezione di incompetenza territoriale de qua può essere eccepita nell’intervallo tra la prima udienza di trattazione e quella di comparizione mentre altra parte della dottrina obietta che tale interpretazione mal si concilia con il rigoroso disposto dell’art. 38 II° comma c.p.c. rimasto invariato e che impone di sollevare l’eccezione con la comparsa di costituzione e risposta.

Io credo che l’opinione più corretta sia quella di applicare alla fattispecie il disposto dell’art. 180 II° comma c.p.c. in quanto norma successiva rispetto all’art. 38 II° comma c.p.c. (in tal senso cfr. cass. 24.7.2000 n. 9692); tuttavia, onde evitare di incorrere nella decadenza, pare opportuno sollevare tale eccezione in comparsa di costituzione e risposta.

  1. Ulteriori attività che è opportuno siano svolte con la comparsa di costituzione e risposta al fine di evitare una possibile decadenza

°°Art. 40 (Connessione)

Se sono proposte davanti a giudici diversi più cause le quali, per ragioni di connessione (art. 31 e ss. c.p.c) possono essere decise in un solo processo il giudice fissa con sentenza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti a quello preventivamente adito. La connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata di ufficio dopo la prima udienza.

Ne consegue che appare opportuno inserire l’eventuale eccezione di  connessione (sia propria art. 31 e ss. c.p.c. che impropria art. 103 c.p.c. – soluzioni di questioni identiche) già in comparsa di costituzione e risposta onde evitare di incorrere, poi, nella decadenza dell’eccezione una volta terminata la prima udienza.

  1. La comparsa di costituzione e risposta in alcune procedure diverse da quella del giudizio di cognizione ordinario di primo grado.

** 7.a Giudizio avanti il Giudice di pace

Nel procedimento avanti il giudice di  pace il convenuto non è tenuto a depositare, nemmeno in udienza una comparsa di risposta tuttavia può costituirsi depositando una comparsa e, se necessaria, la procura.

Può, altresì,  presentare le sue difese oralmente, contrastare in fatto o in diritto la domanda avversaria, proporre eccezioni in senso lato o in senso stretto, proporre domanda riconvenzionale. Quest’ultima è proponibile verbalmente nella prima udienza di comparizione solo nel caso in cui anche la domanda principale possa proporsi in tal modo. In ogni caso quando la domanda riconvenzionale sia inoltrata contro una parte contumace è necessario notificare il verbale di udienza ai soggetti destinatari degli atti processuali.

** 7.b Rito del lavoro e locatizio

  • § L’art. 416 c.p.c. statuisce nella prima parte che: “Il convenuto deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza … mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale devono essere proposte a pena di decadenza le eventuali domande in via riconvenzionale, e le eccezioni processuali di merito che non siano rilevate di ufficio”.

Ora in ordine alla proposizione della domanda riconvenzionale va richiamato quanto sopra illustrato mentre con riguardo alle eccezioni processuali va rilevato che nel rito del lavoro le stesse vanno inequivocabilmente sollevate in sede di comparsa di costituzione e risposta.

Esempio. Tra le eccezioni in esame sono state riconosciute le seguenti: affissione del codice disciplinare, l’avvenuto adempimento di obbligazioni pecuniaria, l’eccezione di prescrizione, l’eccezione di compensazione, mentre non sono state ritenute tali l’eccezione di incostituzionalità, la negazione del requisito contributivo da parte dell’Inps, la negazione da parte del convenuto della causa di lavoro rispetto all’infortunio in quanto mere difese che investono questioni attinenti al fondamento della pretesa  attrice che il giudice ha il potere-dovere di conoscere anche ex officio.

Peculiare è nel processo del lavoro l’eccezione di mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Infatti l’art. 412 bis c.p.c. configura l’espletamento del tentativo di conciliazione (ovvero lo scadere del termine di 60 gg. dalla presentazione della relativa richiesta : art. 410 bis c.p.c.) come condizione di procedibilità della domanda e la relativa mancanza deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c.  anche se può essere rilevata d’ufficio dal giudice purché non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. (cfr. cass. sez. lav. 16.8.2004  n. 15.956).

 E si noti che nel rito del lavoro le decadenze di cui all’art. 416 c.p.c. sono di carattere assoluto ed inderogabile e devono essere dichiarate di ufficio indipendentemente dal silenzio dell’attore o dalla circostanza che il medesimo si sia difeso sostenendo l’infondatezza nel merito delle eccezioni.

  • § Nella seconda parte l’art. 416 c.p.c. prevede che “nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, proporre tutte le difese in fatto ed in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare”.

Qui, anzitutto, va osservato che rispetto all’art. 167 c.p.c. il  convenuto deve prendere posizione in maniera “precisa” nel senso che la contestazione non può essere generica né concretizzarsi in forme di stile, espressioni apodittiche o asserzioni meramente negativa ma deve essere puntuale, circostanziata, dettagliata ed onnicomprensiva di tutte le circostanze non essendo priva di significato l’espressione sopra riportata non rivenibile nel testo dell’art. 167 c.p.c. e trovando detta espressione la sua logica spiegazione in quella che è stata definita la tendenziale unicità dell’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. in modo da consentire la immediata definizione del giudizio perseguibile in ragione della circolarità tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova nonché della completa specificazione dei dati fattuali che nel rito del lavoro connotano appunto gli atti iniziali di ciascuna parte del giudizio.

A differenza che nel rito ordinario, nel rito del lavoro la mancata indicazione dei mezzi istruttori in comparsa di costituzione  e risposta è sanzionata dalla decadenza sicché il convenuto dovrà indicare nella comparsa in maniera specifica tutti i mezzi di prova dei quali intende avvalersi (peraltro cass. sez. lav. 21.8.2004 n. 16529 rileva che l’omessa enunciazione delle generalità dei testimoni costituisce mera irregolarità e non comporta decadenza dalla prova) secondo il cd. principio dell’eventualità ossia indicando tutti i mezzi di prova prima di sapere se i fatti cui si riferiscono saranno contestati o meno dalla controparte.

Da notare, poi, che la decadenza sancita dall’art. 416, comma 3, c.p.c. si riferisce anche alla prova documentale; pertanto il convenuto costituitosi tardivamente, oltre il termine di cui all’art. 416 c.p.c., non ha facoltà di produrre documenti, salvo l’ipotesi di documenti formati successivamente al termine di costituzione, ovvero di provata difficoltà a procurarsi il documento, (come potrebbe essere in caso di successione nel processo ai sensi dell’art. 111 c.p.c.), ovvero nel caso che la relativa produzione sia giustificata dallo sviluppo del giudizio. (cfr Cassazione civile, sez. lav., 29 ottobre 2003, n. 16265).

In ogni caso, per completezza, giova ricordare che tale rigido sistema di preclusioni ha indotto il legislatore ad attribuire al giudice, ex art. 421 II°° comma c.p.c., poteri di ufficio in materia di ammissione di mezzi di prova al fine di contemperare il principio dispositivo con l’esigenza della ricerca della verità materiale di guisa che allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova ma ha il potere dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danni delle parti (cfr. cass. s.u. 17.6.2004 n. 11.533 e cass. s.u. 23.1.2002 n. 761).

** 7.c Rito cd. societario.

 Il decreto legislativo del 17 gennaio 2003 n. 5 concernente la «Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12, della legge 3 ottobre 2001, n. 366»,- entrato in vigore dal giorno 1 gennaio 2004 –  affiancandosi alla riforma del diritto sostanziale societario, introduce un nuovo rito che mira a consentire, secondo le indicazioni contenute nella legge delega, una “rapida ed efficace definizione dei giudizi”.

La disciplina del nuovo rito societario è interamente contenuta nel d.lgs. 5/03, nella versione che è risultata all’esito degli interventi correttivi del settembre 2003, del decreto 6 febbraio 2004, n. 37 e del d.lgs 310/2004.  Ne discende che le norme del libro secondo del c.p.c. si applicano solo in via residuale, mentre continuano ad applicarsi le norme del libro primo aventi ad oggetto i principi. Ugualmente l’esecuzione dei provvedimenti è regolata dalle norme del terzo libro del c.p.c.

Il nuovo rito commerciale recepisce i risultati dei lavori preparatori della riforma del codice di procedura civile e le linee guida elaborate dalla Commissione Vaccarella  e si caratterizza per una netta distinzione fra la fase preparatoria, che si svolge nel contraddittorio tra le parti senza alcun intervento dell’organo giudicante, al quale invece è demandata la direzione della fase istruttoria, di discussione e decisione – quasi sempre collegiale – che prende avvio a seguito dell’istanza che può essere proposta da ciascuna parte o da entrambe congiuntamente di fissazione dell’udienza di trattazione.

Più vicine alla disciplina del processo ordinario sono, invece, le modalità di introduzione del giudizio societario. Il processo commerciale prende avvio, ai sensi dell’art. 2 d. lgs. n. 5/2003, con un atto di citazione che l’attore deve notificare al convenuto.

Il convenuto a sua volta deve notificare la comparsa di costituzione e risposta.

A differenza di quel che accade nel processo ordinario di cognizione ai sensi dell’art. 166 c.p.c., la comparsa di risposta non è depositata presso la cancelleria del giudice contestualmente alla costituzione in giudizio del citato in causa, ma è direttamente e in primo luogo notificata all’attore. C’è quindi una discrasia temporale tra il momento in cui l’attore ha la possibilità di conoscere le difese del convenuto e il momento in cui quest’ultimo si presenta al giudice, giustificata proprio dalla struttura di questa fase iniziale che esclude la presenza del giudice.

L’art. 4, co. 1, d. lgs. n. 5/2003 indica analiticamente il contenuto della comparsa di risposta disponendo che il convenuto deve proporre nella comparsa di risposta tutte le sue difese, prendendo posizione sui fatti posti a fondamento della domanda ed indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi, nonché i documenti che offre in comunicazione, deve proporre le domande riconvenzionali dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, dichiarare di voler chiamare in causa i terzi ai quali ritiene comune la causa o dai quali pretende di essere garantito precisandone le ragioni, formulare le conclusioni.

La sussistenza di vere e proprie attività da compiersi, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione e risposta è, oggi, espressamente indicata per effetto delle modifiche introdotte all’art. 4, co. 1, dal d. lgs. 37/2004, che le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo sono precluse se non compiute nel termine entro cui il primo atto difensivo del convenuto è notificato all’attore.

Per quel che riguarda la domanda riconvenzionale la norma in esame richiede che sia dipendente dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. L’identità, anche letterale, di questa parte della disposizione in commento con la previsione dell’art. 36 c.p.c., consente di ritenere applicabili nel nuovo processo societario i risultati interpretativi che si sono consolidati con riguardo al giudizio ordinario di cognizione.

Quanto alla chiamata in causa del terzo si dispone che il convenuto debba notificare nei confronti di quest’ultimo, l’atto di citazione ai sensi dell’art. 2. Relativamente alle ragioni che legittimano la chiamata in causa del terzo, la disposizione in commento mutua direttamente la previsione contenuta nell’art. 106 c.p.c. e prevede che il convenuto possa “dichiarare di voler chiamare in causa terzi ai quali ritiene comune la causa o dai quali pretende di essere garantito precisandone le ragioni”.

Nuova rispetto alla legge processuale della cognizione ordinaria è la necessità che l’atto di chiamata in causa del terzo contenga anche l’espressa indicazione delle ragioni su cui il convenuto chiamante intende fondare l’ingresso in causa del terzo.

Seppure il risultato sia già stato raggiunto, anche per il processo ordinario di cognizione,  in via interpretativa – sul rilievo che la chiamata del terzo è, in sostanza, la proposizione di una domanda giudiziale nei confronti di quest’ultimo e deve contenerne tutti gli elementi necessari, tra cui anche l’espressa indicazione della causa petendi, la cui mancanza non può che viziare di nullità la domanda rivolta al terzo – l’avvenuta precisazione anche nella legislazione positiva non può che essere giudicata con favore se solo si pensa alla prassi, sempre più invalsa, di confezionare gli atti di chiamata del terzo attraverso la mera trascrizione della citazione introduttiva e della comparsa di risposta, poi seguita dalla vocatio in ius del terzo e dalla formulazione di scarnificate conclusioni.

Il legislatore recentemente è intervenuto sul dibattuto profilo della configurabilità di specifici momenti preclusivi legati alla progressione degli atti difensivi e che era già stata affermata espressamente dalla Relazione accompagnatoria al decreto del processo societario ed anche presupposta dalla disposizione di chiusura di cui all’art. 13, ultimo comma, che individua precisi termini decadenziali, non sanabili neppure per effetto della pronuncia di rimessione in termini.

La versione novellata della norma in esame chiarisce in modo netto quali sono le attività difensive del convenuto da ritenersi precluse nel termine per la sua tempestiva costituzione e quali altre attività difensive rimangono ammissibili anche oltre tale termine.

Rimane, allora, definitivamente superata la lettura che individuava l’onere delle parti di svolgere le varie attività difensive, a pena di decadenza, entro il termine per la notificazione all’avversario dell’atto difensivo “tipico” indicato dalla legge come deputato a contenere appunto tali attività oppure in un ulteriore atto difensivo “atipico” da dimettersi in cancelleria e da notificarsi alle altre parti.

** Con la comparsa di costituzione e risposta, che il convenuto notifica e poi deposita in prima fase preparatoria del processo apud iudicem, non matura la preclusione del potere di formulare conclusioni poichè, anche dopo la recente modifica normativa, alla previsione di questa attività processuale non è accostato alcun effetto immediatamente decadenziale. La conclusione nuova ammissibile anche oltre il termine di costituzione tempestiva del convenuto ex art. 5 d. lgs. 5/03 coincide sia con il rilievo delle eccezioni, sia con la formulazione di ogni difesa che resti nell’ambito del thema decidendum fissato dalla domanda introduttiva dell’attore: si pensi, in particolare, al perdurare dell’ammissibilità delle eccezioni riconvenzionali.

Il convenuto non è, pertanto, obbligato a porre in essere tutte le attività scandite analiticamente dalla norma in commento necessariamente nella comparsa di risposta. Lo svolgimento delle ulteriori difese già in limine litis è, invece, rimesso alla esclusiva disponibilità e scelta di tattica processuale delle parti consapevoli che una difesa incompleta sconta sempre il rischio dell’istanza di fissazione dell’udienza proposta dalla parte avversaria.

Si tratta, ancora una volta, di una scelta di strategia processuale rimessa al difensore del convenuto per il quale, fin dal primo momento in cui si accinge a confezionare la comparsa di costituzione e risposta, si profila una duplice alternativa.

Una prima scelta potrà essere nella direzione del compimento esaustivo delle suindicate attività nella comparsa di risposta, enunciando in modo circostanziato, e pressoché definitivo, anche le conclusioni che intende assumere nei confronti dell’attore, in modo da tutelarsi il più possibile per l’eventualità in cui l’attore depositi l’istanza di fissazione dell’udienza. Infatti con il dlgs 310/2004 è stato aggiunto il comma 2 bis all’art. 10 dlgs 5/2003 il quale statuisce che “La notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza rende pacifici i fatti allegati dalle parti ed in precedenza non specificamente contestati”.

L’altra via, che il difensore del convenuto potrà seguire, è il dilazionare nello svolgimento del processo, ossia nelle repliche successive, la proposizione delle attività non soggette a termini decadenziali iniziali o sino a che questi non si siano altrimenti avverati, seppur accettando il rischio del deposito della istanza di fissazione dell’udienza da parte dell’attore e il conseguente prodursi del generale effetto decadenziale.

A tale ultimo momento si accompagna anche il definitivo formarsi della non contestazione del convenuto, sui fatti di causa che non sono stati oggetto di alcuna sua attività difensiva volta a dimostrarne la non veridicità o l’irrilevanza ai fini del decidere.

Qualunque sia la scelta di difesa del convenuto la comparsa di risposta dovrà comunque avere un contenuto “minimo” e quindi:

  1. I) le difese, vale a dire gli argomenti invocati dal convenuto per ottenere il rigetto della domanda dell’attore;
  2. II) le conclusioni, ossia la richiesta giudiziale che si intende formulare al giudice e che, in ragione della posizione passiva del convenuto nel rapporto processuale, dovrà consistere, quantomeno, nella richiesta del rigetto della domanda formulata dall’attore.

Il carattere necessario dell’elemento delle conclusioni, ferma la loro variabilità anche pendente judicio, è confermato dalla circostanza che l’attore anche fin da subito, ossia non appena ha ricevuto la comunicazione del termine che il convenuto gli ha assegnato per la replica, può scegliere la via dell’istanza di fissazione dell’udienza, in luogo dell’ulteriore replica, con il conseguente prodursi del generale effetto decadenziale. E, in caso di assenza di conclusioni, il convenuto si troverebbe esposto ad un pressoché certo accoglimento della domanda dell’attore.

L’indicazione delle difese è coerente con la disposizione contenuta all’art. 5, co. 2, che – come vedremo tra poco – permette di modulare lo svolgimento del processo secondo un rito “semplificato”.

Per le attività poste espressamente a pena di decadenza occorre, comunque, ribadire che si tratta di decadenze rilevabili solo su eccezione della parte interessata secondo la previsione dell’art. 10, co. 2, e dell’art. 13, co. 4, da farsi valere nel primo atto o difesa successivi al compimento dell’attività avversaria inammissibile in quanto tardiva.

** Anche al convenuto del processo societario è attribuito il potere di scegliere se avvalersi o meno dei nuovi mezzi del fax o della posta elettronica per ricevere le comunicazioni e le notificazioni dei successivi atti del giudizio e sul punto valgono le considerazioni che abbiamo già svolto.

Nella comparsa di risposta, il convenuto che non intende notificare l’istanza di fissazione dell’udienza, è tenuto ad assegnare all’attore un termine per eventuale replica non inferiore a trenta giorni; il dies a quo coincide con il giorno in cui la comparsa di costituzione del convenuto è notificata all’attore.

La norma che si commenta disciplina anche il caso in cui il convenuto non abbia provveduto all’assegnazione del termine all’attore e la correlata fattispecie in cui il termine assegnato abbia durata inferiore a quella minima fissata dalla legge: varrà, per entrambe le ipotesi, la regola residuale che il termine a disposizione dell’attore per l’eventuale replica è, comunque, di trenta giorni.

La parte finale del 2 comma della norma in commento detta il termine da assegnarsi all’attore per la replica nell’ipotesi di litisconsorzio passivo stabilendo che a fronte di una pluralità di convenuti, il termine fissato all’attore per la replica non può eccedere i sessanta giorni. La ratio di questa diversa disciplina è, senza dubbio, da ricercarsi nella circostanza che se ogni convenuto fosse libero di fissare all’attore un termine senza un “tetto” massimo, che valga a contenere le eventuali divergenze tra i vari termini assegnati da ciascun soggetto passivo del rapporto processuale, avrebbe certamente luogo una “sfasatura” dei tempi processuali per la proposizione delle eventuali repliche e controrepliche ovvero per la richiesta di fissazione dell’udienza con riferimento a ciascun originario convenuto. L’attore rischierebbe, cioè, di trovarsi a dover rispettare tempi processuali diversi nei confronti di ciascun convenuto originario e, di conseguenza, anche questi ultimi nei confronti del medesimo attore. Con ulteriori e gravi difficoltà che si verificherebbero con riferimento al meccanismo delle preclusioni che maturano al momento della notificazione della richiesta di fissazione dell’udienza. E l’impasse si accentuerebbe in grado ancora maggiore nei casi di litisconsorzio necessario.

La norma in commento precisa ancora che l’inosservanza di tale termine può essere eccepita dagli altri convenuti. Questa disciplina si applica unicamente nei casi in cui la pluralità di parti è originaria. Qualora, invece, il giudizio diventi litisconsortile per effetto della chiamata di un terzo, il rapporto processuale tra attore e convenuto continua ad essere soggetto alla regola originaria secondo cui il termine assegnato all’attore per replica non può avere durata inferiore a trenta giorni.

Il secondo comma della norma in commento fa espressamente salva la possibilità che il convenuto, in netta alternativa all’assegnazione all’attore del termine per la replica, proceda alla notifica dell’istanza di fissazione di udienza richiamando la disciplina scandita dall’art. 8, 2 comma, lett. c), per cui la notifica dell’istanza può avvenire attraverso un autonomo atto che deve giungere a conoscenza dell’attore nel termine di quindici giorni dalla costituzione del convenuto. Nulla, peraltro, esclude che il convenuto formuli l’istanza di fissazione d’udienza direttamente nella comparsa di costituzione e risposta.

Qualora il convenuto, nella comparsa di risposta, non si limiti alle mere difese, ma amplii anche l’oggetto del giudizio non può chiedere l’immediata fissazione dell’udienza, come parrebbe, invece, consentito dall’art. 4, co. 2, e deve permettere all’attore di prendere posizione sui fatti così introdotti in giudizio, garantendo il pieno esercizio del diritto di difesa.

Lo stesso discorso vale per l’ipotesi in cui il convenuto abbia chiamato in giudizio un terzo il quale si sia costituito – secondo le stesse modalità già viste per il convenuto – notificando al chiamante una comparsa di risposta in cui prende posizione sui fatti allegati da quest’ultimo.

Pertanto l’operare del principio secondo il quale sin dall’avvio del processo societario per ogni atto che le parti dimettono in causa è possibile l’immediato verificarsi del generale effetto decadenziale correlato alla notificazione ad opera dell’avversario dell’istanza di fissazione di udienza incontra il limite del rispetto del principio del contraddittorio.

** Infine va ricordato che il legislatore ha previsto due termini differenti entro cui la costituzione del convenuto è tempestiva a seconda che il giudizio si svolga o meno tra una pluralità di parti.

Nella prima ipotesi ai sensi del primo comma dell’art. 5 d. lgs. n. 5/2003 la costituzione del convenuto deve avvenire nei dieci giorni successivi alla notifica della comparsa di costituzione e risposta che, lo ricordiamo, è tempestiva se compiuta nel rispetto del termine assegnato dall’attore, nella citazione introduttiva, per tale incombenza. La versione attuale della norma è il frutto dell’intervento attuato con il d. lgs. 37/2004, che ha sostituito il precedente riferimento alla sola scadenza del termine assegnato dall’attore in citazione.

Nella seconda ipotesi, invece,  la costituzione del convenuto, per essere tempestiva, deve perfezionarsi nel rispetto dei dieci giorni successivi al compimento del termine prolungato al sessantesimo giorno successivo all’iscrizione a ruolo della causa di cui all’art. 3, 2 comma.

Quanto alle modalità di costituzione del convenuto è previsto che essa avvenga mediante il deposito del proprio fascicolo in cancelleria, nel quale devono essere inseriti, oltre alla procura e ai documenti che il convenuto offre in comunicazione, anche la copia dell’atto di citazione e la copia della comparsa di risposta notificata all’attore

** 7.d – La comparsa di costituzione e risposta in grado di appello

 Infine un breve accenno merita anche la comparsa di costituzione e risposta in grado di appello, ossia quell’atto con il quale la parte appellata espone la propria difesa.

La parte appellata deve costituirsi depositando in cancelleria comparsa di costituzione e risposta ex art.  347 c.p.c. venti giorni prima dell’udienza (10 gg. in caso di abbreviazione dei termini): può costituirsi anche all’udienza ex art. 171 c.p.c. ma in tal caso incorre nelle decadenze di cui agli artt. 343 c.p.c. e 346 c.p.c..

7.d.1 – Le attività da svolgere a pena di decadenza

In particolare l’art. 343 c.p.c. prevede che la parte appellata che sia soccombente su alcuni capi della sentenza ha l’onere di proporre appello incidentale con la comparsa di costituzione e risposta – all’atto della costituzione in cancelleria – se vuole ottenere una pronunzia che riformi la sentenza stessa anche in danno dell’appellante principale (stante il divieto della reformatio in peius).

L’art. 346 c.p.c, invece, statuisce che le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado che non sono espressamente riproposte in appello si intendono rinunziate. E sia la dottrina che la giurisprudenza individuano nella comparsa di costituzione e risposta l’atto con il quale la parte deve riproporre le domande e le eccezioni non accolte. Nella comparsa ovviamente la parte non può limitarsi ad una generica dichiarazione di volontà o richiamo a quando dedotto in primo grado occorrendo, invece, una specifica enunciazione dei punti riproposti.

Il rapporto tra il disposto dell’art. 343 c.p.c. e la statuizione dell’art. 346 c.p.c.  costituisce una delle grandi problematiche del giudizio di appello in quanto vi è notevole incertezza su quando la parte deve proporre appello incidentale e quando, invece, può riproporre le domande o le eccezioni non accolte in primo grado.

La compiuta disamina delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali in punto esigerebbe molto tempo. Qui basti considerare che secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario l’appello incidentale è necessario per le domande autonome esaminate e respinte mentre la semplice riproposizione delle domande non accolte vale quando non vengono accolte domande alternative, o subordinate in quanto assorbite con le ragioni di accoglimento della domanda o con l’accoglimento della domanda principale.

[esempio: se la parte vittoriosa vuole ottenere la modifica della motivazione o il riesame di questioni o eccezioni pregiudiziali o preliminari risolte sfavorevolmente non deve proporre appello incidentale ma semplicemente riproporle).(cfr. in tal senso cass. s.u. 29.7.2002 n. 11.202 in tema di litisconsorzio alternativo passivo ma contra cass. sez. lav. 5.3.2003 n. 3.261 che ha invece richiesto l’appello incidentale].

Quanto alle eccezioni respinte o non accolte per assorbimento derivante dall’accoglimento della domanda o di altra eccezione – sia che si tratti di merito che processuali  – vanno sempre riproposte anche se rilevabili di ufficio. In quest’ultimo caso, però, il giudice se non riproposte potrà rilevarle d’ufficio sempre che sul punto non si sia formato il giudicato in ordine alla sentenza di primo grado.

Poiché l’art. 346 c.p.c. si riferisce espressamente alle sole domande ed eccezioni si esclude che occorra l’espressa riproposizione delle istanze istruttorie formulate e respinte in primo grado che si intendono automaticamente richiamate con la riproposizione o l’impugnazione del punto di merito cui si riferiscono.

7.d.2 – Le domande e le eccezioni nuove nonché i mezzi di prova nuovi

Infine merita attenzione ai fini dell’individuazione del contenuto della comparsa  di costituzione e di risposta di appello l’art. 345 c.p.c.  il quale espressamente vieta la proposizione di domande nuove nel giudizio di appello (a pena di inammissibilità) – e quindi anche di domande riconvenzionali – pur potendo l’appellato domandare gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata nonché il risarcimento dei danni  sofferti dopo la sentenza stessa.

(Esempi. Sono state ritenute domande nuove:

  1. a) la domanda di pagamento di somma formulata a titolo contrattuale in primo grado e, in appello, a titolo di responsabilità extracontrattuale; b)
  2. b) la domanda di risarcimento del danno biologico non ricompressa tra le voci specifiche di danno indicate nel giudizio di prima grado;
  3. c) la domanda di simulazione relativa rispetto a quella di simulazione assoluta.

Si tenga presente, comunque, il principio generale che la domanda è nuova quando viene introdotto nel processo un nuovo tema di indagine.

Non sono state ritenute domande nuove, invece,:

  1. a) quella con la quale viene prospettata la qualificazione del rapporto come appalto anziché come vendita ferma restando in ogni caso la domanda di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo della cosa già formulato in primo grado;
  2. b) quelle che sono consentite in deroga dalla legge: es. quella di risoluzione del contratto in sostituzione dell’originario petitum di adempimento; oppure la richiesta di riduzione del contratto ad equità ex art. 1450 c.c. in tema di rescissione).

Non sono ammesse, poi, nemmeno nuove eccezioni che non siano rilevabili di ufficio né mezzi di prova nuovi (e tali sono le prove dirette alla dimostrazione di un fatto mediante mezzo istruttorio diverso rispetto a quello del primo grado o le prove che vertono su circostanze del tutto diverse e distinte da quelle che hanno formato oggetto del medesimo tipo di prova già assunto in primo grado) salvo che il collegio non li ritenga indispensabili  ai fini della decisione della causa ovvero che la parti dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabili.

Per contro sono ammesse:

  1. I) le mere difese che consistono nella semplice contestazione dei fatti costitutivi sui quali si fonda la pretesa dell’appellante o della fondatezza giuridica di tale pretesa anche sotto il profilo della qualificazione del rapporto o, comunque, degli effetti ex adverso ricollegati alla fattispecie;
  2. II) la produzione di documenti ivi compresi quelli che la parte non ha potuto produrre in primo grado perché incorsa nelle decadenze di cui all’art. 184 c.p.c..

febbraio 2005

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L’ACQUISIZIONE DEL FASCICOLO D’UFFICIO DI ALTRA FASE O GRADO NEL PCT

Tra gli argomenti che formano oggetto di quesiti sempre più frequenti v’è quello che attiene alle modalità di “acquisizione” dei fascicoli informatici relativi ai procedimenti cautelari in quelli dei reclami, ai fascicoli monitori nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo e, più in generale, dei fascicoli “principali” nei sub-procedimenti, così come del fascicolo di primo grado nel giudizio d’appello.

L’ “acquisizione del fascicolo”, intesa in senso tradizionale come allegazione fisica del fascicolo (d’ufficio o di parte) cartaceo, costituisce infatti uno degli aspetti normativamente disciplinati dal codice di rito che genera maggiori difficoltà di coordinamento con la disciplina del processo civile telematico.

Si veda, ad esempio, per il giudizio d’appello, l’art. 347 c.p.c. , secondo il quale «Il cancelliere … richiede la trasmissione del fascicolo d’ufficio al cancelliere del giudice di primo grado»), oppure si pensi, analogamente, alla norma di cui all’art. 638 c.p.c., relativa ai giudizi monitori, che prevede la facoltà di “ritiro” dei documenti a corredo del ricorso solo una volta maturata la «scadenza del termine stabilito nel decreto d’ingiunzione a norma dell’articolo 641» ovvero una volta intervenuta l’opposizione, onde consentire all’opposto il deposito a corredo della comparsa di risposta [1].

Com’è naturale, le richiamate disposizioni del codice di rito sono state pensate, e successivamente elaborate dalla produzione giurisprudenziale, in un contesto processuale meramente cartaceo. Accade oggi, invece, che i documenti prodotti a corredo di una domanda di ingiunzione, obbligatoriamente telematica ai sensi dell’art. art. 16 bis, comma 4, DL 179/2012: è intuitivo che, una volta depositati, quei documenti non possono essere “ritirati” (ovvero sottratti alla disponibilità del Giudice o di altra parte che acceda al fascicolo), potendo al più essere estratti e quindi nuovamente depositati in altro fascicolo.

Quanto ai fascicoli informatici da trasmettere alla Corte d’Appello ai sensi dell’art. 347 c.p.c., così come ai fascicoli dei procedimenti cautelari che devono essere acquisiti a quelli del merito o in quelli dei reclami, si pone analoga questione, con la evidente differenza che, pur avendo le parti la concreta disponibilità degli atti e dei provvedimenti dei fascicoli medesimi (estraibili da remoto), non può configurarsi a carico delle stesse alcun onere di rideposito.

Tale problematica è avviata verso una ragionevole soluzione attraverso l’acquisizione informatica d’ufficio, che ha formato oggetto di una delle ultime modifiche evolutive del PCT.   Nella circolare M_dg_DOG07.23/05/2017.0012619U è infatti illustrato il meccanismo di visibilità per il magistrato assegnatario del procedimento di alcuni sub procedimenti o di procedimenti relativi ad altre fasi.

Mentre la visibilità del fascicolo di primo grado nel giudizio d’appello aveva già formato oggetto di precedente modifica evolutiva, da maggio 2017 il Magistrato può estrarre in Consolle anche il riferimento tra fascicoli.  E’ precisato che, ad esempio, un magistrato assegnatario di un’opposizione a decreto ingiuntivo ha la possibilità di estrarre in Consolle il procedimento di opposizione a lui assegnato e, in visibilità, il procedimento monitorio cui afferisce.

I procedimenti interessati da tale modifica sono:

  • L’opposizione a decreto ingiuntivo
  • La correzione d’errore materiale
  • L’opposizione rito Fornero o accertamenti tecnici preventivi
  • Il merito relativo a procedimento cautelare
  • Cause di merito e sub-procedimenti
  • Eventi esecuzioni.

Non è allo stato chiaro, e ci riserviamo di verificare e di testare anche tale aspetto del problema, se una volta dato in visibilità un fascicolo cautelare al Giudice di primo grado, tale visibilità sia consentita «a catena» anche nel giudizio d’appello.

—————————–
[1]  Si ricorda al riguardo, incidentalmente, la pronuncia della S.C. a sez. un. – 10 luglio 2015, n. 14475, secondo cui « La preclusione alla produzione documentale in appello, ai sensi dell’art. 345, co. III, c.p.c., non è destinata ad operare per i documenti prodotti in “fasi” del processo antecedenti, come accade per i documenti prodotti nell’ambito di un procedimento monitorio. Ed infatti, l’art. 345, co. III, c.p.c. (nel testo risultante dalle modifiche di cui apportate dall’art. 52 della legge n. 353/90, applicato con decorrenza dal 30 aprile 1995), deve essere interpretato nel senso che, i documenti che sono stati allegati al ricorso per decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui non siano stati prodotti nella fase di opposizione, non possono essere considerati nuovi alla stregua del disposto della norma in commento e, dunque, nel caso in cui fossero allegati all’atto di appello contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, dovranno essere ritenuti ammissibili»
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